Una rosa rossa su Saturno: Cassini fotografa un enorme uragano

L’immagine è mozzafiato: la sonda spaziale Cassini ci regala uno scatto d’autore di un uragano di dimensioni gigantesche sul Polo nord di Saturno. L’occhio del ciclone è largo circa 2000 chilometri, il che vuol dire 20 volte più grande di un comune uragano sulla Terra, con venti impetuosi che soffiano alla velocità impressionante di 540 chilometri all’ora (150 metri al secondo).  La tempesta si alimenta tramite vapore acqueo. L’immagine è stata scattate dalla sonda NASA/ESA/ASI sul Polo nord di Cassini, da una distanza di 419mila chilometri. Lo scatto risale al 27 novembre 2012: probabilmente l’uragano era già attivo da molto tempo. Cassini è in orbita attorno a Saturno ormai dal 2004, ma solo di recente ha potuto osservare questo fenomeno grazie alla favorevole angolazione della luce solare. Le immagini scattate dalla sonda Cassini hanno utilizzato una combinazione di filtri spettrali sensibili alle lunghezze d’onda del vicino infrarosso. Poiché queste lunghezze d’onda non sono visibili all’occhio umano, l’immagine qui presentata è in falsi colori: le radiazioni filtrate a 890 nanometri sono visualizzate in blu, quelle a 728 nanometri in verde, e quelle filtrate a 752 nanometri in rosso. In questa immagine, le parti rosse indicano le nuvole più basse, e il verde quelle più alte.

Le costellazioni nel mese di maggio

E’ impossibile non associare il mese di maggio alla bellissima stagione primaverile, quando finalmente si ripongono i cappotti negli armadi e ci si può trattenere fuori anche nelle ore serali, senza battere i denti, ad osservare il cielo ad occhio nudo. Alte nel cielo, in direzione sud, le costellazioni del Leone e della Vergine, tra le più estese dello zodiaco, dominano la volta celeste.
Quest’ultima è un’ampia costellazione zodiacale le cui stelle più luminose disegnano una evidente Y. Gli oggetti celesti più importanti visibili ad occhio nudo che costituiscono tale costellazione, o che si trovano in corrispondenza di essa, sono Alpha Virginis, nota come Spica, la quindicesima stella apparentemente più luminosa del cielo che marca la base della Y. Poi c’è l’Ammasso di Galassie della Vergine che riempie quasi totalmente la parte superiore della Y; questo ricco ammasso contiene almeno 2.500 galassie di diverso tipo, dalle spirali alle ellittiche, e si trova a circa 60 milioni di anni luce da noi.
Sotto la Vergine possiamo riconoscere le costellazioni, di dimensioni decisamente minori, del Corvo e del Cratere. Le stelle più brillanti le troviamo più a Nord-Est; Arturo, nel Bootes, la costellazione del “pastore guardiano” delle due orse, e la stella Vega della Lira che dominerà i cieli estivi.
Continua il periodo di visibilità ottimale per l’Orsa Maggiore, che si trova praticamente allo zenit. Unico punto fisso della volta celeste – almeno in prima approssimazione – la stella polare  nell’Orsa Minore ci indica la direzione del Nord. Queste due costellazioni sono strettamente legate anche nella leggenda greca che narra della trasformazione in orse della ninfa Callisto e del figlio Arcade ad opera di Giunone, gelosa delle attenzioni di Zeus verso la bella Callisto. Per proteggerle dai cacciatori, Zeus decise quindi di porle in cielo, ma facendole ruotare intorno al polo celeste per non perderle mai di vista.
Tra le due Orse si snoda, sinuosa come un serpente, la lunga costellazione del Dragone. Al centro del triangolo formato da Orsa Maggiore, Leone e Bootes, possiamo riconoscere le piccole costellazioni dei Cani da Caccia e della Chioma di Berenice. Il suo mito è legato ad un personaggio storico realmente esistito. Berenice era infatti la moglie di Tolomeo III Euergete, re d’Egitto (III secolo a.C.), della dinastia dei Tolomei, la cui più nota esponente, nonché ultima discendente, fu la famosissima Cleopatra.
Nelle prime ore della sera, basse sull’orizzonte occidentale, c’è ancora il tempo di ammirare alcune delle costellazioni che sono state protagoniste dei cieli invernali, in particolare l’Auriga, i Gemelli e, un po’ più in alto, la debole costellazione del Cancro. In tarda serata vedremo invece sorgere in successione a Sud-Est la Bilancia, lo Scorpione, l’Ofiuco e il Sagittario.
Sopra l’Ofiuco possiamo riconoscere la Corona Boreale e la costellazione diErcole. La panoramica della volta celeste si conclude a settentrione, sotto l’Orsa Minore, con Cassiopea e Cefeo.
A Nord-Est cominciano ad affacciarsi a notte inoltrata la già citata Lira, il Cigno e l’Aquila, che si accingono a diventare le protagoniste del cielo estivo.
Tratto da Astronomia.com

Ancora un punto per Einstein

Il telescopio VLT (Very Large Telescope) dell’ESO, insieme a radio telescopi di tutto il mondo, ha permesso agli astronomi di  trovare e studiare una bizzarra coppia di stelle formata dalla stella di neutroni più massiccia finora nota intorno a cui orbita una nana bianca. Questa strana binaria permette di verificare la teoria della gravità di Einstein – la relatività generale – in modi che finora non erano possibili. Per il momento, le nuove osservazioni sono perfettamente in accordo con le previsioni della relatività generale, mentre non sono consistenti con alcune delle teorie alternative. I risultati sono stati pubblicati dalla rivista Science il 26 aprile.
Un’equipe internazionale ha scoperto un oggetto doppio un po’ strano, formato da un stella a neutroni, piccola ma insolitamente pesante, che ruota su se stessa 25 volte ogni secondo, intorno a cui ogni due ore e mezza orbita una nana bianca. La stella di neutroni è una pulsar che emette onde radio che possono essere intercettate dai radiotelescopi sulla Terra. È una coppia molto interessante di per sè, ma è anche un laboratorio unico di verifica dei limiti delle teorie fisiche.
La pulsar si chiama PSR J0348+0432 ed è il resto di un’esplosione di supernova. È due volte più pesante del Sole, ma è grande solo 20 chilometri. La forza di gravità alla superficie è più di 300 miliardi di volte maggiore di quella sulla Terra e nel centro ogni cubetto di materia delle dimensioni di una zolletta di zucchero contiene più di un miliardo di tonnellate di materia. La compagna nana bianca è solo leggermente meno esotica: è il resto incandescente di una stella più leggera che ha perso la propria atmosfera e si sta ora lentamente raffreddando.
La teoria della relatività generale di Einstein, che spiega la forza di gravità come una conseguenza della curvatura dello spazio-tempo dovuta alla presenza di massa ed energia, ha superato tutti i controlli fin dall’epoca della sua pubblicazione, un centinaio di anni fa.
Ma i fisici hanno escogitato altre teorie della gravità che danno previsioni diverse da quelle della relatività generale. Per alcune di queste alternative, la differenza si manifesta solo in campi gravitazionali molto forti che non si trovano all’interno del Sistema Solare. In termini di gravità, PSR J0348+0432 è un oggetto realmente estremo, anche rispetto alle altre pulsar che sono state usate nei test ad alta precisione della relatività generale di Einstein. In questi campi gravitazionali così intensi, piccole variazioni di massa possono portare a grandi cambiamenti dello spazio-tempo intorno all’oggetto. Fino ad ora gli astronomi non avevano idea di ciò che sarebbe potuto accadere in presenza di una stella di neutroni così massiccia come PSR J0348+0432, che offre perciò l’opportunità unica di spingere queste verifiche in nuovi territori. L’equipe ha combinato osservazioni della nana bianca ottenute con il VLT (Very Large Telescope) con una scala temporale molto precisa della pulsar misurata dai radiotelescopi. Un binaria così stretta emette radiazioni gravitazionali e perde di conseguenza energia. Ciò modifica leggermente il periodo orbitale, ma le previsioni della relatività generale e delle altre teorie in competizione su come debba essere questo cambiamento sono diverse. Nel 2003, un oggetto altrettanto interessante per la verifica delle teorie di Einstein fu scoperto da un team di ricercatori italiani. ”La pulsar doppia J0737-3039 – dichiara Marta Burgay dell’Osservatorio Astronomico di Cagliari dell’INAF, che fu prima autrice dell’articolo che ne annunciò la scoperta – è un sistema binario formato da due stelle di neutroni e costituisce tuttora il migliore laboratorio per stabilire i limiti di validità della teoria della Relatività Generale di Einstein, che si è mostrata prevedere il comportamento della Natura con un errore massimo dello 0.05%. D’altro canto le perduranti difficoltà nel conciliare i fenomeni legati alla gravità e quelli della fisica quantistica, potrebbero indicare che la teoria della Relatività Generale non è l’ultima parola”. Difatti – spiega Andrea Possenti, membro del team che scoprì la pulsar Doppia – negli ultimi decenni sono state proposte molte teorie della gravità alternative alla Relatività Generale… E qui si innesta la scoperta del sistema binario relativistico J0348+0432. Le due stelle di questa coppia sono molto diverse fra loro per massa e dimensioni e questo rende tale sistema il migliore finora noto per indagare proprio le teorie alternative. Ne è emerso che lo spazio dei parametri accettabili per farle funzionare si è ridotto di molto rispetto ai precedenti vincoli osservativi, il che ovviamente mina parecchio la loro credibilità per il ruolo di valide alternativa alla teoria Einsteiniana.” La stella di neutroni in questo sistema risulta anche la più massiccia finora osservata? “La sua massa – commenta ancora Marta Burgay – conferma la esistenza di una popolazione di pulsar con una massa attestata attorno a 2 masse del Sole. A differenza dell’esempio precedente, rappresentato dalla pulsar J1614-2230, in questo caso il sistema è stato pero’ “pesato” combinando osservazioni radio della stella di neutroni ad osservazioni ottiche di alta precisione della stella compagna. Una procedura molto promettente in vista di futuri strumenti ancora più potenti ”
Redazione Media Inaf

Troppo vento nelle galassie starburst, le stelle non si accendono

L’accensione di una nuova stella è sempre accompagnata da un certo sconquasso nel suo ambiente circostante. Venti stellari e una intensa radiazione ultravioletta ‘spazzano’ letteralmente via i resti della culla di gas e polveri in cui si è formato l’astro.  Capita però che, in certe galassie particolarmente attive, di nuove stelle se ne formino quasi contemporaneamente a milioni. È allora chiaro che questi venti, sommandosi, possono acquistare energie enormi, propagandosi in tutta la galassia ospite ed interagendo con essa. E addirittura spingendo i suoi effetti anche oltre, arrivando a ionizzare il gas fino a 650.000 anni luce dal suo centro, ovvero più di venti volte più lontano della dimensione visibile della galassia stessa. Sono questi in sintesi i risultati di un nuovo studio realizzato da un team internazionale di ricercatori in corso di pubblicazione sulla rivista The Astrophysical Journal.  È questa la prima prova osservativa degli effetti prodotti dalla forsennata accensione di nuove stelle – un processo che gli addetti ai lavori chiamano starburst  – sul gas circostante la galassia che le ospita. Una interazione che può essere decisiva per regolare i processi evolutivi della galassia e sul tasso con cui continuerà a produrre nuovi astri. “La materia che si estende oltre le galassie è davvero difficile da studiare, poiché è estremamente tenue” dice Vivienne Wild, dell’Università di St. Andrews, che ha partecipato al lavoro. “Tuttavia è estremamente importante, in quanto può rivelarci come le galassie si accrescono, trasformano massa ed energia e infine si estinguono. Stiamo davvero esplorando una nuova frontiera nell’evoluzione delle galassie!” Il team ha analizzato con il Cosmic Origin Spectrograph (COS) a bordo del telescopio spaziale Hubble la luce proveniente da 20 galassie vicine, alcune delle quali note per la loro intensa attività di starburst. E proprio queste galassie sono state quelle dove più marcato è il fenomeno della ionizzazione nel gas che compone il loro alone, interpretato dai ricercatori come il risultato dell’impatto degli intensi venti stellari prodotti da giovani stelle. Scontri così violenti, estesi e prolungati possono avere conseguenze notevoli nell’evoluzione delle galassie ospiti, che si accrescono fagocitando il gas presente nello spazio attorno ad esse e trasformandolo infine in nuove stelle. Poiché i venti stellari ionizzano quelle che sono le ‘riserve’ di gas attorno alle galassie, si riduce drasticamente la disponibilità del principale costituente delle nuove stelle, con la conseguenza di un crollo della natalità stellare. “Gli starburst sono fenomeni fondamentali che non solo regolano l’evoluzione di una singola galassia, ma influenzano il ciclo della materia e dell’energia nell’intero universo” sottolinea Timothy Heckman, della Johns Hopkins University. “I gusci delle galassie sono l’interfaccia tra queste strutture e il resto dell’universo e stiamo iniziando ad esplorare in dettaglio quello che succede al loro interno”.
di Marco Galliani (INAF)

I punti caldi di Betelgeuse

Uno crede di conoscere bene una stella, e basta guardarla da un’altra angolazione per scoprire un sacco di cose nuove. Prendete Betelgeuse, per esempio. E’ una delle supergiganti più vicine alla Terra, ed è una delle stelle più note e identificabili del cielo notturno, nella costellazione di Orione. Ora una nova immagine ripresa dal radio telescopio britannico e-MERLIN mostra caratteristiche di Betelgeuse finora sconosciute. Hot spots, o regioni di gas sorprendentemente caldo nell’atmosfera esterna, e un arco di gas più freddo, nella parte ancora più esterna, la cui massa si avvicina a quella della Terra. La ricerca, pubblicata sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, mostrano che l’atmosfera di Betelgeuse si estende per cinque volle la superficie visibile della stella (che è circa 1000 volte più grande del Sole). Gli hot spot hanno una temperatura tra i 4000 e i 5000 gradi kelvin, molto superiore alla media della temperatura della stella che è di 1200 gradi. L’arco di gas freddi (alla temperatura di circa 150 gradi Kelvin) si trova invece a quasi 7,4 miliardi di chilometri dalla stella. Come spiega Anita Richards dell’Università di Manchester, prima autrice dello studio, non è chiaro perché gli hot spot siano così caldi. “Potrebbe essere che le onde d’urto causate dalle pulsazioni della stella o dalla convezione di calore negli strati esterni stiano comprimendo e riscaldando il gas. oppure che l’atmosfera esterna sia come bucherellata, e che in realtà stiamo osservando strati inferiori più caldi attraverso essa. Quanto all’arco, pensiamo sia il risultato di un periodo di perdita di massa dalla stella avvenuto nell’ultimo secolo, ma se abbia una relazione con gli hot spot non lo sappiamo”. Il meccanismo che porta stelle come Betelgeuse a perdere materia nello spazio, aumentando così la riserva di materia interstellare da cui si possono formare nuove stelle non è stato ancora del tutto spiegato. Studi come questo (che proseguirà con altri strumenti tra cui ALMA e VLA) potranno contribuire a chiarire il mistero.
Redazione Media Inaf

Giove, la cometa e l’acqua

Che quell’acqua presente nella stratosfera di Giove fosse dovuta all’impatto della Cometa Shoemaker-Levy sul pianeta gassoso avvenuto nel 1994, lo aveva già ipotizzato uno studio condotto nel 1994 da Cristiano Cosmovici e Stenlio Montebugnoli. Ora la conferma di quell’ipotesi giunge dal satellite dell’ESAHerschel. La sonda, lanciata nel 2009, ha utilizzato i suoi sensibili raggi infrarossi per mappare la distribuzione verticale e orizzontale della ”firma chimica dell’acqua” nell’atmosfera di Giove, fornendo i dati che hanno permesso agli astrofisici del Laboratoire d’Astrophysique de Bordeaux, di giungere alla definitiva conclusione che il 95% di quell’acqua è arrivata con la caduta della cometa nel 1994. “Le osservazioni di Herschel a 18 anni di distanza sono una prima conferma della validità delle nostre pioneristiche osservazioni” ci dicono Cristiano Cosmovici, dell’INAF – IAPS e Stenlio Montebugnoli, dell’INAF-IRA. “La scoperta – continuano –  fu resa possibile grazie alla realizzazione a Medicina di uno  spettrometro digitale che si basava sul calcolo diretto della FFT (Fast Fourier Transfom) dei dati ottenuti digitalizzando direttamente il segnale a radiofrequenza. Un approccio molto particolare per quei tempi, viste le grandi velocità di calcolo che erano richieste dal pre-processing on line, che permise una alta risoluzione temporale. Le osservazioni vennero eseguite nel Luglio 1994 a 22 GHz, riga MASER dell’acqua, e hanno mostrato che l’esplosione dei 21 frammenti cometari nell’alta atmosfera liberava le molecole di acqua cometaria che venivano poi eccitate in modo da presentare una intensa emissione MASER”. Era questa la prima evidenza di emissione MASER, ben conosciuta nel mezzo interstellare, ma mai osservata nel sistema solare. Le osservazioni si protrassero per 3 mesi evidenziando il fatto che l’acqua si era distribuita nella zona di impatto andando man mano a diminuire di intensità. Questa scoperta è stata poi usata come mezzo di diagnostica per la ricerca di acqua in esopianeti dato che a grandi distanze nella galassia solo una riga di intensità MASER sarebbe stata rilevabile con i radiotelescopi.
Redazione Media Inaf

La cometa del secolo catturata da Hubble

Il telescopio spaziale Hubble di NASA ed ESA ci regala sempre immagini straordinarie. Questa volta la protagonista dello scatto è la cometa  ISON (C/2012 S1), una cometa radente (vale a dire che passa al perielio molto vicina alla superficie del Sole) scoperta nel 2012. Secondo gli addetti ai lavori è la cometa più bella e luminosa del secolo. Questo tipo di oggetti possono disintegrarsi ed evaporare completamente durante il passaggio così ravvicinato al Sole. Questa è l’immagine più limpida mai scattata di ISON (International Scientific Optical Network).
Un team di ricercatori dell’Università del Maryland (USA) sta seguendo da vicino il viaggio di ISON nel Sistema solare. Come le altre comete, ISON è una palla di ghiaccio, gas e polvere cosmica, che viaggia spinta dalla forza gravitazionale del Sole e dei pianeti. L’orbita di ISON la porterà al perielio il 28 novembre 2013 ad una distanza di 0,012 UA dalla superficie solare (circa 1.126.300 chilometri). ISON E’  stata scoperta da due astronomi russi il 21 settembre 2012 utilizzando l’International Scientific Optical Network di 40 centimetri, vicino a Kislovodsk.
La polverosa nuvola in testa è di circa 5.000 chilometri mentre la coda è lunga oltre 92.000 chilometri. Eppure il nucleo della cometa è sorprendentemente piccolo: non più di 4,8 – 6,5 chilometri di diametro, per questo si ipotizza che al passaggio al perielio ISON si disintegrerà.
Questa immagine è stata scatta lo scorso 10 aprile, quando la cometa si trovava a circa 621 milioni di chilometri dal Sole (quasi in prossimità di Giove). Questi oggetti tendono ad attivarsi mentre si avvicinano al Sole, quando questo scioglie ed evapora il ghiaccio e i gas che compongono l’involucro. ISON è già da tempo attiva, nonostante si trovi ancora abbastanza lontana dal Sole: la sua coda è già molto luminosa, grazie alle particelle di polvere che riflettono al luce solare.
A novembre, però, ISON potrebbe brillare in cielo come la luna piena e sarà visibile anche a occhio nudo. Se non verrà disintegrata, a metà gennaio del 2014 la cometa ormai in fase di allontanamento dal Sole potrebbe lasciare un ultimo regalo agli spettatori terrestri: uno sciame meteorico, quindi una bellissima pioggia di stelle cadenti.
Per la prossima settimana sono previsti degli update sullo studio della cometa e dei gas che la compongono, in modo da determinare la temperatura iniziale della cometa, in modo tale da individuare il luogo nel Sistema solare dove si è formata. Gli astronomi credono che provenga dalla Nube di Oort, un vero e proprio vivaio per i corpi ghiacciati, lontano dal calore e dalla luce del nostro Sistema solare.
Insomma, preparatevi alla cometa del secolo.
di Eleonora Ferroni (INAF)

Chi vuole emigrare su Marte? Al via le selezioni …

Vivere su Marte è il vostro sogno? Beh, date un’occhiata al band lanciato da Mars One, una no-profit olandese, che ha dato il via oggi a New York alle selezioni per quattro astronauti che nel 2023 potranno partire per il Pianeta Rosso per fondare una colonia umana.
Il progetto ha già ricevuto 10mila candidature: gli aspiranti hanno un’età compresa tra i 18 e 62 anni e la maggior parte sono uomini. La partenza è programmata per il 2023. Non è ancora chiaro quale mezzo l’organizzazione intenda usare per raggiungere il pianeta rosso, ma si sa che è in trattativa con SpaceX, l’operatore spaziale commerciale che lancia la capsula Dragon.
L’azienda olandese non ha ancora deciso un luogo preciso dove realizzare un insediamento abitabile, sostenibile e progettato per ricevere nuovi astronauti ogni due anni. Si pensa a un sito tra 40 e 45 gradi latitudine Nord del pianeta, dove gli astronauti potranno avere abbastanza risorse in termini di energia solare e acqua (sotto forma di ghiaccio). Una sola avvertenza: i prescelti non dovranno dare fastidio alle “forme di vita” marziane. Ebbene sì, “la cosa più importante”, ha detto il co-fondatore di Mars One Bas Lansdrop, “è di limitare l’inquinamento” del pianeta. “Bisogna fare in modo che gli esseri umani non girovaghino in luoghi dove è più alta la probabilità di incontrare altri esseri viventi”, qualora ce ne fossero.
I candidati alla bizzarra e ambiziosa spedizione non dovranno essere necessariamente scienziati: gli unici requisiti richiesti, oltre alla maggiore età, sono intelligenza, ingegnosità, determinazione stabilità psichica e magari qualche conoscenza tecnica.
Siamo sicuri che fra solo un decennio tutto questo sarà possibile? I soldi necessari – per ora la stima dice sei miliardi di dollari per portare su Marte il primo essere umano – dovrebbero arrivare da una raccolta di fondi iniziata nel 2012, e soprattutto da un evento mediatico, una sorta di reality show che dovrebbe seguire tutto lo sviluppo della missione, a cominciare dalla selezione dei primi 40 astronauti. Il Grande Fratello per Marte potrebbe andare in onda già da quest’anno.
Già dal 2016 Mars One vorrebbe spedire su Marte i primi robot, per costruire la base operativa. Poi partirebbero i primi aspiranti marziani, ma senza biglietto di ritorno. E già, gli astronauti dovranno dire addio ad amici e parenti, perché per tornare avrebbero bisogno di un razzo in grado di sfuggire al campo gravitazionale di Marte, dei sistemi di supporto alla vita di bordo in grado di reggere per un viaggio di sette mesi e caratteristiche tecniche molto avanzate.
Cosa dovrebbero aspettarsi i neo-inquilini di Marte? In primo luogo il viaggio. Non sarà certo una gita fuori porta: con la tecnologia a disposizione oggi, i quattro “fortunati” impiegherebbero circa 5.7 mesi  per arrivare su Marte, sempre che sopravvivano a incontri poco gradevoli con gli asteroidi. Il corpo dovrà abituarsi alla microgravità, che è del 38% rispetto alla nostra : muscoli e ossa sarebbero sottoposti a parecchio stress con la conseguente perdita di massa ossea e muscolare. Serve dunque una tecnologia che riduca drasticamente questo tempo.
Cosa mangerebbero gli astronauti su Marte? Solo cibo liofilizzato? E quanto costerebbero gli approvvigionamenti? Insomma, ci sono ancora molte domande a cui dare risposta, ma se vi sentiti fortunati e pronti a una simile avventura, questo è il sito dove mandare la propria candidatura: http://applicants.mars-one.com/ L’invio della propria candidatura online attraverso l’application form sarà il primo dei quattro step che insieme costituiscono la procedura di selezione di Mars One. Il Round One durerà oltre cinque mesi e si concluderà il 31 agosto 2013. I candidati selezionati formeranno il primo nucleo dell’equipaggio che atterrerà su Marte nel 2023. Si passerà poi  al perfezionamento e alla preparazione fisica.  La decisione finale di scegliere i primi coloni sarà decisa da un voto del pubblico, proprio come in reality televisivo.
di Eleonora Ferroni (INAF)

Tre galassie sperdute e sole

Se ne stanno lì perse nel vuoto, lontane da tutto e da tutti, rannicchiate sotto una coperta d’idrogeno. Tenacemente aggrappate, suggeriscono i dati, a un filamento di materia oscura. Non dev’essere facile la vita, per questo trio noto come VGS 31. Oltre alla solitudine cosmica, sono costrette a una dieta da fame, così rigida da averne praticamente arrestato lo sviluppo, bloccato a uno stadio nel quale è raro imbattersi negli ammassi di galassie più comuni.
Avamposto estremo sull’abisso del vuoto universale, le tre galassie mostrano però d’essersi sapute adattare all’esistenza ascetica che la natura ha serbato per loro. A differenza della maggior parte delle galassie ospitate in grandi ammassi, nelle quali la formazione stellare si è oramai interrotta proprio per carenza di gas (vuoi perché esaurito, vuoi perché “scippato” da altre galassie), la sobria tripletta ha saputo far tesoro del poco nutrimento a sua disposizione. Cibandosi di frugali stuzzichini di materia, come formichine oculate, pare infatti che le tre galassie siano riuscite a conservare una scorta di gas.
Ma ciò che le rende preziose agli occhi degli scienziati non è tanto la parsimonia, quanto la condizione d’isolamento pressoché assoluto: l’ammasso più vicino dista infatti 48 milioni di anni luce. Un po’ come i biologi innanzi alle acque incontaminate del lago Vostok, il bacino subglaciale antartico nel quale sembra siano state rinvenute forma di vita mai entrate in contatto con quelle a noi conosciute, gli astronomi del team – guidato da Burcu Beygu, dell’università di Groningen (Olanda) – che ha scoperto VGS 31 sono rimasti esterrefatti. «Non mi ero mai imbattuto prima in un sistema nel vuoto», dice Beygu, che pure di galassie isolate, con il progetto Void Galaxy Survey, ne ha già trovate 60.
L’essere in tre, dunque una struttura collegata, è certo un tratto distintivo di VGS 31. E se già erano noti alcuni piccoli gruppi di galassie isolate nel vuoto, questo trio è il primo a essere studiato, fin nella sua struttura interna, a lunghezze d’onda al di fuori dello spettro visibile. Osservazioni multibanda, dunque, e che già hanno condotto a risultati interessanti.
Il team di Beygu è riuscito a identificare una nube d’atomi d’idrogeno, grande circa 400.000 anni luce, in movimento lento lungo il percorso che collega le tre galassie. Una scoperta che induce a ipotizzare la presenza d’un piccolo filamento di materia oscura: filamento che probabilmente ha innescato – come una sorta di “seme” – la formazione del trio. Prima di questa scoperta, sottolineano i ricercatori del gruppo, non si sapeva se la formazione lungo filamenti di materia oscura fosse una prerogativa delle sole galassie appartenenti ad ammassi o di tutte le galassie.
VGS 31 fornisce inoltre la prima dimostrazione del modo in cui le galassie crescono nel vuoto. La carenza di gas, come dicevamo, ne ha rallentato l’evoluzione, ma a parte questo sembra che siano cresciute in modo non dissimile dalle loro sorelle ospitate in ammassi.
di Marco Malaspina (INAF)

Le cicatrici ghiacciate di Encelado

È un fitto intrico di crinali e depressioni ghiacciate quello che ci appare la superficie di Encelado, la più enigmatica tra le lune di Saturno. Questo panorama mozzafiato, ripreso dalla sonda Cassini il 31 gennaio del 2011,  è il risultato della tremenda forza di attrazione gravitazionale esercitata da Saturno che deforma il guscio esterno della luna, modellandolo in ripidi promontori che si stagliano al di sopra di profonde fratture. La netta cicatrice scura che si vede sulla superficie di Encelado nella zona meridionale raggiunge in vari punti profondità anche di un chilometro e nel suo percorso taglia altre strutture morfologiche. Un indizio della sua relativa giovinezza. In contrasto, la regione butterata di crateri a nord viene interpretata come una superficie molto più antica che sinora sembrerebbe sfuggita al processo di rimodellamento visibile nelle zone circostanti. Ma l’immagine di Encelado ci mostra quella che è la sua caratteristica più spettacolare: lungo parte del bordo meridionale, pennacchi di particelle ghiacciate mescolate a vapor d’acqua, sali e materiali organici vengono letteralmente sparati nello spazio a velocità superiori a 2000 chilometri all’ora. La composizione chimica di questi pennacchi suggerisce che sotto la crosta ghiacciata di Encelado potrebbe celarsi un oceano liquido in grado addirittura di ospitare forme elementari di vita.
di Marco Galliani (INAF)
30 – continua

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