Il ponte più lungo del cosmo: 50 milioni di anni luce

Una domanda che ciascuno si è posto – da piccino o da adulto – almeno una volta nella vita probabilmente è: “ma che forma avrà l’universo?”. Se lo chiedete a un astronomo, questi vi potrà parlare della sua densità, della sua geometria, oppure dello spazio-tempo, entità che si sono generate assieme – e assieme vengono deformate nelle mille forme estreme che l’universo può assumere al proprio interno – nel momento stesso in cui è nato l’universo: il Big Bang. Nonostante il nostro punto di vista piuttosto limitato, qualcosa da qui dentro, sulla forma dell’universo – o meglio, sulla forma che tutte le sue componenti assieme assumono – la sappiamo: si chiama struttura su larga scala. È quella sorta di enorme “rete neurale” che dà un posto a tutte le “cose” presenti nel cosmo: agli ammassi di galassie (che occupano un ruolo di rilievo in quanto sono le strutture virializzate più grandi del cosmo) ai gruppi di galassie, alle galassie stesse – alle loro stelle e pianeti – e ai filamenti che le congiungono o congiungono gli ammassi stessi fra loro come enormi ponti cosmici, spesso invisibili alle lunghezze d’onda con cui il nostro occhio osserva il cielo. Non tutte le strutture e gli oggetti cosmici presenti in questa enorme rete però sono noti. Alcune perché oscure, altre perché troppo poco dense e difficilmente rivelabili. È questo il caso dei barioni mancanti – circa la metà di tutti quelli prodotti durante la nucleosintesi primordiale. Potenzialmente visibili o meno, ipotesi e deduzioni circa la presenza e la quantità di questi sconosciuti abitanti dell’universo dipendono strettamente dalla precisione con la quale si può ricostruire la struttura su larga scala dell’universo e la sua evoluzione nel tempo. In particolare, le simulazioni cosmologiche che fanno uso delle ricette del modello cosmologico standard (Lambda-Cdm) consentono di ricostruire la crescita delle strutture cosmiche e visualizzare la formazione di strutture via via più grandi a partire dalla fusione di strutture più piccole, e grazie alla presenza di filamenti gassosi che collegano fra loro gli ammassi di galassie. Ma cominciamo dall’inizio. Più o meno 13.8 miliardi di anni fa avveniva il Big Bang. È l’inizio dello spazio e del tempo, e con essi anche di tutta la materia. Se inizialmente il tutto era concentrato in un “punto”, l’espansione di questa gigantesca “nube di gas” in cui la materia era quasi uniformemente distribuita è cominciata e continuata inesorabilmente. Quasi uniformemente distribuita, è questa la chiave. In alcune parti la nube era un po’ più densa che in altre. Le zone più dense esercitavano forze gravitazionali leggermente più elevate, attirando il gas dall’ambiente circostante. Sempre più materia, quindi, si è concentrata in queste regioni nel tempo – e lo spazio tra di esse, di conseguenza, diventava sempre più vuoto. Il risultato di questo processo durato 13 miliardi di anni – e ancora in corso – è una sorta di struttura a spugna: grandi “buchi” senza materia, e regioni intermedie in cui si raccolgono migliaia di galassie in un piccolo spazio, i cosiddetti ammassi di galassie. E se davvero è proprio questo il processo, le galassie e gli ammassi dovrebbero essere ancora collegati da residui di questo gas, proprio come in una spugna, e un po’ come i fili sottilissimi di una ragnatela. «Secondo i calcoli, più della metà di tutta la materia barionica del nostro universo è contenuta in questi filamenti. È la stessa materia che compone stelle e i pianeti – la stessa di cui siamo composti noi stessi», spiega Thomas Reiprich dell’università di Bonn, primo autore di uno studio sull’argomento pubblicato su Astronomy & Astrophysics. «Eppure finora è sfuggita al nostro sguardo. A causa dell’enorme espansione dei filamenti, la materia in essi contenuta è estremamente diluita: solo dieci particelle per metro cubo – molto meno del miglior vuoto che possiamo creare sulla Terra». In questo studio, Reiprich e collaboratori hanno esaminato un oggetto celeste chiamato Abell 3391/95, un sistema di tre ammassi di galassie a circa 700 milioni di anni luce di distanza da noi. Grazie alle accuratissime radiografie di eRosita – il principale strumento di osservazione dello studio, accompagnato però anche da osservazioni radio Askap/Emu Early Science Survey e ottiche DeCam – gli scienziati hanno potuto sviscerare la struttura in ogni sua componente: non solo gli ammassi e le numerose singole galassie, ma anche i filamenti di gas che collegano queste strutture. Tra i due sistemi di cluster principali, la precisione di eRosita ha consentito infatti di rivelare un’emissione di gas su larga scala e con una buona risoluzione spaziale. Un vero e proprio ponte comprendente un gruppo di galassie note, ma non abbastanza per spiegare l’intera emissione. La maggior parte del gas nel ponte sembra caldo e diffuso, e le osservazioni offrono prove schiaccianti – secondo gli autori – che esso sia proprio il gas filamentoso caldo e primordiale che collega gli ammassi. L’intero filamento è lungo 50 milioni di anni luce, ma potrebbe essere ancora più grande: gli scienziati ritengono che le immagini ne mostrino solo una sezione. «eRosita dispone di rivelatori molto sensibili per il tipo di radiazione a raggi X che emana il gas nei filamenti», spiega Reiprich. «Ha anche un ampio campo di vista, e come un obiettivo grandangolare, può catturare una regione relativamente grande del cielo in una singola misurazione, per di più a una risoluzione molto alta. Questa combinazione unica ci consente di prendere immagini dettagliate di oggetti così grandi come i filamenti in un tempo relativamente breve». Per comprendere come il lavoro si inserisca nel contesto del modello cosmologico standard, i ricercatori hanno confrontato le osservazioni con i risultati di una simulazione che ricostruisce l’evoluzione dell’universo, Magneticum. «Le immagini di eRosita sono sorprendentemente simili alla grafica generata dal computer. Questo suggerisce che il modello standard ampiamente accettato per l’evoluzione dell’universo è corretto». La cosa più importante. nonché la conseguenza più eclatante di questa scoperta, è che i dati mostrano che la materia barionica mancante potrebbe essere nascosta nei filamenti. Media Inaf

Viaggio all’origine del ferro

Il ferro è uno di quegli elementi della tavola periodica di cui abbiamo esperienza continua e antichissima. Un meccanico ne possiede in quantità per gli strumenti e gli utilizzi più disparati, uno storico lo collegherà a una precisa e fondamentale epoca nella storia dell’umanità, un medico indicherà un parametro del sangue, un nutrizionista un elemento essenziale per la salute e un astronomo – probabilmente – penserà a una stella massiccia o a una supernova. Sono proprio quest’ultime le fabbriche universali e primordiali del ferro, i luoghi naturali in cui avvengono i processi in grado di sintetizzarlo. È così che viene forgiato il primo anello della lunga catena di conoscenze e tecniche impiegate dalle discipline menzionate in precedenza. Studi di evoluzione stellare confermano e accrescono da decenni la consapevolezza che il ferro sia prerogativa delle stelle più massicce, oppure di una classe particolare di supernove che ha origine dai sistemi binari di stelle di massa intermedia che si fondono assieme – le supernovae di tipo Ia. Proprio a causa di uno strano meccanismo a catena innescato dalla produzione del ferro – per il quale la stella necessita un contributo energetico esterno, invece di produrlo come durante la sintesi di qualunque altro elemento più leggero, dal carbonio all’ossigeno e fino all’elio – una stella non riesce più a vincere la pressione del suo stesso peso e continuare nella sintesi di elementi via via più pesanti e – dopo questo ultimo, pesante sforzo – termina la propria vita stabile nella sequenza principale. La sintesi di elementi ancora più pesanti – cioè con numero atomico superiore al ferro – ma altrettanto fondamentali per la vita, come il magnesio, è dunque delegata ad altre sedi: una seconda classe di supernove, ad esempio, quelle prodotte proprio dall’esplosione di una stella massiccia. Nonostante le teorie di evoluzione stellare su questo siano abbastanza concordi, i dettagli precisi sull’origine del ferro e degli altri elementi chimici pesanti – e, con essa, l’epoca cosmica nel quale furono maggiormente prodotti – rimangono elusivi, e la loro indagine è intimamente legata all’origine di quelle stelle che per prime hanno cominciato a illuminare l’universo, alcune centinaia di milioni di anni dopo il Big Bang. Per fare luce sul problema, molti ricercatori hanno studiato l’evoluzione chimica dell’universo utilizzando quasar lontani. Questo perché la storia associata alla formazione e all’evoluzione delle stelle massicce è destinata a guidare l’evoluzione chimica, oltre a far circolare materiale gassoso e a fornire energia termica e cinetica all’universo primitivo. Gli elementi pesanti come il ferro o i cosiddetti alpha elements – come il magnesio – nelle cosiddette Broad line region (Blr) dei quasar sono prodotti dall’esplosione di supernove generate delle stelle abitanti la galassia ospite. Grazie a Winered – lo spettrografo Echelle montato al telescopio di 3.58m di diametro New Technology Telescope (Nnt) dell’Eso, in Cile, con una elevata sensibilità nel vicino infrarosso – un gruppo di ricercatori guidati da Hiroaki Sameshima dell’istituto di astronomia dell’università di Tokyo ha condotto una campagna osservativa volta a studiare gli elementi pesanti nei quasar luminosi nell’universo primitivo, antichi nuclei galattici ferocemente energetici che emettevano luce quando l’universo aveva solo 2.4 miliardi di anni.La progettazione e realizzazione di questo nuovo spettrografo, sottolineano gli autori, è stata fondamentale per lo studio. A causa della strumentazione limitata infatti, tutte le precedenti osservazioni volte a indagare l’origine dei metalli hanno riguardato principalmente stelle vecchie e vicine – limitando il punto di vista e i risultati alla nostra galassia. «Montando lo strumento Winered su un grande telescopio, possiamo vedere più indietro nel tempo e possiamo osservare corpi più lontani, o più antichi, rispetto a quelli considerati negli studi precedenti. Ora possiamo vedere dettagli di quasar vecchi più di 10 miliardi di anni», spiega Sameshima. «Winered è un tipo speciale di spettrografo, può identificare le impronte chimiche presenti nella luce emessa da corpi lontani. Ci ha rivelato infatti le impronte digitali di ferro e magnesio nella luce di questi quasar, e questo ci ha permesso di calcolare l’abbondanza di questi elementi quando l’universo era molto più giovane dell’età alla quale si erano potuti spingere gli studi precedenti». Combinando gli spettri ottenuti di Winered con gli spettri ottici della survey Sdss, Sameshima e collaboratori hanno misurato le righe di emissione di magnesio e ferro, trovando che il loro rapporto non evolve rispetto ai dati ottenuti a redshift più bassi da altri studi, e trovandosi in accordo con i modelli di evoluzione chimica dell’universo. Questo risultato non solo conferma quanto atteso dalla teoria, ma funge da validazione di alcune assunzioni e correzioni statistiche di cui lo studio si è avvalso per sopperire, ad esempio, ai limiti circa il campione osservato. Una esaustiva comprensione della chimica dell’universo e della genesi degli oggetti pesanti – ad esempio, quanto del ferro che abbiamo nelle nostre vene proviene dall’inizio della storia del cosmo e quanto invece è stato prodotto vicino a noi? – dovrà passare attraverso l’aumento della statistica osservativa dei quasar lontani, e considerare anche quelli meno luminosi. Questo ulteriore passo sarà possibile utilizzando grandi telescopi, tra cui Tao, il prossimo da 6.5 m ottimizzato per l’infrarosso costruito in Cile dal progetto Tokyo Atacama Observatory. (Media Inaf)

Il mistero del mezzo interstellare

Della materia che occupa la vasta distesa tra i sistemi di stelle all’interno di una galassia sappiamo ancora pochissimo, ma grazie allo studio appena presentato da un gruppo internazionale di scienziati, tra cui spicca la partecipazione della Johns Hopkins University, potremmo essere a un passo dalla soluzione di quel puzzle noto come ‘polvere di stelle’ che da quasi un secolo ancora resta un mistero. I ricercatori sono convinti che il loro lavoro dimostri, nei fatti, un nuovo modo di ottenere localizzazione e composizione della materia che si nasconde fra le stelle della Via Lattea. Un insieme di materiali che comprende polveri e gas composti da atomi e molecole, residui di stelle che hanno concluso il loro ciclo vitale. Materiale che certo costituisce la base per nuove stelle e pianeti. “Si dice che, in fondo, siamo tutti polvere di stelle, dal momento che tutti gli elementi chimici più pesanti dell’elio sono prodotti nelle stelle”, spiega Rosemary Wyse, docente di fisica e astronomia alla Johns Hopkins e prima autrice della ricerca che ha permesso di disegnare la nuova mappa della Galassia. “Ma quel che non sappiamo ancora è perché le stelle preferiscano alcuni luoghi dello spazio per il loro processo di formazione. Questo lavoro ci fornisce nuovi elementi per comprendere il mezzo interstellare da cui si formano gli astri che punteggiano l’Universo”. In particolare lo studio si concentra su un particolare fenomeno di assorbimento della luce stellare, conosciuto come diffuse interstellar band (DIBS). Noto dagli anni Venti del secolo scorso, consiste nella mancanza di alcune linee nello spettro luminoso di stelle, che, per la loro posizione rispetto a noi, si trovano ‘nascoste’ dietro un mezzo interstellare che per proprietà chimiche ne assorbe parte della luce. Dal 1922, anno della prima scoperta, gli scienziati hanno riscontrato oltre 400 fenomeni di DIBS. La materia che causa le bande nere nello spettro luminoso, come d’altra parte la sua precisa ubicazione, è però rimasta un mistero. Il tipo di assorbimento che si registra indica presenza di grandi molecole complesse. Ma non esistono evidenze scientifiche. Inutile dire che fisica e chimica di queste regioni sono elementi chiave per comprendere i processi di formazione di stelle e galassie. Indizi più concreti ora possono essere dedotti dalle mappe appena pubblicate su Science, e prodotte dai 23 scienziati che hanno partecipato allo studio. Le mappe sono state assemblate grazie ai dati raccolti dal Radial Velocity Experiment – un progetto che coinvolge oltre 20 istituti sparsi per il mondo e coordinato dal Leibniz-Institut für Astrophysik di Potsdam – in 10 anni di attività, utilizzando lo UK Schmidt Telescope in Australia. Dati per 500.000 stelle: un campione significativo che ha permesso ai cartografi di determinare la distanza cui si trova il materiale che provoca i DIBS e di conseguenza come il mezzo interstellare si distribuisca in tutta la Via Lattea. Ma dalle mappe si vede anche di più. Le molecole complesse ritenute responsabili del fenomeno dei DIBS sono infatti distribuite in modo diverso rispetto ad altri componenti conosciuti del mezzo interstellare (le particelle solide che solitamente chiamiamo polveri). “Per capire qualcosa di più sul mezzo interstellare, dobbiamo anzitutto avere un’idea chiara di come sia distribuito all’interno della nostra galassia”, conclude Wyse. “E questo è quanto ha prodotto il nostro lavoro. In futuro potremo raccogliere maggiori dettagli, ora abbiamo un metodo che funziona”. (Media Inaf).

In astronomia, il mezzo interstellare (abbreviato in ISM, dall’inglese InterStellar Medium) è il materiale rarefatto costituito da gas e polvere che si trova tra le stelle all’interno di una galassia. Il mezzo interstellare galattico è colmato da energia sotto forma di radiazione elettromagnetica e si mescola gradatamente al mezzo intergalattico circostante. Fino alla fine del XIX secolo, lo spazio interstellare era considerato sostanzialmente vuoto. Nel 1904, l’astronomo tedesco Johannes Hartmann scoprì il gas interstellare, mentre ventisei anni dopo, nel 1930, lo svizzero Robert Trumpler scoprì la polvere interstellare, che causava l’arrossamento del colore delle stelle lontane. Il mezzo interstellare consiste di una miscela piuttosto rarefatta di ioni, atomi, molecole, granuli di polvere, raggi cosmici e campi magnetici;[2] in massa il 99% della materia è costituito dai gas, il restante 1% dalle polveri. Le densità (ρ) variano da poche migliaia ad alcune centinaia di milioni di particelle per metro cubo, con un valore medio attestato nella Via Lattea di un milione di particelle al m3 (1 particella al cm3). Il Sole, ad esempio, sta attualmente viaggiando, nel corso della sua orbita attorno al centro galattico, all’interno della Nube Interstellare Locale (ρ=0,1 atomi cm−3), posta a sua volta all’interno della Bolla Locale (ρ=0,05 atomi cm−3). Come risultato della nucleosintesi del Big Bang, il gas del mezzo interstellare è costituito all’incirca all’89% da idrogeno e per il 9% da elio, con un 2% di elementi più pesanti (definiti nel gergo astronomico “metalli”) e composti in tracce. Il mezzo interstellare gioca un ruolo importante in astrofisica per via del suo ruolo di “via di mezzo” tra ordini di grandezza stellari ed ordini di grandezza galattici. Le stelle inoltre interagiscono in molteplici modi col mezzo interstellare: innanzi tutto si formano all’interno delle regioni più dense dell’ISM, le nubi molecolari, quindi ne plasmano le strutture grazie ai loro venti e ne modificano la composizione, arricchendola degli elementi più pesanti prodotti al loro interno, una volta giunte al termine della loro evoluzione, tramite l’emissione di una nebulosa planetaria o l’esplosione di una supernova; quest’ultimo meccanismo è alla base della produzione degli elementi più pesanti del ferro, l’ultimo elemento sintetizzabile nel nucleo di una stella. Queste continue interazioni tra stelle e ISM aiutano a determinare il tasso al quale una galassia consuma le sue riserve gassose, e dunque permette di misurare il tempo in cui essa va incontro ad un’attiva formazione stellare.

Composizione

Il mezzo è composto normalmente per il 99% da gas e per l’1% da polveri. Il gas è composto mediamente per il 90% da idrogeno e per il 10% da elio, con tracce di elementi più pesanti (chiamati sia pur impropriamente metalli in termini astronomici). Tra questi sono presenti calcio, neutro o sotto forma di cationi Ca+ (90%) e Ca++ (9%), molecole inorganiche (H2O, CO, H2S, NH3, HCN) e organiche (formaldeide, acido formico, etanolo) e radicali (HO°, CN°). Questo mezzo è in genere estremamente tenue: le densità variano da pochi atomi a poche centinaia di atomi per centimetro cubo (il che è comunque un milione di volte più denso delle regioni al di fuori di una galassia). Recenti studi hanno mostrato che la densità nelle vicinanze del Sole (entro 15 anni luce) è molto più bassa della media galattica: da 0,04 a 0,1 atomi per centimetro cubo. La composizione del mezzo interstellare è diversa nei vari tipi di galassie: nelle ellittiche esso è quasi completamente assente, nelle lenticolari è presente in misura ridotta, mentre è maggiormente presente nelle galassie più giovani, come le galassie spiraliformi, tra cui la Via Lattea. Le caratteristiche prominenti del mezzo interstellare sono quelle dove, per un motivo o per l’altro, esso è più concentrato: nubi molecolari giganti (in cui è spesso presente una viva attività di formazione stellare), nubi interstellari, resti di supernova, nebulose planetarie ed altre strutture diffuse e nebulari.

Effetti

L’effetto del mezzo interstellare sulle osservazioni è chiamato estinzione: la luce di una stella viene diminuita di intensità perché è rifratta ed assorbita dal mezzo. L’effetto è diverso a seconda della lunghezza d’onda della luce. Per esempio, la lunghezza d’onda tipica per l’assorbimento dell’idrogeno molecolare si trova a circa 92 nm, n=1, cioè la transizione Lyman-alpha. Perciò è quasi impossibile vedere la luce emessa dalla stella a questa lunghezza d’onda, perché è assorbita quasi tutta durante il suo viaggio verso la Terra. È però possibile studiare il mezzo interstellare proprio sfruttando la sua estinzione: le diverse bande di assorbimento, non attribuibili alla stella, danno informazioni sulla densità e sulla velocità del gas che lo compone. Le informazioni sono state ricavate studiando una singola riga del suo spettro, la radiazione a 21 cm dell’idrogeno.

Fasi

Il mezzo interstellare è in genere diviso in tre “fasi”, a seconda della sua “temperatura”: caldo (milioni di gradi), temperato (migliaia di gradi), e freddo (poche decine di kelvin). È da notare che la “temperatura” è considerata in questo caso come espressione della velocità delle particelle di gas, se la si misurasse con un termometro esso registrerebbe in ogni caso valori vicini allo zero assoluto. Il modello a tre fasi fu introdotto da Chistopher McKee e Jeremiah Ostriker in un articolo del 1977, ed ha formato la base degli studi successivi. La proporzione relativa di queste tre fasi è ancora oggetto di dibattito. (Wikipedia)

L’importanza dei vuoti cosmici

Gli scienziati che studiano la natura della gravità e dell’energia oscura hanno adottato una nuova strategia: andare alla ricerca di ciò che non c’è. In uno studio che compare sull’ultimo numero di Physical Review Letters, un team internazionale di astronomi afferma di aver misurato come si raggruppa la materia visibile dell’Universo studiando gli spazi vuoti che la separano e di essere riuscito a raggiungere una precisione quattro volte maggiore rispetto al passato.
In seguito alla fase chiamata ricombinazione, ovvero quando la temperatura dell’Universo è scesa abbastanza da permettere la formazione dei primi atomi, le piccole perturbazioni di densità che permeavano il cosmo sono evolute, sotto effetto della gravità, dando vita a quelli che oggi sono i filamenti di galassie, separati tra loro da enormi vuoti cosmici.
Sebbene la maggior parte della materia che compone l’Universo sia invisibile, la materia ordinaria, organizzata in galassie, viene utilizzata come tracciante dell’espansione dei vuoti, e le misure di velocità vengono sfruttate per testare la relatività generale. Nel nuovo studio, i ricercatori si sono invece concentrati sui vuoti, identificati dalla distribuzione delle galassie.
Paul Sutter, co-autore dello studio, ricercatore presso la Ohio State University e associato INAF presso l’Osservatorio Astronomico di Trieste, dice che la nuova misura può contribuire a effettuare nuovi test per la teoria della relatività generale di Einstein, che rappresenta attualmente la migliore descrizione di come funziona la forza di gravità.
Sutter paragona la nuova tecnica a «raccogliere informazioni sull’emmental studiandone le cavità», e spiega per quale motivo gli astronomi dovrebbero interessarsi agli spazi vuoti: «Le cavità sono vuote. Sembrano noiose. Le galassie sono come grandi città dislocate nell’Universo, sono piene di luci e di attività, mentre i vuoti sono i chilometri di terreni coltivati che le separano».
«Ma noi stiamo cercando prove del fatto che la relatività generale possa sbagliarsi, e la grande attività in corso nelle galassie rende difficile osservare i piccoli effetti che potrebbero dimostrarlo. È più facile cercare questi effetti nelle regioni vuote, dove ci sono meno distrazioni. Per capirci meglio: è come cercare di individuare la luce tenue di una lucciola in un campo di grano non illuminato o in una città piena di lampioni e vita notturna».

Nell’immagine una simulazione della struttura su larga scala dell'Universo rivela la rete cosmica di galassie, disposte lungo filamenti, e le vaste regioni di vuoto. Crediti: Nico Hamaus, Universitäts-Sternwarte München, Ohio State University

Le regioni vuote dello spazio, sottolinea Sutter, sono vuote solo nel senso che non contengono materia ordinaria, ma sono piene di energia oscura, la componente invisibile dell’Universo, responsabile della sua espansione accelerata.
Se da un lato è vero che, nei suoi cento anni di vita, la teoria della relatività generale ha fatto molta strada nel fornire una spiegazione su come funziona la gravità, è altrettanto vero che Einstein non poteva sapere nulla dell’energia oscura, e anzi, si è a lungo battuto contro la presenza di quel termine scomodo, che serviva per far tornare i conti. Per questo gli astronomi oggi sono al lavoro per scoprire se questa teoria sia in grado di reggere in un Universo dominato da una componente imprevista.
Il team di ricercatori, diviso tra Stati Uniti, Germania, Francia e Italia, ha effettuato simulazioni al computer e costruito un modello per le cavità dello spazio, confrontando poi i dati ottenuti con le osservazioni raccolte dalla Sloan Digital Sky Survey. L’analisi dei modelli di densità di materia e di crescita delle strutture cosmologiche sviluppati tenendo conto della fisica dei vuoto ha rivelato un miglioramento della precisione pari a quattro volte gli studi precedenti.
Gli scienziati erano alla ricerca di piccole deviazioni in ciò che accade all’interno dei vuoti rispetto a quanto previsto dalla relatività generale, e non ne hanno trovato nessuno. Quindi la teoria di Einstein continua ad essere valida. I risultati e i modelli prodotti da questo studio sono disponibili al pubblico sul sito web dedicato al progetto, in modo che chiunque sia interessato possa utilizzarli in futuro.
«I nostri risultati dimostrano che all’interno delle cavità si possono trovare un sacco di informazioni fino ad ora inesplorate», conclude Sutter. «È letteralmente come tirar fuori qualcosa dal nulla». Nell’immagine una simulazione della struttura su larga scala dell’Universo rivela la rete cosmica di galassie, disposte lungo filamenti, e le vaste regioni di vuoto. Crediti: Nico Hamaus, Universitäts-Sternwarte München, Ohio State University
di Elisa Nichelli (INAF)

Vuoti cosmici? Non proprio

Sappiamo che l’Universo è dominato da materia invisibile, quella che gli astronomi chiamano materia oscura, mentre la struttura su larga scala è caratterizzata dalle galassie che sono concentrate in strutture a forma di filamenti che si estendono lungo l’estremità di enormi vuoti cosmici. Nonostante queste strutture siano state considerate quasi prive di materia, un gruppo internazionale di astronomi ritiene che questi vuoti potrebbero contenere almeno il 20 percento della materia ordinaria e che le galassie rappresenterebbero soltanto 1/500 del volume dell’Universo. I risultati di questo studio, guidato da Markus Haider dell’Institute of Astro and Particle Physics dell’Università di Innsbruck in Austria, sono riportati su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society (MNRAS).
Nel corso degli ultimi anni, le osservazioni realizzate dai satelliti COBE, WMAP e Planck sulla radiazione cosmica di fondo hanno permesso di affinare gradualmente la nostra comprensione sul contenuto materia-energia dell’Universo: le misure più recenti indicano che il 4,9% è costituito da materia ordinaria o barionica, cioè la materia che compone le stelle, i pianeti e persino noi stessi, che il 26,8% è dovuto all’enigmatica materia oscura e che il rimanente 68,3% è costituito da una componente ancora più misteriosa chiamata energia oscura.
All’informazione ottenuta dalle missioni spaziali si è aggiunta progressivamente quella fornita dagli osservatori terrestri, che hanno permesso di mappare su grandi volumi di spazio la posizione delle galassie, e indirettamente della materia oscura, mostrando che esse sono distribuite lungo strutture a filamenti che formano la cosiddetta “ragnatela cosmica”. Haider e il suo team hanno studiato tutto questo in dettaglio facendo uso dei dati del progetto Illustris, una imponente simulazione numerica che tenta di ricostruire la formazione e l’evoluzione delle galassie, con l’obiettivo di misurare la massa e il volume delle strutture a filamenti e delle galassie ivi contenute.
La simulazione, che riproduce uno spazio a forma di cubo di lato pari a 350 milioni di anni luce, inizia quando l’Universo aveva un’età di appena 12 milioni di anni e traccia l’evoluzione della distribuzione della materia, soggetta alle reciproche interazioni gravitazionali, osservando come essa abbia modificato nel corso del tempo la struttura cosmica fino ai nostri giorni. Inoltre, nella simulazione si tiene conto non solo della materia ordinaria ma soprattutto della materia oscura, che produce l’effetto più importante in termini dell’attrazione gravitazionale.
L’analisi dei dati suggerisce che la metà circa della massa totale presente nell’Universo si trova dove risiedono le galassie, cioè compressa in un volume di spazio pari allo 0,2% dell’Universo che vediamo oggi; un ulteriore 44% è presente nelle strutture a filamenti mentre il 6% è invece situata nei vuoti cosmici, che rappresentano l’80% del volume. Cosa più interessante è che secondo i ricercatori un’inaspettata frazione della materia ordinaria, stiamo parlando del 20%, deve essere stata trasferita molto probabilmente verso i vuoti cosmici. I principali indiziati di questo processo sembrano essere i buchi neri supermassivi che risiedono nei nuclei delle galassie. Parte della materia che precipita verso i buchi neri viene convertita in energia. A sua volta, questa energia viene trasferita al gas circostante determinando così la formazione di enormi flussi di materia che si estendono per centinaia di migliaia di anni luce a partire dai buchi neri, raggiungendo distanze ben al di là delle dimensioni delle rispettive galassie ospiti.
A parte riempire i vuoti con più materia rispetto a quanto ipotizzato in precedenza, questi risultati potrebbero spiegare il cosiddetto “problema della massa mancante di tipo barionico” secondo cui la quantità di materia attesa non sarebbe consistente con quanto predetto dai modelli. «Questa simulazione», spiega Haider, «una delle più sofisticate mai realizzate, suggerisce che i buchi neri che risiedono nel nucleo di ogni galassia ‘aiutino’, per così dire, a trasferire la materia verso le zone più isolate dell’Universo. Ciò che vogliamo fare adesso è affinare il nostro modello e confermare l’attendibilità di questi primi risultati».
Proprio in questi giorni, i ricercatori stanno realizzando tutta una serie di simulazioni i cui risultati dovrebbero essere già disponibili nei prossimi mesi. Gli astronomi cercheranno di capire se, ad esempio, l’attività esercitata dai buchi neri sia davvero consistente con i modelli. Ad ogni modo, qualunque sarà il risultato che emergerà da Illustris, sarà comunque molto complicato osservare materia negli spazi vuoti, essendo quest’ultima molto debole e fredda per emettere raggi X che potrebbero essere rivelati eventualmente dai satelliti.
di Corrado Ruscica (INAF)

La composizione chimica dello spazio

Tutti gli elementi chimici che sono più pesanti del carbonio, come l’ossigeno che respiriamo o il silicio presente nella sabbia, sono stati prodotti nelle stelle attraverso processi di fusione nucleare e poi diffusi nello spazio a seguito delle esplosioni stellari. Studiare, quindi, la composizione chimica dell’Universo permette agli scienziati di ricostruire la storia di come, dove e quando sono stati prodotti i vari elementi così necessari per l’evoluzione della vita. I risultati di questo studio sono riportati su Astrophysical Journal Letters. In generale, sappiamo che ci sono due modi per cui si ha una supernova e la proporzione degli elementi chimici prodotti dipende dal tipo di esplosione stellare. Gli elementi più leggeri, come l’ossigeno o il magnesio, si origininano principalmente dalle esplosioni di stelle molto massive, più di 10 volte la dimensione del Sole, che si trovano verso gli stadi finali del loro ciclo vitale. Questi oggetti vengono chiamati “supernovae a collasso nucleare”. Di solito, la fase finale delle stelle più piccole è una nana bianca di cui una parte può esplodere come “supernova termonucleare” o di “tipo Ia” se essa accresce successivamente materia da una stella compagna che rende instabile la nana bianca alla propria gravità. Gli atomi più pesanti, come il ferro e il nichel, derivano sostanzialmente da quest’ultimo tipo di esplosione stellare. Ad esempio, per formare la composizione chimica del nostro sistema planetario bisogna richiedere una miscela di esplosioni stellari con un rapporto 1:5 tra supernovae di tipo Ia e a collasso nucleare, rispettivamente. La ricercatrice Aurora Simionescu del Japan Aerospace Exploration Agency (JAXA) e autrice principale dello studio si è domandata se la composizione chimica media dell’Universo è simile, o meno, a quella del Sistema Solare o se il nostro ambiente cosmico è invece un luogo davvero speciale. In realtà, e forse in maniera non intuitiva, la miglior risposta a questa domanda non è da cercarsi nelle stelle piuttosto nello spazio intergalattico. Questo perchè la maggior parte della materia ordinaria, e quindi anche gran parte dei metalli, non sono al momento contenuti nelle stelle ma sono presenti in un gas molto caldo e diffuso che permea lo spazio tra le galassie e la sua temperatura è tale che emana luce in banda X. Infatti, i raggi X più energetici si osservano negli ammassi di galassie, cioè quegli ambienti cosmici dove le galassie sono raggruppate vicine tra loro.“Ho trovato questa idea affascinante sin dal mio primo anno di dottorato di ricerca”, spiega Simionescu. “Passare ai raggi X il contenuto chimico del nostro Universo. Tornando indietro nel tempo, a circa dieci anni fa, era complicato ottenere delle misure attendibili dell’abbondanza dei metalli tranne per le zone più brillanti e più dense del mezzo intergalattico a causa della scarsa presenza di fotoni X e di un elevato rumore di fondo. Perciò potevamo solamente esplorare approssimativamente il contenuto chimico pari a un millesimo del volume occupato tipicamente da un ammasso di galassie”. Per affrontare il problema, il satellite dell’agenzia giapponese JAXA ASTRO E-II “Suzaku” ha dedicato una grande quantità di tempo osservativo a raccogliere dati nel corso di diverse settimane. Le prime osservazioni profonde dedicate a questo studio sono state realizzate sull’ammasso di Perseo, il sistema di galassie più brillante, che ha permesso agli astronomi di ottenere misure alquanto dettagliate dell’abbondanza di ferro presente nello spazio su larga scala all’interno dell’ammasso. Tuttavia, l’informazione relativa agli elementi chimici prodotti principalmente dalle supernovae a collasso nucleare era ancora assente. Per ottenere queste misure, sono state necessarie una serie di osservazioni di un ammasso di galassie che presenta una temperatura media più bassa, in modo che l’emissione degli elementi più leggeri sia in confronto più forte rispetto all’ammasso di Perseo. Perciò, per circa due settimane il satellite Suzaku venne puntato verso l’ammasso della Vergine, che è il gruppo di galassie più vicino e il secondo più brillante nel cielo X la cui temperatura è favorevolmente bassa. Avendo perciò a disposizione questo nuovo insieme di dati, Simionescu e colleghi sono stati in grado di rivelare non solo il ferro ma per la prima volta anche il magnesio, il silicio e lo zolfo tutti verso le regioni periferiche dell’ammasso di galassie. “Ciò che abbiamo trovato è che i rapporti tra le abbondanze di ferro, silicio, zolfo e magnesio sono costanti ovunque nell’intero volume dell’ammasso della Vergine e sono consistenti con la composizione chimica del Sole e della maggior parte delle stelle presenti nella nostra galassia”, spiega Norbert Werner della Stanford University e co-autore dell’articolo. Gli ammassi di galassie coprono un grande volume di spazio che il contenuto di una struttura di questo tipo si può considerare rappresentativo di tutto il resto dell’Universo. In altre parole, i risultati di Suzaku significano che gli elementi chimici nello spazio cosmico sono combinati in modo tale che la composizione chimica rimane mediamente la stessa su tutte le scale a partire dal raggio solare (centinaia di migliaia di chilometri) fino alle dimensioni di un ammasso di galassie (diversi milioni di anni luce). Anche se potrebbero esistere ancora alcuni luoghi speciali nell’Universo caratterizzati da una composizione chimica differente, in media la maggior parte dello spazio cosmico ha una composizione chimica simile a quella del nostro ambiente locale, cioè la stessa “zuppa di elementi” che è necessaria per la vita ovunque si guardi. “Il satellite Suzaku”, conclude Steven Allen della Stanford University e co-autore dello studio, “ha aperto una nuova finestra nell’Universo e ci ha mostrato che ovunque si guardi nello spazio, su vaste scale cosmiche, la miscela di elementi chimici è essenzialmente la stessa. È un risultato semplicemente bello e rappresenta un ulteriore passo in avanti verso la comprensione di come ha avuto origine il nostro Universo”.
di Corrado Ruscica (INAF)

L’accrescimento è uguale per tutti

Gli oggetti celesti che compongono l’Universo, a partire dalle protostelle per arrivare fino ai buchi neri supermassicci, possono accumulare materia e diventare più massicci sfruttando lo stesso processo di accrescimento, stando a quanto indica uno studio pubblicato su Science Advances. L’accrescimento porta solitamente alla formazione di un disco in rotazione, che trasporta lentamente il materiale verso l’interno, ma il processo attraverso cui questo avviene non è del tutto chiaro. Anche se una serie di studi hanno accennato in passato a similitudini tra diversi sistemi di accrescimento, rimane poco chiaro se i meccanismi  funzionino allo stesso modo per diverse tipologie di corpi astrofisici. Una prova schiacciante del fatto che si sta osservando un processo di accrescimento è la luminosità generata dal disco di materiale in rotazione. Le variazioni di luminosità producono curve di luce che possono essere rilevate in nuclei galattici attivi,  buchi neri di massa stellare, e nane bianche in accrescimento.Utilizzando i dati dalla missione Kepler – K2 e Ultracam –  della NASA e la letteratura esistente, Simone Scaringi insieme a un gruppo internazionale di ricercatori ha mostrato che le variazioni di luminosità in molti dischi di accrescimento possono essere spiegate da una legge che dipende dal raggio del disco interno, e non la massa del corpo in accrescimento, come invece si pensava fino ad ora.
I risultati suggeriscono che la fisica dell’accrescimento può essere considerata universale, indipendentemente dalla massa, le dimensioni, o il tipo di oggetto celeste in accrescimento. Forniscono quindi la base per lo sviluppo di un modello fisico universale per l’accrescimento in astrofisica.
di Elisa Nichelli (INAF)

Gaia: un anno di buone osservazioni

L’Universo secondo Gaia. La missione astrofisica di ESA, che ambisce a produrre una mappa tridimensionale della nostra galassia e che in cinque anni di missione studierà oltre un miliardo di oggetti, ci regala due affascinanti immagini in dati. Si tratta di due diagrammi di Hertzsprung-Russell, ottenuti grazie ai dati provvisori della Tycho-Gaia Astrometric Solution, la distanza delle stelle la cui parallasse presenta rispettivamente un margine di incertezza inferiore al 20% (in alto) e al 10% (qui sotto), è stata utilizzata per convertire la magnitudine apparente Tycho-2 in magnitudine assoluta sull’asse y. I due diagrammi di Hertzsprung-Russell rappresentano un primo test della capacità astrometrica di Gaia (vedi sito INAF). Anche se basati sui dati raccolti nel corso di osservazioni routinarie, queste immagini ci anticipano un po’ delle emozioni che la missione ha promesso di regalarci. In linea di principio i dati raccolti finora da Gaia non sono sufficienti a ottenere parallasse e moto proprio di una stella. Tuttavia, basandoci su dati raccolti in precedenza, qualche dato buono è possibile ricavarlo fin d’ora. Le osservazioni astrometriche vengono corrette tenendo conto del Basic Angle Monitor montato su Gaia, e c’è ancora molto lavoro da fare in attesa che lo strumento meriti la nostra piena fiducia nei parametri astrometrici forniti. Ma siamo sulla buona strada. L’osservazione e lo studio dell’universo dallo spazio rappresentano una delle attività principali di INAF. Guardare il cielo dallo spazio, operare in orbita terrestre e nello spazio interplanetario consente lo svolgimento di ricerche non praticabili a terra. L’obiettivo principale della missione Gaia è quello di fornire la più vasta e precisa mappa tridimensionale della Via Lattea. Durante i cinque anni della sua attività nominale, che ha avuto inizio alla fine del 2013, la camera da un miliardo di pixel di Gaia osserva e misura con estrema precisione il moto delle stelle e le loro orbite attorno al centro della galassia. Il contributo italiano è tanto significativo da poter considerare l’Italia uno dei capofila della missione.
di Davide Coero Borga (INAF)

 

La Via Lattea dell’Universo primordiale

Una nuova simulazione numerica creata da alcuni astrofisici del McWilliams Center for Cosmology presso la Carnegie Mellon University (CMU) e dalla University of California a Berkeley mostra, per la prima volta, che le grandi galassie a disco, un po’ come la nostra galassia, sarebbero state presenti durante le fasi primordiali della storia cosmica. Gli scienziati hanno trovato che 500 milioni di anni dopo il Big Bang l’Universo doveva essere più ordinato e strutturato di quanto si pensasse. Questi risultati, che appariranno sull’Astrophysical Journal Letters, aiuteranno i ricercatori ad utilizzare i telescopi di nuova generazione, come WFIRST (Wide Field Infrared Survey Telescope) e JWST (James Webb Space Telescope) verso la ricerca di prove sull’esistenza di queste strutture galattiche primordiali. «Ho una certa soggezione a pensare che galassie come la Via Lattea sono esistite quando l’Universo era ancora giovane», spiega Tiziana Di Matteo della CMU e co-autrice dello studio. «C’è da dire che le osservazioni più profonde realizzate con il telescopio spaziale Hubble hanno coperto solamente piccoli volumi di spazio e hanno permesso di trovare un certo numero di galassie irregolari e ammassate presenti durante le epoche primordiali. Non è poi così sorprendente che in queste regioni limitate dello spazio alcune delle galassie più piccole non abbiano morfologie regolari come le grandi galassie a disco. Analogamente, anche le simulazioni numeriche sono state limitate in termini di scala spaziale per cui è stato possibile fare solo delle previsioni per quelle galassie primordiali più piccole». Di Matteo e il collega Rupert Croft della CMU, altro co-autore dello studio, si sono sempre occupati di “cosmologia virtuale” e hanno costruito alcune delle simulazioni più grandi che siano mai state realizzate. La loro attuale simulazione, chiamata BlueTides, è 100 volte più grande rispetto alle precedenti. La simulazione è così enorme che ha monopolizzato tutta la memoria del supercomputer BlueWater della National Science Foundation (NSF) e sono stati necessari quasi 1 milione di CPU per completarla. Di Matteo, Croft e il loro ex studente Yu Feng, ora ricercatore post-doc alla University of California a Berkely e autore principale dello studio, hanno costruito la simulazione partendo dai vincoli previsti dalla teoria della materia oscura fredda, l’attuale modello cosmologico standard che tenta di spiegare cosa sia accaduto all’Universo subito dopo il Big Bang. Una volta completata la simulazione, i ricercatori hanno analizzato i dati per vedere i risultati, un po’ come i cosmologi osservativi farebbero dopo aver raccolto i dati da un telescopio. La sorpresa è stata quella di trovare un certo numero di galassie a disco appena 500 milioni di anni dopo il Big Bang. Dato che le galassie sono strutture molto grandi e complesse, è opinione comune che esse dovrebbero impiegare molto tempo per formarsi perciò sarebbero rare, se esistessero davvero, nell’Universo primordiale. «Dal punto di vista teorico, pensiamo che quando l’Universo aveva un’età di circa 500 milioni di anni esso doveva essere un luogo alquanto caotico e disordinato», dice Croft. «Le nostre simulazioni hanno invece mostrato che l’Universo delle origini è stato tutt’altro che questo e potrebbe aver contenuto galassie spettacolari e alquanto simmetriche, come la nostra Via Lattea». Inoltre, sempre a partire dalle simulazioni, gli scienziati sono stati in grado di ricavare una serie di parametri relativi alla luminosità, dimensioni angolari, morfologia, colori e numero atteso delle galassie. Quando i telescopi come WFIRST e JWST saranno operativi, sarà possibile dare la caccia a quegli oggetti per verificare se essi descrivono la simulazione BlueTides. Se i risultati delle osservazioni e della simulazione saranno confrontabili potremo affermare di aver ottenuto delle “prove” a favore della teoria della materia oscura fredda. «Stiamo vivendo davvero un momento emozionante nell’ambito della ricerca in cosmologia. Prima, non eravamo in grado di studiare le galassie a disco primordiali con i telescopi perchè le galassie sono troppo deboli e rare. Inoltre, non eravamo in grado di studiarle al computer perchè nessun computer era in grado di soddisfare a queste esigenze. Ora abbiamo la tecnologia per far questo per cui siamo in grado di realizzare le simulazioni grazie ai potenti super computer. Il passo successivo sarà quindi quello di utilizzare i telescopi moderni come WFIRST per eseguire le osservazioni», conclude Di Matteo.
di Corrado Ruscica (INAF)

Le costanti fisiche si rifanno il look

Le costanti fondamentali che governano le leggi della natura vengono determinate con una sempre maggiore accuratezza. È quanto emerge da un articolo pubblicato di recente sulla rivista Journal of Physical and Chemical Reference Data dell’American Institute of Physics (AIP) dove vengono riassunte le misure adottate dalla comunità internazionale di fisici e metrologi che si sono riuniti a Febbraio di quest’anno ad un congresso tenutosi ad Eltville, in Germania, che aveva come argomento principale della discussione le tecniche e i metodi per la determinazione delle costanti fondamentali. La conclusione è che entro il 2018 una migliore definizione di queste costanti permetterà di rivedere diverse unità scientifiche standard, tra cui il chilogrammo e il grado Kelvin. Le costanti fondamentali descrivono un ampio spettro di proprietà fisiche che caratterizzano il mondo che ci circonda. La costante di Planck, ad esempio, governa la relazione tra l’energia e la frequenza. La costante di struttura fine spiega, invece, l’intensità dell’interazione elettromagnetica tra le particelle cariche. Le costanti fondamentali come queste stanno alla base dello sviluppo di gran parte della tecnologia moderna, dagli orologi atomici ai sistemi GPS, e sono collegate al Sistema Internazionale (SI), che è il sistema di misura standard che viene attualmente utilizzato dalla comunità scientifica e dalla maggior parte dei paesi. Definire le unità di misura, come il metro, in termini di costanti fondamentali fissate, come la velocità della luce, assicura il fatto che esse rimangono costanti nel corso del tempo. Tuttavia, alcune unità del sistema SI si basano ancora su uno standard fisico. Nel caso del chilogrammo il prototipo internazionale (“Le Grand Kilo“), realizzato nel 1875 e attualmente conservato presso il Bureau International des Poids et Mesures a Sèvres, in Francia, è un cilindro retto a base circolare che misura 39 mm in altezza e diametro ed è composto da una lega di platino (90%) e iridio (10%). Ora, poichè la ricerca scientifica viene effettuata in tutto il mondo, basarsi su un unico standard è un po’ limitativo dato che in altri paesi gli standard di massa devono essere periodicamente calibrati rispetto all’originale. In più, lo stesso standard è soggetto a variazioni della massa nel corso del tempo. Per rendere il sistema di misura più consistente e accessibile, gli scienziati stanno pensando di ridefinire entro il 2018 tutte le unità di misura del sistema SI in termini di costanti fondamentali. Però, prima di ridefinire un intero sistema di unità di misura, è importante essere certi che le costanti fondamentali su cui si basa la nuova definizione siano estremamente accurate e precise. E dato che le diverse procedure di misura o le tecniche di raccolta dei dati possono dare risultati leggermente differenti, determinare i valori esatti di queste costanti può risultare un lavoro alquanto meticoloso. «L’obiettivo del sistema SI è quello di fornire i migliori standard possibili e la nuova definizione rappresenterà un passo verso quella direzione», spiega Peter Mohr del National Institute for Standards and Technology (NIST). Fortunatamente, alcuni valori delle costanti precedentemente contestate sembrano essere convergenti. Ad esempio, dalle discussioni emerse durante il congresso sono stati evidenziati gli ultimi progressi nella determinazione della costante di Boltzmann, che spiega la relazione tra la temperatura e l’energia della particella. Con il nuovo sistema SI, la costante di Boltzmann fissata sarà utilizzata per definire il Kelvin, che è l’unità SI della temperatura. Anche per la costante di Planck si sono fatti dei progressi. «Nel passato, la costante di Planck ha rappresentato un grosso problema dato che avevamo di fronte valori divergenti ottenuti da diversi esperimenti. Comunque, i dati sembrano convergere ad un valore sufficientemente affidabile per la nuova definizione del sistema SI», dice Mohr. Anche in questo caso, la costante di Planck sarà fissata e utilizzata per definire il chilogrammo. «In futuro, le nuove definizioni renderanno esatte molte costanti fisiche che vengono misurate oggi. Altre, nonostante non siano esatte, saranno invece più accurate”, aggiunge Mohr. “Ciò permetterà di stabilizzare i valori delle costanti e di fornire standard di misure più accurati». Durante il congresso sono stati poi presentati gli ultimi “aggiustamenti” ai valori ufficiali di un certo numero di costanti fisiche fondamentali, ora disponibili online. Queste correzioni non sono quelle definitive, cioè prima che si abbia la ridefinizione del sistema SI nel 2018, ma rappresentano comunque un passo in avanti. Insomma, un consenso sempre crescente sui valori di alcune costanti fisiche fondamentali suggerisce che siamo quasi pronti a fissare i loro valori per passare, in definitiva, ad un sistema di misura più affidabile.
di Corrado Ruscica (INAF)

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