A caccia di emissioni radio da Proxima Centauri

A seguito di un’intensa campagna osservativa effettuata nell’aprile 2017, un gruppo internazionale di ricercatori guidato dall’Istituto di astrofisica dell’Andalusia (Iaa) del Consiglio nazionale delle ricerche spagnolo (Csic) ha scoperto emissione radio aurorale prodotta dall’interazione della stella Proxima Centauri, la più vicina al Sole, con il suo esopianeta Proxima Centauri b, o Proxima b in breve. I radioastronomi, tra cui anche alcuni dell’Istituto nazionale di astrofisica, sono riusciti a osservare quindi per la prima volta l’intensa attività magnetica innescata dall’esopianeta Proxima b. I risultati, pubblicati oggi sulla rivista Astronomy & Astrophysics, aprono una nuova strada nello studio dei pianeti extrasolari nel campo della radioastronomia.  Da oltre 20 anni è noto che l’interazione magnetica tra Giove e Io, una delle sue lune principali, generi una grande quantità di emissioni radio simili alle aurore che ammiriamo sulla Terra, dove le aurore boreali e australi si manifestano come spettacolari fenomeni ottici visibili nelle zone polari. A produrli  sono le particelle energetiche (elettroni e ioni) principalmente emesse dal Sole che vengono incanalate dal campo magnetico terrestre verso la nostra atmosfera. Le aurore terrestri producono anche una intensa emissione radio che può essere captata dallo spazio. Tutti i pianeti del Sistema solare che sono dotati di un campo magnetico mostrano aurore, quasi sempre dovute alle particelle del vento solare che impattano sulla magnetosfera planetaria.  Dopo la scoperta, nel 2016, del pianeta Proxima b attorno alla stella più vicina a noi, i ricercatori guidati dall’Iaa-Csic hanno deciso di verificare se le emissioni radio aurorali si verificano anche in questo sistema planetario, cioè se sia presente emissione radio aurorale stimolata dal transito di Proxima b all’interno della magnetosfera della sua stella ospite. In maniera analoga a quel che avviene per la coppia Giove e Io, il passaggio del pianeta attraverso la magnetosfera stellare accelera le particelle ionizzate in vicinanza del pianeta. Queste si propagano in un moto a spirale verso le regioni polari della stella e, dopo essere state riflesse per il fenomeno degli specchi magnetici, danno origine ad una particolare emissione molto intensa, il “maser di ciclotrone”, proprio sopra i poli magnetici della stella. La radiazione maser si propaga perpendicolarmente alle linee di forza del campo magnetico ed è polarizzata circolarmente, seguendo il moto a spirale degli elettroni. L’alta direttività fa sì che il maser, a causa del moto del pianeta, produca un effetto faro, e quindi sia visibile dalla Terra solo in particolari fasi del periodo orbitale. L’emissione maser sarà più intensa se il pianeta ha un campo magnetico, che agisce come uno scudo durante l’attraversamento della magnetosfera stellare, in quanto produce una più efficiente accelerazione di particelle. 

Proxima Centauri è una nana rossa a 4,2 anni luce dalla Terra, più piccola, più fredda e meno luminosa del Sole, ma che mostra una intensa attività magnetica e intensi brillamenti in tutto lo spettro elettromagnetico. Proxima b si trova nella fascia di abitabilità della stella, cioè a una distanza tale che la temperatura potrebbe consentire all’acqua di esistere allo stato liquido (condizione essenziale per la vita come la conosciamo sulla Terra). Purtroppo Proxima b è talmente vicina alla stella che i frequenti brillamenti, che producono intense radiazioni e particelle energetiche, potrebbero spazzare via l’atmosfera e ostacolare la nascita di una qualsiasi forma di vita. Solo l’eventuale presenza di un campo magnetico, come nel caso della Terra, riuscirebbe a schermare il pianeta dalle particelle salvaguardando lo sviluppo della vita.

La nana rossa è stata osservata con l’Australia Telescope Compact Array (Atca) a 2 GHz in un arco di tempo di 17 giorni consecutivi. L’Atca è un radiotelescopio gestito da Csiro presso il Paul Wild Observatory in Australia, composto da 6 antenne di 22 metri di diametro. Poiché il pianeta compie una rivoluzione completa attorno alla sua stella una volta ogni 11,2 giorni, si può affermare che il sistema di Proxima Centauri sia stato osservato per l’equivalente di un anno e mezzo terrestre.  L’emissione radio arriva al massimo livello due volte per ogni periodo orbitale e questi picchi di emissione radio si osservano quando il pianeta raggiunge la massima distanza apparente dalla sua stella, cioè quando Proxima b viene osservato in quadratura dalla Terra, esattamente come si aspettavano i ricercatori. Durante la campagna osservativa sono stati rilevati diversi flash radio, che però sono legati all’attività stellare. 

Corrado TrigilioPaolo Leto e Grazia Umana dell’Inaf di Catania, co-autori di questo articolo, da tempo studiano l’emissione radio aurorale dalle stelle e hanno sviluppato modelli per questo tipo di fenomeno. Leto sottolinea che «l’emissione nella banda radio di Proxima Centauri è polarizzata: secondo il meccanismo fisico che sta alla base di questo tipo di fenomeno, il segno della polarizzazione è legato all’emisfero stellare da cui proviene l’emissione radio. I dati concordano molto bene con le previsioni dei modelli di interazione tra la stella e il pianeta».  Trigilio aggiunge: «Il nostro studio fornisce la conferma definitiva che anche gli esopianeti interagiscono con il campo magnetico della loro stella. Questo è un tema che ultimamente ha riscontrato un interesse molto alto.  Sottolineiamo che questa è la prima volta che il fenomeno è osservato in un sistema in cui è confermata la presenza di un pianeta ed è correlato con la sua posizione nell’orbita. Grazie a un’accurata modellistica, si potranno ricavare indicazioni sulla presenza di eventuali campi magnetici planetari, con implicazioni sullo sviluppo di vita extraterrestre», conclude. Il gruppo dell’Inaf di Catania sta pianificando una campagna osservativa con MeerKat, uno dei precursori dello Square Kilometre Array (Ska) composto da 64 antenne paraboliche di 13 metri in Sud Africa, con l’intento di cercare l’emissione radio aurorale in tutti i sistemi planetari entro i 10 parsec dalla Terra. Media Inaf

Una stella e i suoi sette pianeti

Fra i sistemi di pianeti extrasolari più interessanti oggi conosciuti c’è quello che circonda la stella Trappist-1, che si trova a circa 40 anni luce dal Sole nella direzione della costellazione dell’Aquario. Si tratta di una piccola stella molto densa e interamente convettiva, che fonde tanto lentamente l’idrogeno in elio da avere un’aspettativa di vita di migliaia di miliardi di anni, molte volte superiore a quella del Sole: una stella quasi immortale. Tanta parsimonia nell’emissione d’energia implica una bassa temperatura superficiale: in effetti quella di Trappist-1 arriva a meno della metà della temperatura fotosferica del Sole, tanto da meritarsi la classificazione di stella nana ultra-fredda. A causa della bassa temperatura, Trappist-1 emette pochissima luce nel visibile e tantissima radiazione infrarossa, il contrario di quello che fa il Sole. Questa stella è circondata da un sistema planetario, scoperto alla fine del 2015 con il metodo dei transiti. I sette pianeti noti – chiamati Trappist-1 b, c, d, e, f, g, h – si muovono su orbite praticamente circolari con periodi orbitali molto brevi (da 1,5 giorni per b a quasi 19 giorni per h). Questi pianeti sono vicinissimi alla nana rossa: i loro raggi orbitali vanno da 1,7 a 9,5 milioni di km. In pratica il sistema planetario di questa piccola stella può essere comodamente ospitato tutto all’interno dell’orbita di Mercurio, il pianeta più vicino al Sole. Come conseguenza, nel sistema planetario di questa nana rossa le distanze minime fra un pianeta e l’altro sono molto basse rispetto a quello che abbiamo nel sistema solare. La distanza minima media fra pianeti contigui è di circa 1,3 milioni di km, solo poco più di 3 volte la distanza della Terra-Luna. Si tratta di un sistema planetario completamente alieno, molto diverso dal Sistema solare. Le perturbazioni gravitazionali fra un pianeta e l’altro sono importanti e misurabili come variazione del periodo orbitale. Grazie a questo è stato possibile determinare, oltre alle dimensioni dei pianeti durante il transito, anche le masse. Conoscendo le dimensioni e la massa di un qualsiasi corpo si può ottenere il valore della densità media. Le misure fatte in passato hanno permesso di stabilire che tutti e sette i pianeti hanno all’incirca le dimensioni e la massa della Terra, quindi devono anche essere pianeti rocciosi o di tipo terrestre (che non vuol dire abitabile).

Un nuovo articolo, recentemente pubblicato sul The Planetary Science Journal, illustra i risultati delle misurazioni di densità più precise mai fatte per quanto riguarda gli esopianeti. Queste misure si basano sulle osservazioni dei transiti effettuate – nell’arco di quattro anni – con il telescopio spaziale Spitzer. A queste osservazioni sono state aggiunte le misurazioni dei tempi di transito fatte da terra, dal telescopio spaziale Hubble e dalla missione Kepler 2. I tempi di transito sono stati utilizzati per un’analisi della dinamica a N corpi del sistema da cui è stato possibile ricavare una misura più precisa della massa e – di conseguenza – della densità media. Il modello sviluppato dai ricercatori ha permesso di riprodurre con buona precisione le variazioni del periodo orbitale dei pianeti indotte dalle perturbazioni gravitazionali, con valori che oscillano da 5 minuti per il pianeta ‘b’ a 50 minuti per la coppia ‘g-h’. I sette pianeti di Trappist-1 possiedono densità simili, i valori differiscono di non più del 3 per cento. Posto uguale a 1 la densità della Terra, per la densità dei pianeti di Trappist-1 si trovano valori che vanno da 0,9 a 0,99: sono tutti meno densi del nostro pianeta. Questo sistema planetario alieno è molto diverso dal nostro sistema solare, dove le densità medie diminuiscono all’aumentare della distanza dal Sole. In media, la differenza di densità tra i pianeti di Trappist-1 e la Terra e Venere è circa l’8 per cento: un valore piccolo, ma significativo su scala planetaria. Un modo per spiegare perché i pianeti di Trappist-1 siano meno densi del nostro pianeta è che abbiano una composizione chimica simile alla Terra, ma con una percentuale inferiore di ferro: il 21 per cento rispetto al 32 per cento terrestre. In alternativa potrebbero essere più ricchi di elementi leggeri. Ad esempio, tutto il ferro nei pianeti di Trappist-1 potrebbe essere legato con l’ossigeno formando ossido di ferro, ossia ruggine. L’ossigeno aggiuntivo ridurrebbe la densità dei pianeti. Se la bassa densità dei pianeti di Trappist-1 fosse causata interamente da ferro ossidato, i pianeti dovrebbero essere arrugginiti dappertutto e non potrebbero avere nuclei di ferro solidi. Oppure la struttura interna dei pianeti potrebbe essere del tutto simile alla Terra, ma con uno strato di acqua superficiale in grado di ridurre la densità media. In questo scenario la percentuale d’acqua presente andrebbe dal 3 per cento al 6 per cento della massa del pianeta. Le densità più basse dei pianeti ‘d’, ‘f’, ‘g’ e ‘h’ consentirebbero una quantità d’acqua da due a tre volte superiore rispetto ai pianeti ‘b’, ‘c’ ed ‘e’. Per questa semplice stima è stato assunto uno strato d’acqua con una temperatura superficiale di 27 °C alla pressione di 1 bar. Una quantità di acqua più elevata per tre dei quattro pianeti esterni potrebbe essere un indizio che si sono formati oltre la linea di condensazione dell’acqua, che per Trappist-1 si trova a 0,025 Au (3,75 milioni di km) dalla stella. I pianeti ‘e’, ‘f’, ‘g’ sono anche all’interno della zona di abitabilità della nana rossa, ossia si trovano in quel range di distanze che permette di avere acqua liquida in superficie. Questo non vuol dire che siano oasi di vita aliene. Prima di tutto perché per avere la temperatura atta a mantenere l’acqua liquida in superficie devono essere anche dotati di un’opportuna atmosfera (e non sappiamo nemmeno se esiste), e secondo perché l’energia che arriva dalla stella cade praticamente tutta nell’infrarosso e non è detto che questo sia sufficiente per dare inizio al ciclo della vita in un ipotetico oceano. Media Inaf

Koi-5Ab, il pianeta con tre Soli

Poco dopo l’inizio delle operazioni della missione Kepler della Nasa, nel 2009, il telescopio spaziale individuò quello che si pensava fosse un pianeta grande circa la metà di Saturno, in un sistema composto da più stelle. Si chiamava Koi-5Ab e fu il secondo candidato trovato dalla missione. Era un periodo di grande eccitazione generale, per via degli innumerevoli risultati che stava dando la missione, e alla fine Koi-5Ab fu messo da parte mentre Kepler collezionava sempre più scoperte di nuovi esopianeti. Alla fine delle operazioni, nel 2018, Kepler aveva scoperto ben 2394 esopianeti e altri 2366 candidati che ancora necessitavano di conferma. «Koi-5Ab è stato abbandonato perché era complicato e avevamo migliaia di candidati», confessa David Ciardi dell’Exoplanet Science Institute della Nasa. «C’erano candidati più facili rispetto a Koi-5Ab e stavamo imparando qualcosa di nuovo da Kepler ogni giorno. Così, Koi-5 è stato dimenticato». Dimenticato sì, ma non perduto. Ora, dopo una lunga caccia durata molti anni – e che ha coinvolto molti telescopi – Ciardi ha, a suo dire, “resuscitato Koi-5Ab dai morti”. Grazie alle nuove osservazioni del Transiting Exoplanet Survey Satellite – Tess, il secondo cacciatore di esopianeti della Nasa – e a una serie di telescopi terrestri, Ciardi è stato finalmente in grado di vederci più chiaro in quello strano sistema stellare e provare finalmente l’esistenza di Koi-5Ab. Molto probabilmente, date le sue dimensioni, si tratta di un gigante gassoso come Giove o Saturno. È piuttosto insolito in quanto orbita attorno a una stella in un sistema che presenta altre due stelle compagne, muovendosi su un piano che non è allineato con almeno una delle stelle. La disposizione dei corpi celesti del sistema mette in dubbio il modo in cui ogni membro può essersi formato dalle stesse nubi di gas e polvere. «Non siamo a conoscenza di molti pianeti che appartengono a sistemi con tre stelle, e questo è davvero speciale perché la sua orbita è distorta», spiega Ciardi. «Abbiamo ancora molte domande su come e quando possono formarsi pianeti in sistemi a più stelle, e su come le loro proprietà si confrontano con quelle di pianeti in sistemi a stella singola. Studiando questo sistema in modo più dettagliato, forse potremo ottenere informazioni su come l’universo crea i pianeti». Dopo la sua rilevazione iniziale da parte di Kepler, Ciardi e altri ricercatori avevano individuato Koi-5Ab in un gruppo di candidati esopianeti su cui stavano indagando. Utilizzando i dati dell’Osservatorio W. M. Keck alle Hawaii, dell’Osservatorio Palomar del Caltech vicino a San Diego e del Gemini North alle Hawaii, hanno stabilito che Koi-5b sembrava girare intorno a una stella in un sistema a tre stelle. Tuttavia, non erano riusciti a stabilire se il segnale del pianeta fosse in realtà un glitch di una delle altre due stelle o, nel caso in cui il pianeta fosse reale, attorno a quale delle stelle orbitasse. Poi, nel 2018, è arrivato Tess che, come Kepler, va a caccia di esopianeti sfruttando il metodo dei transiti. Tess ha osservato una parte del campo visivo di Kepler, incluso il sistema Koi-5 e, con una certa sicurezza, ha identificato Koi-5Ab come possibile candidato (che ha chiamato Toi-1241b). Come Kepler aveva osservato in precedenza, Tess è arrivato alla conclusione che il pianeta orbita intorno alla sua stella all’incirca ogni cinque giorni. A quel punto i ricercatori  hanno rianalizzato tutti i dati, cercando nuovi indizi dai telescopi terrestri. Utilizzando un metodo alternativo a quello impiegato dai due telescopi spaziali (il metodo delle velocità radiali), l’Osservatorio Keck viene spesso utilizzato per i follow-up di esopianeti misurando la leggera oscillazione nel moto di una stella quando un pianeta le gira intorno ed esercita una certa forza gravitazionale. Grazie alla collaborazione con il California Planet Search, Ciardi ha trovato queste oscillazioni nei dati del Keck del sistema Koi-5, indice dell’esistenza del pianeta. Insieme, i dati raccolti dai telescopi spaziali e terrestri hanno contribuito a confermare che Koi-5Ab è a tutti gli effetti un pianeta in orbita attorno alla stella primaria del sistema triplo. Vediamo com’è fatto questo strano sistema triplo. Koi-5Ab orbita attorno alla stella A, che ha una compagna relativamente vicina, la stella B. La stella A e la stella B orbitano l’una attorno all’altra ogni 30 anni. Una terza stella legata gravitazionalmente alle due – la stella C – orbita attorno alle stelle A e B ogni 400 anni. Combinando i vari set di dati si vede che il piano orbitale del pianeta non è allineato con il piano orbitale della stella B, come ci si potrebbe aspettare se le stelle e il pianeta si fossero formate dallo stesso disco di materiale vorticoso. Gli astronomi non sono sicuri di cosa abbia causato il disallineamento di Koi-5Ab, ma credono che la seconda stella abbia “calciato” via  il pianeta durante il suo sviluppo, inclinando la sua orbita e facendolo migrare verso l’interno. I sistemi a tre stelle costituiscono circa il 10 percento di tutti i sistemi stellari. Questa non è la prima prova di pianeti in sistemi a due o tre stelle. Eppure, nonostante centinaia di scoperte di pianeti in sistemi stellari multipli, in questi sistemi sono stati osservati molti meno pianeti rispetto a quelli in sistemi a stella singola. Questo fatto potrebbe essere dovuto a un bias osservativo (i pianeti a stella singola sono più facili da rilevare) oppure al fatto che la formazione dei pianeti è in realtà meno comune nei sistemi a stelle multiple. Media Inaf

A caccia di emissioni radio da Proxima Centauri

A seguito di un’intensa campagna osservativa effettuata nell’aprile 2017, un gruppo internazionale di ricercatori guidato dall’Istituto di astrofisica dell’Andalusia (Iaa) del Consiglio nazionale delle ricerche spagnolo (Csic) ha scoperto emissione radio aurorale prodotta dall’interazione della stella Proxima Centauri, la più vicina al Sole, con il suo esopianeta Proxima Centauri b, o Proxima b in breve. I radioastronomi, tra cui anche alcuni dell’Istituto nazionale di astrofisica, sono riusciti a osservare quindi per la prima volta l’intensa attività magnetica innescata dall’esopianeta Proxima b. I risultati, pubblicati oggi sulla rivista Astronomy & Astrophysics, aprono una nuova strada nello studio dei pianeti extrasolari nel campo della radioastronomia.  Da oltre 20 anni è noto che l’interazione magnetica tra Giove e Io, una delle sue lune principali, generi una grande quantità di emissioni radio simili alle aurore che ammiriamo sulla Terra, dove le aurore boreali e australi si manifestano come spettacolari fenomeni ottici visibili nelle zone polari. A produrli  sono le particelle energetiche (elettroni e ioni) principalmente emesse dal Sole che vengono incanalate dal campo magnetico terrestre verso la nostra atmosfera. Le aurore terrestri producono anche una intensa emissione radio che può essere captata dallo spazio. Tutti i pianeti del Sistema solare che sono dotati di un campo magnetico mostrano aurore, quasi sempre dovute alle particelle del vento solare che impattano sulla magnetosfera planetaria.  Dopo la scoperta, nel 2016, del pianeta Proxima b attorno alla stella più vicina a noi, i ricercatori guidati dall’Iaa-Csic hanno deciso di verificare se le emissioni radio aurorali si verificano anche in questo sistema planetario, cioè se sia presente emissione radio aurorale stimolata dal transito di Proxima b all’interno della magnetosfera della sua stella ospite. In maniera analoga a quel che avviene per la coppia Giove e Io, il passaggio del pianeta attraverso la magnetosfera stellare accelera le particelle ionizzate in vicinanza del pianeta. Queste si propagano in un moto a spirale verso le regioni polari della stella e, dopo essere state riflesse per il fenomeno degli specchi magnetici, danno origine ad una particolare emissione molto intensa, il “maser di ciclotrone”, proprio sopra i poli magnetici della stella. La radiazione maser si propaga perpendicolarmente alle linee di forza del campo magnetico ed è polarizzata circolarmente, seguendo il moto a spirale degli elettroni. L’alta direttività fa sì che il maser, a causa del moto del pianeta, produca un effetto faro, e quindi sia visibile dalla Terra solo in particolari fasi del periodo orbitale. L’emissione maser sarà più intensa se il pianeta ha un campo magnetico, che agisce come uno scudo durante l’attraversamento della magnetosfera stellare, in quanto produce una più efficiente accelerazione di particelle.  Proxima Centauri è una nana rossa a 4,2 anni luce dalla Terra, più piccola, più fredda e meno luminosa del Sole, ma che mostra una intensa attività magnetica e intensi brillamenti in tutto lo spettro elettromagnetico. Proxima b si trova nella fascia di abitabilità della stella, cioè a una distanza tale che la temperatura potrebbe consentire all’acqua di esistere allo stato liquido (condizione essenziale per la vita come la conosciamo sulla Terra). Purtroppo Proxima b è talmente vicina alla stella che i frequenti brillamenti, che producono intense radiazioni e particelle energetiche, potrebbero spazzare via l’atmosfera e ostacolare la nascita di una qualsiasi forma di vita. Solo l’eventuale presenza di un campo magnetico, come nel caso della Terra, riuscirebbe a schermare il pianeta dalle particelle salvaguardando lo sviluppo della vita. La nana rossa è stata osservata con l’Australia Telescope Compact Array (Atca) a 2 GHz in un arco di tempo di 17 giorni consecutivi. L’Atca è un radiotelescopio gestito da Csiro presso il Paul Wild Observatory in Australia, composto da 6 antenne di 22 metri di diametro. Poiché il pianeta compie una rivoluzione completa attorno alla sua stella una volta ogni 11,2 giorni, si può affermare che il sistema di Proxima Centauri sia stato osservato per l’equivalente di un anno e mezzo terrestre. L’emissione radio arriva al massimo livello due volte per ogni periodo orbitale e questi picchi di emissione radio si osservano quando il pianeta raggiunge la massima distanza apparente dalla sua stella, cioè quando Proxima b viene osservato in quadratura dalla Terra, esattamente come si aspettavano i ricercatori. Durante la campagna osservativa sono stati rilevati diversi flash radio, che però sono legati all’attività stellare. 

Corrado TrigilioPaolo Leto e Grazia Umana dell’Inaf di Catania, co-autori di questo articolo, da tempo studiano l’emissione radio aurorale dalle stelle e hanno sviluppato modelli per questo tipo di fenomeno. Leto sottolinea che «l’emissione nella banda radio di Proxima Centauri è polarizzata: secondo il meccanismo fisico che sta alla base di questo tipo di fenomeno, il segno della polarizzazione è legato all’emisfero stellare da cui proviene l’emissione radio. I dati concordano molto bene con le previsioni dei modelli di interazione tra la stella e il pianeta».  Trigilio aggiunge: «Il nostro studio fornisce la conferma definitiva che anche gli esopianeti interagiscono con il campo magnetico della loro stella. Questo è un tema che ultimamente ha riscontrato un interesse molto alto.  Sottolineiamo che questa è la prima volta che il fenomeno è osservato in un sistema in cui è confermata la presenza di un pianeta ed è correlato con la sua posizione nell’orbita. Grazie a un’accurata modellistica, si potranno ricavare indicazioni sulla presenza di eventuali campi magnetici planetari, con implicazioni sullo sviluppo di vita extraterrestre», conclude. Il gruppo dell’Inaf di Catania sta pianificando una campagna osservativa con MeerKat, uno dei precursori dello Square Kilometre Array (Ska) composto da 64 antenne paraboliche di 13 metri in Sud Africa, con l’intento di cercare l’emissione radio aurorale in tutti i sistemi planetari entro i 10 parsec dalla Terra. Media Inaf

Il primo esopianeta da ascoltare in radio

Il radiotelescopio europeo Low Frequency Array (Lofar), la più estesa rete per osservazioni radioastronomiche in bassa frequenza al mondo attualmente operativa, ha rilevato quella che potrebbe essere la prima emissione radio captata da un pianeta oltre il Sistema solare. In corso di pubblicazione sulla rivista Astronomy & Astrophysics, i dati sono stati raccolti da un team guidato dalla Cornell University (Usa) e riguardano il sistema Tau Boötes, distante circa 51 anni luce in direzione della costellazione di Boote, che ospita una stella binaria e un esopianeta di tipo gioviano caldo (un pianeta gigante e gassoso molto vicino al suo sole). Sfruttando la potenza delle antenne dell’array LoFar (25mila raggruppate in 51 stazioni distribuite al momento in 7 stati europei), Jake D. Turner (Cornell University) e colleghi hanno osservato anche altri potenziali candidati per le emissioni radio da esopianeti nei sistemi 55 Cancri (nella costellazione del Cancro) e Upsilon Andromedae. Tuttavia solo il sistema Tau Boötes ha mostrato una significativa firma radio che apre una finestra unica nel suo genere sul campo magnetico del pianeta. Dopo aver esaminato più di 100 ore di osservazioni radio, i ricercatori sono stati in grado di trovare la firma di un gioviano caldo prevista nel sistema Tau Boötes. «Abbiamo imparato dal nostro Giove che aspetto ha questo tipo di rilevamento. Siamo andati a cercarlo e lo abbiamo trovato», dice Turner, primo autore dello studio. L’esopianeta protagonista della survey è Tau Boötes Ab, scoperto nel 1996 attorno alla stella Tau Boötis A, con una massa pari a 7-8 volte quella di Giove.

Mondi attorno a stelle di classe M

I complicati processi coinvolti nel processo di formazione planetaria sono ancora oggetto di studio. Il modello più accreditato per spiegare la formazione dei pianeti gassosi è il “core-accretion model“, che prevede prima la formazione di un nucleo roccioso di diverse masse terrestri tramite la coagulazione di planetesimali, seguita da una fase di accrescimento di gas dall’ambiente circostante appena il nucleo diventa sufficientemente massiccio. Questo e altri modelli proposti vengono testati sia attraverso lo sviluppo di modelli teorici, sia attraverso osservazioni mirate a verificare relazioni previste dai modello stessi. Ad esempio, un’importante conseguenza del core-accretion model è che la formazione di pianeti gassosi dovrebbe essere più comune attorno stelle ad alta metallicità, ossia con una maggiore abbondanza di elementi chimici più pesanti di idrogeno ed elio (chiamati “metalli” in astronomia), attorno alle quali la formazione di nuclei rocciosi massicci dovrebbe essere facilitata. La maggiore frequenza di pianeti gassosi attorno stelle ad alta metallicità è al momento verificata per stelle di classe spettrale FG e K (ossia con temperature tra 7500 e 3700 gradi kelvin). Questa relazione pianeta-metallicità non è però ancora verificata attorno alle stelle di classe spettrale M, più piccole e fredde, nonostante le diverse campagne di ricerca e caratterizzazione di pianeti attorno a stelle di questa classe. Una delle difficoltà maggiori nel determinare se tale relazione possa essere estesa alle stelle M è dovuta alla presenza di bande molecolari larghe e profonde nei loro spettri ottici, che spesso coprono e si confondono con le righe necessarie per determinare la metallicità delle stelle. Inoltre le stelle M sono poco luminose, richiedendo spesso lunghi tempi di osservazione per ottenere spettri con un buon rapporto segnale/rumore. L’astronomo Jesus Maldonado dell’Inaf di Palermo ha guidato uno studio mirato a determinare la relazione tra la presenza di pianeti (sia gassosi che rocciosi) da una parte e, dall’altra, la metallicità e la massa di 204 stelle di classe spettrale M, osservate con i due spettrografi “gemelli” Harps (dell’Eso, nell’emisfero sud) e Harps-N (nell’emisfero nord, alle Canarie, al Telescopio nazionale Galileo, dell’Inaf) durante campagne osservative mirate alla ricerca di pianeti con la tecnica delle velocità radiali. In questo studio, la metallicità delle stelle è determinata con una tecnica statistica innovativa basata su metodi bayesiani di analisi di righe spettrali e rapporti di intensità di righe. Questa analisi ha permesso di verificare che le relazioni tra la presenza di pianeti e metallicità valide per le stelle di classe spettrale FGK possono essere estese anche per le stelle M: anche queste stelle, infatti, mostrano una crescente probabilità di ospitare pianeti gassosi all’aumentare della metallicità, mentre nessuna relazione è osservata per pianeti terrestri. Gli autori dello studio hanno anche osservato una correlazione tra la presenza di pianeti gassosi e la massa della stella, anch’essa valida per le classi spettrali FGK. «I sistemi planetari si trovano intorno a un’ampia varietà di ospiti stellari, da nane brune e stelle di piccola massa a giganti rosse, pulsar e probabilmente nane bianche. Tuttavia, le nostre attuali conoscenze sulla formazione dei pianeti è ancora basata sull’analisi delle stelle di tipo solare. In particolare, per le stelle di piccola massa (nane M) non ci sono ancora degli studi chimici dettagliati. In questo lavoro sviluppiamo tecniche innovative per misurare le abbondanze chimiche di queste tipo di stelle. Il nostro scopo è quello di studiare le correlazioni tra la metallicità, le abbondanze chimiche, la massa della stella e la presenza di diversi tipi di pianeti», dice a Media Inaf Maldonado. «Troviamo che le nane M che ospitano pianeti gassosi mostrano una correlazione tra la metallicità del pianeta e una correlazione con la massa stellare. Le nane M che ospitano pianeti di piccola massa non sembrano seguire queste correlazione. Mostriamo, per la prima volta che non ci sono differenze nella distribuzione dell’abbondanza di elementi diversi dal ferro tra nane M con e senza pianeti conosciuti. Questi risultati possono essere spiegate con modelli di formazione di pianeti via core-accretion». Media Inaf

L’orbita estrema di Hd 106906b

Hd 106906 b è un esopianeta di 11 masse gioviane individuato con i telescopi Magellano dall’Osservatorio di Las Campanas, nel deserto di Atacama, in Cile. All’epoca della scoperta, nel 2013, gli astronomi non riuscirono tuttavia a ottenere alcuna informazione sulla sua orbita: i 110 miliardi di km (oltre 700 volte la distanza della Terra dal Sole) che lo separano dalla coppia di stelle madri – il sistema binario Hd106906 – erano troppi per ottenere qualsiasi informazione. Per farlo occorreva che si effettuassero misurazioni del movimento planetario molto accurate e precise per un lungo periodo di tempo. Una missione difficile, ma non impossibile. Lo Hubble Space Telescope, dopo 14 lunghi anni di osservazioni, è riuscito nell’impresa, ed è la prima volta che accade. Il gruppo di astronomi che ha analizzato i dati è rimasto sorpreso nello scoprire che il pianeta ha un’orbita estrema: molto inclinata, allungata ed esterna al disco di detriti – simile alla nostra fascia di Kuiper, la cintura di piccoli corpi ghiacciati oltre Nettuno – che avvolge le due stelle. Orbita che il pianeta, stimano gli autori dello studio pubblicato ieri su The Astronomical Journal, impiega ben 15mila anni per completare. «Per sottolineare la stranezza dell’orbita basta semplicemente guardare al nostro Sistema solare», dice il primo autore dello studio, Meiji Nguyen, dell’università di Berkeley, «dove tutti i pianeti si trovano all’incirca sullo stesso piano. Sarebbe bizzarro se, per esempio, Giove fosse inclinato di 30 gradi rispetto al piano in cui orbitano gli altri pianeti. Questo solleva molti interrogativi su come l’Hd 106906 b sia finito così lontano e su un’orbita così inclinata». Una teoria di come ciò sia potuto accadere c’è, e prevede che l’esopianeta si sia formato molto più vicino alle sue due stelle – circa tre volte la distanza della Terra dal Sole. Lì, il disco circumstellare del sistema binario potrebbe aver causato il progressivo decadimento della sua orbita, spingendolo ulteriormente verso le due stelle, al centro del sistema. Successivamente, le forze gravitazionali delle stelle gemelle potrebbero averlo spinto fuori dal sistema, portandolo nell’orbita eccentrica dove adesso si trova. A quel punto una stella nelle vicinanze potrebbe aver stabilizzando l’orbita dell’esopianeta, impedendogli di lasciare il sistema di origine. Uno scenario che potrebbe essere simile a quello che avrebbe portato l’ipotetico Pianeta X – o Planet Nine, com’è anche chiamato – lì dove secondo molti si trova: nella parte esterna del  Sistema solare, oltre la fascia di Kuiper. Secondo i ricercatori, anche il fantomatico Pianeta X potrebbe essersi formato nel Sistema solare interno, per essere poi allontanato dalle interazioni gravitazionali con Giove. Stelle di passaggio potrebbero averne infine stabilizzato l’orbita, impedendo che lasciasse il Sistema solare. «Nonostante a oggi non sia stato rilevato alcun Pianeta X, la sua orbita può essere dedotta dal suo effetto sui vari oggetti del Sistema solare esterno», osserva Robert De Rosa, astronomo dello European Southern Observatory e coautore dello studio. «Questo suggerisce che se un pianeta fosse effettivamente responsabile di ciò che osserviamo nelle orbite degli oggetti trans-nettuniani, questo dovrebbe avere un’orbita eccentrica e inclinata rispetto al piano del Sistema solare: simile a quella che stiamo vedendo con Hd 106906b». Gli scienziati intendono ottenere dati aggiuntivi su Hd 106906b utilizzando il prossimo telescopio spaziale targato Nasa, Esa e Csa, James Webb, per comprendere meglio il sistema planetario in questione. «Ci sono ancora molte domande aperte su questo sistema», conclude De Rosa. «Ad esempio, non sappiamo con certezza dove o come si sia formato il pianeta. Sebbene abbiamo effettuato la prima misurazione del movimento orbitale, ci sono ancora grandi incertezze sui vari parametri orbitali. È probabile che astronomi osservativi e teorici studieranno Hd 106906 negli anni a venire, svelando i molti misteri di questo straordinario sistema planetario». Media Inaf

A caccia di pianeti extrasolari: Transiting Exoplanet Survey

Tess, il Transiting Exoplanet Survey Satellite della Nasa, è un osservatorio spaziale che dal 2018 osserva la volta celeste alla ricerca di pianeti extrasolari. Per farlo, sfrutta il metodo dei transiti: una tecnica ben consolidata che ci ha permesso di scoprire la quasi totalità – tra quelli che conosciamo – dei pianeti che orbitano altre stelle. Tess però non lavora da solo: per completare le sue analisi ha bisogno dell’aiuto di altri osservatori che, da Terra, forniscano ulteriori dati e dettagli sugli oggetti che scopre. L’insieme di questi osservatori prende il nome di Tess Follow-up Observing Program Working Group (Tfop Wg). Rete della quale fa ora parte anche l’Osservatorio “Bellatrix” dell’astrofisico Gianluca Masi. Lo abbiamo intervistato.

In cosa consiste questo Working Group del quale il suo Osservatorio Bellatrix fa ora parte?

«Nell’ambito della missione Tess, il Virtual Telescope Project (e dunque l’Osservatorio Bellatrix che lo ospita) partecipa al sottogruppo 1 del Tfop Wg: al suo interno vengono svolte osservazioni di tipo fotometrico, entro i limiti imposti dalla nostra atmosfera, al fine di individuare eventuali falsi positivi negli eventi di transito registrati da Tess, magari dovuti a contaminazione da parte di stelle binarie a eclisse. Insomma, un lavoro essenziale per avvalorare la reale natura di un transito, ovvero dell’impronta fotometrica di un pianeta in orbita attorno a una certa stella. Un’attività, questa, che mi entusiasma: mi ha sempre appassionato cercare il “pelo nell’uovo”, il dettaglio dirimente nelle cose del cielo».

Ne fanno parte altri osservatori italiani, oltre al suo? 

«Sì, c’è un manipolo di osservatori italiani coinvolti, sempre nel medesimo gruppo di lavoro fotometrico. Sarà interessante condividere esperienze e procedure, al fine di ottimizzare il ritorno scientifico dal nostro Paese. Evidentemente, l’Italia è sempre ben rappresentata in ambito astronomico, e credo che anche in questo caso il contributo si farà sentire».

E il Virtual Telescope avrà dei compiti specifici impartiti dalla Nasa a seguito delle osservazioni di Tess?

«In questa fase sto prendendo confidenza con le procedure previste: è infatti importante uniformarsi agli standard stabiliti, per produrre un lavoro davvero utile. Personalmente, intendo svolgere qualche test preliminare su oggetti già segnalati all’interno del programma e subito dopo inizierà la fase attiva vera e propria. In questo mi conforta la lunga tradizione scientifica del mio osservatorio e del progetto Virtual Telescope, in particolare in ambito fotometrico: in letteratura ci sono decine di stelle variabili cataclismiche (in primisnovae nane) che sono state caratterizzate grazie anche alle osservazioni effettuate con i miei strumenti, in certi casi le prime mai ottenute. Queste attività, iniziate nel lontano 1997 e ormai mature, hanno permesso di sviluppare un know-how che sarà senz’altro prezioso in questa nuova avventura».

Immagino che a Ceccano, in provincia di Frosinone, il cielo non sia dei migliori. Come è possibile dare un contributo a un progetto che richiede tanta precisione come quello della ricerca di esopianeti?

«A dire il vero, il cielo è migliore di quanto si potrebbe pensare. Questo perché da molti anni svolgo un attento e – non lo nego – faticoso lavoro di monitoraggio sul territorio per quanto riguarda la contaminazione del cielo notturno da parte della luce artificiale. L’osservatorio è nel Lazio, dove esiste una specifica legge regionale sull’inquinamento luminoso. Monitorando gli impianti di illuminazione, segnalando alle autorità competenti quelli non conformi e collaborando alla successiva messa a norma si contribuisce a salvaguardare il patrimonio culturale del cielo stellato, le possibilità di ricerca scientifica connesse e a ridurre gli sprechi energetici e le spese associate. A onor del vero, il Virtual Telescope ha precedenti importanti in fatto di pianeti extrasolari: il sottoscritto, infatti, è co-scopritore (2007) degli esopianeti Xo-2b e Xo-3b, i primi alla cui scoperta abbiano mai contribuito osservazioni condotte dal territorio italiano».

Quando ha montato il primo telescopio sul terrazzo di Ceccano, avrebbe mai pensato che un giorno sarebbe arrivato a collaborare con la Nasa?

«Quando, nel lontano 1997, installai la prima postazione astronomica permanente, non pensavo a sviluppi di simili entità. Subito dopo, però, sono iniziate collaborazioni importanti, sono arrivate le prime scoperte (stelle variabili e asteroidi) e si è fatto largo il desiderio di poter adoperare gli strumenti sempre più spesso, al limite tutte le notti serene. Vivendo a Roma, a quasi 100 km di distanza dai telescopi, per poterlo fare ho dovuto ingegnarmi e rendere completamente fruibile da remoto l’intero osservatorio, riuscendovi nel 2006: così è nato il Virtual Telescope Project. Esso oggi dispone di due telescopi completamente robotici, capaci di lavorare autonomamente per molte notti di fila e in grado di trasmettere su web quanto riprendono, con l’aggiunta di un commento dal vivo. Questo secondo aspetto ha reso il Virtual Telescope una struttura di notevole prestigio internazionale per osservare in diretta web i più disparati fenomeni astronomici: a oggi, da inizio 2020, sono oltre tre milioni i “viaggiatori virtuali” che hanno seguito le nostre dirette. Ora questa avventura prosegue anche in questo nuovo ambito, con la speranza di dare un utile contributo». (Media Inaf)

Mondi con due soli: in cerca di stelle binarie con esopianeti abitabili

Un gruppo di ricercatori dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) ha studiato in maniera sistematica la capacità di sistemi stellari binari di ospitare esopianeti nella cosiddetta fascia di abitabilità, una particolare zona all’interno di ogni sistema in cui un pianeta potrebbe ospitare forme di vita grazie all’esistenza di acqua in forma liquida. Il team, guidato da Paolo Simonetti e da Giovanni Vladilo, è stato il primo a studiare l’abitabilità attorno a stelle binarie in modo sistematico, utilizzando una popolazione simulata di sistemi binari rappresentativa della popolazione realmente presente nella Via Lattea. Tra le altre cose, hanno dedotto la possibilità di avere zone abitabili fino a 10 volte più ampie rispetto a quelle di sistemi stellari singoli. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista The Astrophysical Journal. Circa il 40 per cento delle stelle della Via Lattea sono inserite in un sistema binario, formato da due stelle che orbitano attorno ad un baricentro comune. In un sistema binario i pianeti possono orbitare attorno a entrambe le stelle (orbita circumbinaria) oppure attorno a una delle due stelle (orbita circumstellare). Per stimare l’effettiva abitabilità di tali orbite si è tenuto conto che nei sistemi binari esistono regioni di instabilità in cui, se si formasse un pianeta, questo verrebbe prima o poi distrutto o espulso dal sistema.  «Nel nostro articolo», spiega Simonetti, dottorando all’Università di Trieste e associato presso l’Inaf della medesima città, «abbiamo studiato la probabilità che un sistema binario possieda una fascia di abitabilità circumbinaria e/o delle fasce di abitabilità circumstellari. Per fare questo, al computer è stata generata una popolazione di sistemi binari, scegliendo la massa delle due stelle, la loro separazione e la loro eccentricità dalle distribuzioni osservate di queste quantità. In questo modo, la popolazione di stelle riproduce quella reale delle binarie della nostra galassia. A questo punto abbiamo analizzato questa popolazione, calcolando per ogni sistema la posizione delle zone abitabili e delle regioni di instabilità. Se in un certo sistema la regione di instabilità si sovrappone alla zona abitabile, allora in quel sistema non ci potranno essere pianeti abitabili. Al contrario, se la regione di instabilità e la zona abitabile sono ben lontane l’una dall’altra, allora il sistema può potenzialmente ospitare un pianeta in grado di sostenere la vita, come la Terra».  Dai dati raccolti, gli esperti hanno potuto confermare che le zone abitabili circumstellari sono comuni, tra l’80 e il 90 per cento delle binarie possano supportarle. Hanno inoltre scoperto che, al contrario, le zone abitabili circumbinarie sono rare: non più del 5 per cento delle binarie ne hanno una. «Pianeti abitabili come il famoso Tatooine di Star Wars devono essere estremamente rari nella Via Lattea. Inoltre, i nostri risultati permettono di stabilire la probabilità che un sistema binario  abbia una zona abitabile (circumbinaria o circumstellare) sulla base delle sue caratteristiche osservabili (masse stellari, separazione media, eccentricità) e possono così fungere da guida per le future campagne  osservative. Ad esempio, una eccentricità del sistema binario anche di poco diversa da zero fa crollare la  probabilità di trovare zone abitabili circumbinarie», osserva Simonetti.   I ricercatori dell’Inaf hanno scoperto che le zone abitabili dei sistemi binari possono essere più ampie rispetto a quelle attorno a stelle singole di uguale classe spettrale. Quelle circumbinarie – nei rari casi in cui esistono – guadagnano fino al 40 per cento della larghezza, mentre quelle circumstellari possono essere fino a 10 volte più larghe.  Tutto questo spazio in più permette di ospitare un numero maggiore di pianeti abitabili nello stesso sistema e di avere pianeti non bloccati marealmente attorno a stelle secondarie della classe delle nane rosse.  «Il blocco mareale è quel fenomeno che costringe un pianeta a dare sempre la  stessa faccia alla stella attorno a cui orbita», sottolinea Simonetti. «Questo fenomeno è tanto più probabile quanto più vicino un  pianeta orbita attorno alla sua stella. Nelle stelle di piccola massa, chiamate anche nane rosse, la zona  abitabile è così vicina da fare sì che un eventuale pianeta che vi si trovasse dentro sarebbe sicuramente  bloccato marealmente. Chiaramente dare sempre la stessa faccia alla stella può produrre un clima estremo  che rende molto meno probabile la nascita e lo sviluppo della vita». E conclude: «Quello che noi abbiamo scoperto è che, se la nana rossa fa parte di un sistema binario, può in teoria avere una zona abitabile molto più estesa. In  questo modo, un eventuale pianeta potrebbe orbitare più lontano, sfuggendo così al blocco mareale, ma essere comunque sufficientemente riscaldato da avere acqua liquida». (Media Inaf)

Luce verde per Ariel: studierà le atmosfere aliene

Dopo un periodo di studio preliminare di cinque anni, inizia a concretizzarsi la missione Ariel (Atmospheric Remote-Sensing Infrared Exoplanet Large-survey), selezionata nel 2018 e oggi ufficialmente “adottata” dallo Space Programme Committee dell’Agenzia spaziale europea (Esa). Nei prossimi mesi, l’Esa inviterà le aziende del settore a presentare proposte per la realizzazione del veicolo spaziale, con l’assegnazione del contratto industriale attesa per la prossima estate. Dedicata allo studio delle atmosfere di pianeti in orbita intorno a stelle diverse dal Sole, Ariel osserverà un campione variegato di esopianeti ‒ da giganti gassosi a pianeti di tipo nettuniano, super-Terre e pianeti terrestri ‒ nelle frequenze della luce visibile e dell’infrarosso. Sarà la prima missione spaziale a realizzare un “censimento” della composizione chimica delle atmosfere planetarie, fornendo indizi fondamentali per comprendere i meccanismi di formazione ed evoluzione dei pianeti al di là del Sistema solare, inquadrare a pieno il ruolo del nostro sistema planetario nel contesto cosmico, e affrontare i complessi quesiti riguardanti l’origine della vita nell’universo. La missione Ariel è stata sviluppata da un consorzio che vede la partecipazione di oltre cinquanta istituti di 17 nazioni europee, nonché un contributo esterno della Nasa, coordinato da Giovanna Tinetti dello University College di Londra. L’Italia, con il sostegno e il coordinamento dell’Agenzia spaziale italiana, è tra i principali contributori ed esprime due co-principal investigatorsGiusi Micela dell’Inaf di Palermo e Giuseppe Malaguti dell’Inaf di Bologna, supportati da un team che include numerosi altri scienziati e strutture dell’Inaf. A questa squadra si aggiungono l’Università di Firenze, dove si trova Emanuele Paceproject manager nazionale della missione, l’Istituto di fotonica e nanotecnologie del Cnr di Padova e l’Università Sapienza di Roma. «L’adozione della missione Ariel da parte di Esa è il risultato del grande lavoro della comunità scientifica internazionale a cui l’Italia ha dato un contributo importante. In particolare, Ariel sta dando a tanti giovani ricercatori l’opportunità di inserirsi in un progetto internazionale di grande respiro, rimanendo in Italia e crescendo scientificamente», spiega Micela. «I dati di Ariel consentiranno per la prima volta alla comunità scientifica mondiale di studiare in profondità la natura fisica di non meno di mille esopianeti e la composizione chimica delle loro atmosfere: una rivoluzione per la comprensione dell’universo in generale e per la formazione ed evoluzione dei sistemi planetari in particolare», aggiunge Malaguti. «Ariel è la terza missione dell’Esa, dopo Cheops e Plato, dedicata allo studio dei pianeti extra-solari e garantirà», sottolinea Barbara Negri, capo Unità osservazione ed esplorazione universo di Asi, «il consolidamento della leadership europea nell’ambito di questa nuova tematica scientifica. L’Italia ha un eccellente background scientifico e industriale in questo campo, derivato dalla partecipazione alle missioni Cheops e Plato. La partecipazione alla missione Ariel permetterà alla comunità scientifica e all’industria nazionale di valorizzare ulteriormente le conoscenze e le capacità acquisite». L’occhio di Ariel, un telescopio con uno specchio ellittico di un metro di diametro per raccogliere la luce visibile e infrarossa proveniente dai lontani sistemi planetari, sarà realizzato in Italia, così come l’elettronica di bordo. Scomponendo la luce in tutti i suoi “colori” mediante gli spettrometri di bordo sarà possibile identificare gli elementi chimici presenti nelle atmosfere degli esopianeti osservati durante il loro passaggio, o transito, davanti o dietro la stella ospite. Della serie di satelliti Esa per lo studio dei pianeti extrasolari, ciascuno dei quali si occupa di un aspetto specifico in questo campo di ricerca in fase di grande crescita, Cheops è stato lanciato alla fine del 2019 e ha da poco ottenuto i primi risultati scientifici. Seguiranno Plato nel 2026 e Ariel nel 2029. Ariel sarà lanciato con un razzo Ariane 6 dalla base Esa di Kourou, nella Guyana francese, e messo in orbita intorno al punto di Lagrange 2 (L2), un punto di equilibrio gravitazionale a 1,5 milioni di chilometri dalla Terra, nella direzione opposta a quella del Sole. Da questa posizione, il telescopio avrà una visione chiara di tutto il cielo per scrutare in dettaglio esopianeti già scoperti da altri osservatori. Lo stesso lancio porterà nello spazio anche Comet Interceptor, un’altra missione Esa che studierà da vicino, per la prima volta, una cometa primordiale. (Media Inaf)

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