Buco nero scatenato in M83

È piccolo ma non lo si tiene. E quando è a tavola mette paura. Negli ultimi 20mila anni s’è ingurgitato una quantità di materia pari a centinaia, forse addirittura migliaia di volte quella che in teoria gli spettava. Liberando poi l’energia accumulata sotto forma di getti dalla potenza spaventosa, pari a qualche milione di volte quella del Sole: venti di particelle talmente intensi da mandare in tilt la Girandola del Sud – così è chiamata la galassia che lo ospita, nota altrimenti come M83, a una quindicina di milioni d’anni luce da noi. Protagonista di cotanto sconquasso è MQ1, un microquasar (un buco nero di massa stellare con disco d’accrescimento) di calibro sorprendentemente modesto: nemmeno cento masse solari. E sono proprio l’affidabilità e la precisione della misura della sua massa l’architrave sul quale si regge l’importanza della scoperta, pubblicata oggi sulle pagine di Science Express da un team di scienziati guidati dal piemontese – come ha precisato con orgoglio ai microfoni di Media INAF –Roberto Soria, attualmente ricercatore all’ICRAR di Perth, in Australia. La massa, dicevamo. Già si conoscevano buchi neri iperattivi, energetici al punto da influenzare con le loro emissioni le galassie nelle quali si trovano. Ne abbiamo scritto anche qualche giorno faproprio qui su Media INAF. Il problema è valutarne accuratamente la massa. Quelli di cui parliamo non sono i buchi neri supermassicci al cuore delle galassie: sono normali (si fa per dire) buchi neri di massa stellare. “Massa stellare”, però, come unità di misura è un po’ vaga. Elastica al punto che proprio l’intensità dell’emissione di alcuni soggetti particolarmente turbolenti, primi fra tutti le ULX (sorgenti X ultraluminose), ha portato gli astrofisici a ipotizzare l’esistenza dei cosiddetti buchi neri di massa intermedia. Questo perché, per quanto un buco nero possa mettercisi d’impegno, c’è un limite alla potenza che è in grado d’esprimere: una soglia che dipende, appunto, dalla sua massa, e che va sotto il nome di limite di Eddington. Se dunque l’energia espressa è troppa per essere compatibile con un buco nero di taglia small, probabilmente il responsabile deve indossare una media, no? E invece ecco la sorpresa. Dopo averlo tenuto sotto osservazione per un anno, e avergli preso le misure con ben tre strumenti (il telescopio spaziale Chandra della Nasa per i raggi X, l’infaticable Hubble Space Telescope in ottico e infrarosso, l’Australia Telescope Compact Array per la banda radio), gli scienziati sono giunti alla conclusione che quello in M83 è un buco nero di massa contenuta. È stato un po’ come imbattersi in un’utilitaria piccola ma truccatissima, capace di ridicolizzare un bolide da Formula 1: il libretto dice 40 cavalli, ma quella ne sprigiona allegramente almeno cento volte di più, alla faccia della Motorizzazione e delle leggi della meccanica. «Stimiamo che MQ1 abbia una potenza tre o quattro volte superiore al limite di Eddington, che si pensava fosse il massimo raggiungibile», dice Soria. Certo, occorre tenere presente che quando parliamo di limite di Eddington non ci riferiamo a una soglia invalicabile, quale per esempio la velocità della luce. «È un po’ come i limiti di velocità in Italia», scherza il ricercatore, «un limite, diciamo così, indicativo». E cosa indica? «Approssimativamente, la massima luminosità che un buco nero può raggiungere in termini di fotoni». Una precisazione, questa, che aiuta a comprendere come mai i getti – il cui principale tratto distintivo, rispetto all’emissione diffusa dei fotoni, è quello di essere collimati – possano infrangerlo così impunemente. «I jet perforano il gas che avvolge il buco nero come proiettili attraverso una nube», spiega Soria, «e non puoi certo pensare di fermare o rallentare una nuvola sparandole contro». Ma anche la stessa emissione luminosa sembra poter superare, seppur in modo meno eclatante dei getti, il limite di Eddington. Questo giustificherebbe un altro eccesso d’energia registrato in questi anni, un fenomeno gemello, quello appunto delle ULX. Offrendo così una visione d’insieme nuova, e coerente, sui buchi neri di massa stellare, sulla loro interazione con l’ambiente circostante e sulle condizioni in cui si trovavano i quasar nell’universo primordiale, quanto il tasso d’accrescimento era massimo. E suggerendo come forse non ci sia più bisogno, per spiegare la potenza anomala delle loro emissioni, di ricorrere ai buchi neri di massa intermedia.
di Marco Malaspina (INAF)

Più brillante e più veloce: la sorprendente supernova SN 2014J

Più luminosa e appariscente che mai, continua a far parlare di sé. È la supernova SN 2014J, scoperta pochi giorni fa dall’infaticabile Hubble. A essere precisi, il primo a mettere gli occhi sul brillante oggetto celeste è stato un professore universitario, che nella notte del 21 gennaio si trovava a osservare il cielo con i suoi studenti di astrofisica. E ha individuato una delle supernove più luminose mai osservate negli ultimi tempi, subito dopo immortalata dal telescopio NASA/ESA. SN 2014J, che si trova nella galassia M82, sta a 11,4 milioni di anni luce da noi, e potrebbe essere la supernova più vicina di tipo Ia (ovvero nata dall’esplosione di una nana bianca) individuata negli ultimi 77 anni. Già questo bastava a rendere l’oggetto particolarmente interessante, perché la vicinanza permetterà agli astronomi di esplorare l’ambiente intorno alla supernova, letteralmente ricostruendo le dinamiche dell’esplosione. Ma ora sono emersi nuovi dettagli, che rendono la lucente SN 2014J ancora più intrigante: non solo è più luminosa della media, ma a quanto pare si è anche accesa molto più velocemente del previsto. È quanto ha scoperto un astronomo dell’Università di Berkeley, Alex Filippenko, che con il suo gruppo di ricerca ha cercato tracce della supernova in dati raccolti dal telescopio KAIT (Katzman Automatic Imaging Telescope). Scoprendo così che l’occhio del telescopio robotico aveva di fatto già scattato una foto della supernova il 14 gennaio. Gli astronomi hanno combinato queste osservazioni con quelle di un astrofilo giapponese e hanno osservato che la velocità di illuminazione di  SN 2014J era stranamente molto elevata. Il che significa che l’esplosione è probabilmente avvenuta in meno tempo del previsto. Ma c’è di più: dai dati è emerso anche che la supernova ha avuto lo stesso insolito comportamento di un altro oggetto celeste dello stesso tipo individuato da KAIT l’anno scorso, la supernova SN 2013dy. “Se due delle più recenti supernovae di tipo Ia scoperte sono strane, questo ci dà nuovi indizi su come le stelle esplodono” ha detto Filippenko riferendosi a una terza supernova, apparentemente “normale”, scoperta tre anni fa e chiamata SN 2011fe. “Potrebbe anche darsi che capiremo cose nuove che ancora non conosciamo, e che questo strano comportamento diventi la nuova normalità”.
di Giulia Bonelli (INAF)

La grande monnezza: i detriti spaziali

Sono circa 1000 i satelliti attivi attualmente in orbita attorno alla Terra. Sono utilizzati dalla telefonia, dai centri meteo per le previsioni meteorologiche, dai sistemi di localizzazione GPS, dalle connessioni TV, oltre ovviamente a quelli scientifici. NASA e Agenzia Spaziale Europea da anni stanno cercando nuove soluzioni per mandarli su orbite cimiteriali stabili, o per riportare a terra i pezzi ancora in buono stato. Conservare liberi gli slot orbitali per nuove missioni è cosa buona e giusta, soprattutto per ridurre rischi di collisioni e danni alle strumentazioni. Gli scontri avvenuti hanno già generato qualcosa come 17 mila frammenti (ma se contiamo quelli sotto i 10 centimetri la stima sale a 700 mila, di cui alcune centinaia di migliaia di dimensioni uguali o superiori al centimetro). Ogni scheggia, anche se misura appena qualche centimetro, può diventare un pericoloso proiettile. L’orbita bassa attorno alla Terra (LEO) e quella geostazionaria sono sempre più intasate. Razzi, pezzi perduti da navicelle, frammenti e anche piccole particelle di vernice creati da collisioni ed esplosioni che costituiscono un pericolo anche per gli astronauti della Stazione Spaziale Internazionale (i detriti orbitano attorno alla Terra fino a una velocità massima di 28.000 km all’ora e gli incidenti non sono stati pochi). A 400 chilometri sopra le nostre teste, gli uomini a bordo della ISS sono costretti a spostare la base spaziale su e giù per evitare gli impatti come in un arcade game degli anni Ottanta. Non si tratta di semplici carcasse di metallo a rischio di collisione, ma di vere e proprie bombe a orologeria: carburante residuo e batterie surriscaldate dalla luce solare rischiano di esplodere facilmente. Come si fa a raccogliere “la grande monnezza” tecnologica in orbita attorno al Pianeta? Quel che non si può dire, è che manchi l’inventiva. 2014 / La missione europea e.DeOrbit. ESA, per esempio sta lavorando alla missione e.DeOrbit. Progettato per individuare detriti in orbite trafficate tra gli 800 e i 1000 chilometri di altezza e.DeOrbit ha messo sotto studio parallelo diversi meccanismi di cattura per ridurre al minimo i rischi della missione. Si va da reti a espansione a tentacoli meccanici, da sistemi di arpionaggio a braccia robotiche. Intanto è notizia recente che un nuovo prototipo di radar potrebbe aiutare l’Europa a migliorare il monitoraggio dei detriti spaziali. Il radar, installato nella regione di Madrid in Spagna, si basa su un sensore capace di aumentare la sicurezza dei satelliti europei in orbite basse e medie. Il test è stato eseguito su oggetti di circa un metro di dimensione. E anche se siamo a prestazioni decisamente inferiori di quanto necessario per un sistema pienamente operativo (la soglia sensibile è 10 centimetri) è un primo passo importante. “Il radar sta mostrando ottime prestazioni ” ha affermato Gian Maria Pinna, Ground Segment Manager dell’ufficio programma SSA (Space Situational Awareness). “Anche senza una calibrazione completa del sistema, che richiederà diversi mesi, abbiamo potuto rilevare oggetti più piccoli e a una gamma più ampia del previsto”. 2014 / Made in Japan. Un gruppo di ricercatori dell’Agenzia spaziale giapponese (Jaxa) ha sviluppato una particolare rete magnetica formata da una serie di cavi sottili di alluminio e acciaio inossidabile. L’estremità di uno dei cavi, una volta agganciato a un detrito in orbita, genera una corrente elettrica indotta dal campo magnetico terrestre sufficiente a rallentarlo e trasferirlo verso orbite sempre più basse fino al rientro nell’atmosfera. Il progetto verrà lanciato il prossimo 28 febbraio. Si tratta di un satellite con a bordo questa rete. L’obiettivo è estendere la rete fino a 300 metri e controllare il trasferimento di elettricità. Ma per l’aggancio vero e proprio occorrerà attendere le missioni successive. 2014 / STARE. Mini-satelliti terrestri per regolare il traffico nello spazio. La missione Space-Based Telescopes for Actionable Refinement of Ephemeris potrebbe ricalcolare le orbite dei satelliti e dei detriti spaziali a rischio con un margine di errore di meno di 100 metri. Effettuare i calcoli non è facile a causa delle moltissime variabili da considerare. La resistenza atmosferica, per esempio, è una funzione della forma e della massa del satellite. Ma bisogna tener conto anche di densità e composizione dell’atmosfera. La precisione dei movimenti, in questi casi, è fondamentale altrimenti si rischia di far collidere l’oggetto con altri satelliti. Per evitare questo tipo di errori lo Space Surveillance Network osserva ripetutamente circa 20.000 oggetti. Il margine di errore è di un chilometro. La missione STARE promette di abbassare di dieci volte il margine di errore. 2013 / Alice-2. Il piccolo satellite italiano Unisat-5 lanciato il 21 novembre scorso dal cosmodromo Dombarovsky di Yasny, nella regione di Orenburg in Russia, ospita il primo sistema anti space debris. Si chiama Alice-2 ed è frutto di una piccola società italiana concepita dal giovane ingegnere Luca Rossettini. Un sistema intelligente dotato di un propulsore che porta il satellite su una traiettoria di disintegrazione nell’atmosfera terrestre per fare poi ricadere la carcassa del satellite su zone desertiche, o nell’oceano, alla fine della sua vita spaziale. 2012 / Precisione svizzera. “Se ciascuno scopasse davanti alla sua porta, lo spazio sarebbe pulito”, aveva affermato Volker Gass, direttore dello Swiss Space Center in occasione del lancio del progetto CleanSpace One, nel febbraio 2012. Il progetto di un satellite netturbino che dovrebbe essere operativo dal 2016-2017 e dovrà agganciare il satellite svizzero Swiss Cube – un cubo di appena 10 cm che avanza a 28.000 chilometri orari – e portarlo con sé nell’atmosfera dove si disintegrerà senza lasciare tracce.

Seconda parte

Era il 1957 quando un pallone d’alluminio con quattro lunghi baffi guadagnava l’orbita terrestre diventando il primo satellite artificiale della storia (dentro una semplice radio che faceva bip bip): lo Sputnik. Da allora sono tanti i satelliti ad essersi infilati più o meno ordinatamente nell’orbita terrestre. Alcuni di quei veicoli sono rientrati alla base, come previsto, al termine della missione. Altri continuano a vagare sopra le nostre teste ormai fuori controllo. A oggi esiste un solo catalogo di questo complicato traffico atmosferico. Ed è quello mantenuto da JSpOC, il Joint Space Operations Center del Ministero della Difesa statunitense. Informazioni classificate – perché sono molti i satelliti lanciati a scopo militare – e tuttavia generosamente messe a disposizione dalla Difesa USA alle agenzie spaziali internazionali che ne fanno richiesta. Lo Space Surveillance Network della NASA e lo Space Situational Awareness di ESA che dovrebbero svolgere il compito di vigili urbani nelle intricate autostrade che si snodano sui cieli terrestri possono quindi fare affidamento esclusivamente su dati che abbondano di rumore. JSpOC, come l’oracolo di Delfi, mette a disposizione informazioni che rendono impossibile ricostruire il dato originale. Tanto che anche la mera stima degli oggetti orbitanti diventa un azzardo. “17 mila oggetti sopra i 10 cm di diametro è il conto che possiamo fare basandoci su quanto riusciamo a vedere nella porzione di cielo prossimo alla Terra”, ci spiega Giovanni Valsecchi dell’INAF – Istituto di Astrofisica e Planetologia Spaziali di Roma. “Per individuare un oggetto ci affidiamo ai radar, con cui riusciamo a vedere più o meno chiaramente fino ai 2000 km di altitudine. Per quel che sta oltre ci possiamo aiutare con i telescopi ottici. Parliamo però di oggetti di cui non conosciamo né albedo, né materiale di costruzione”, osserva Valsecchi. “Quando nel 1999, con Paolo Farinella e Alessandro Rossi, individuammo un pericolo reale di collisione per la costellazione Iridium, la comunità scientifica sembrò non dare peso alla cosa. L’incidente del febbraio 2009 fra uno dei satelliti commerciali della costellazione e il satellite russo Cosmos 2251 ci ha mostrato che il problema è anche più grande di quanto avevamo immaginato. E anche oggi che conosciamo meglio il fenomeno dei detriti spaziali abbiamo ancora troppi pochi dati per poterlo valutare”. Oggi lo Space Situational Awareness – il programma opzionale dell’ESA concepito con lo scopo di svolgere servizi di sorveglianza e monitoraggio del Solar Weather, dei detriti spaziali e dei Near Earth Objects (NEO) – è in fase di implementazione. Lanciato ufficialmente il 1° gennaio del 2009 sulla spinta di Francia, Germania e Spagna si è in parte arenato a seguito dell’assenza di un accordo con la European Defence Agency in materia di classificazione dati. L’aver impostato un programma senza la necessaria attenzione alla sicurezza non è stato un errore perdonabile e nel 2012 ha provocato l’uscita di Spagna e Francia dall’impegno opzionale con ESA. Nel frattempo il numero di sinistri spaziali a causa di esplosioni accidentali è salito a duecento. Serve ben poco ricorrere a moduli di constatazione amichevole per esplosioni orbitali che si devono evitare. Specie se c’è intenzione di conservare liberi slot orbitali per nuove missioni. E tanto più se si vogliono ridurre rischi di collisioni e danni a costose strumentazioni. Ma i 55 milioni di euro stanziati da ESA nel 2009 e i 75 milioni arrivati nel 2013 sembrano ben poca cosa di fronte alle risorse allocate da NASA sulla questione detriti. Certo potrebbe anche non essere una semplice questione di denaro. E qui entra in gioco l’Unione Europea con un’interessante proposta di legge che sarà votata il prossimo aprile. “Quello in discussione al parlamento europeo è il programma SST – Space Surveillance and Tracking – che prevede se approvato uno stanziamento di 70 milioni di euro in 7 anni per la realizzazione di un servizio di sorveglianza dei satelliti”, ci spiega Claudio Portelli dell’Agenzia Spaziale Italiana, responsabile per la tematica dei detriti spaziali. “L’idea è che ogni Stato membro possa contribuire con le sue infrastrutture e i dati in suo possesso riguardanti il traffico degli oggetti spaziali artificiali in orbita circumterrestre. Tutte le informazioni, valutate preliminarmente da centri di competenza nazionali militari per la classificazione dei dati, dovrebbero poi confluire allo European Union Satellite Centre in Spagna cui spetterà il compito di processarli e renderli disponibili all’operatore spaziale di turno che ne ha bisogno”. Un progetto ambizioso, ben allineato con una politica tutta europea di partecipazione comunitaria, distante dalle logiche statunitensi di JSpOC, in mano alla Difesa USA. Il contributo italiano a SST? Potrebbe passare in larga parte dalle strutture INAF, che hanno strumenti e carte adatti allo scopo. Un accordo siglato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica con l’Aeronautica Militare ha già previsto una fase di test per l’utilizzo di radar bistatici con la Croce del Nord di Medicina in ricezione e un TX dei militari in trasmissione dalla Sardegna per illuminare una serie di oggetti.
di Davide Coero Borga (INAF)

In arrivo il Leone e la Vergine: ecco le costellazioni di marzo

Il mese di marzo vede ancora come protagoniste le costellazioni invernali. Tuttavia, rispetto al mese precedente, si noterà uno spostamento delle stesse verso sud-ovest. Da notare invece che, già dalle prime ore della notte, si affacciano ad oriente le costellazioni del Leone e della Vergine (nei pressi della quale troviamo Saturno). I fortunati abitanti di luoghi con poco inquinamento luminoso, potranno scorgere persino la debole costellazione del Cancro, che separa il Leone dai Gemelli. Proseguendo verso occidente spicca ancora la stupenda Orione, con le tre stelle della cintura a formare una linea quasi retta (da sinistra: AlnitakAlnilam Mintaka), ed i 3 luminosissimi astri Betelgeuse (gigante rossa), Rigel (azzurra) e Bellatrix (in alto a destra). Sotto la cintura troviamo un gruppo di stelle in cui giace la Grande nebulosa di Orione (M42) osservabile anche ad occhio nudo. Una perla del cielo boreale. Nella stessa zona di cielo troviamo le costellazioni del Toro (dalla caratteristica forma a Y) con la stella rossa Aldebaran, la costellazione dell’Auriga con la brillante stella Capella, i Gemelli con le stelle principali Castore e Polluce. A sinistra in basso rispetto ad Orione, nella costellazione del Cane Maggiore, risplende Sirio, la stella più luminosa del cielo. Poco al di sotto dei Gemelli, si può facilmente riconoscere un’altra stella luminosa, Procione, del Cane Minore. Proseguiamo il nostro tour con il cielo settentrionale, dove l’Orsa Maggiore domina incontrastata. Con il suo aiuto sarà un gioco da ragazzi trovare la stella polare. A Nord-Ovest troviamo Cassiopea con la sua caratterisitica forma a “W”; tra Cassiopea e il Toro troviamo la costellazione del Perseo. Da notare che anche la costellazione del Perseo può fungere da comodo riferimento per giungere alle Pleiadi, infatti basta congiungere con una linea immaginaria a forma di “arco” alcune stelle per arrivare al famosissimo ammasso aperto. Chiudiamo la rassegna segnalando la costellazione di Bootes (il Bifolco), sotto l’Orsa Maggiore e a sinistra della Vergine, caratterizzata dalla particolare forma ad aquilone, con la sua brillante e rossastra Arturo.
Per tutte le altre informazioni vedi Il cielo del mese di Stefano Simoni sul sito Astronomia.com

L’agitata figlia di Andromeda

Per il mito greco i figli di Andromeda erano nove, avuti dall’eroe Perseo. L’omonima galassia, che spicca in cielo con la stessa bellezza della figura mitologica da cui ha preso il nome, di figlie ne ha molte di più: fino a oggi gli astronomi ne hanno contate almeno 20, chiamate progressivamente Andromeda I, II, III e via così. Sono galassie satellite che, proprio come per la nostra Via Lattea, circondano la galassia principale. Ora un gruppo di ricercatori del daneseNiels Bohr Institute, dell’Università di Cambridge e del Max Planck Institute tedesco hanno individuato un fascio di stelle in una delle galassie satellite più esterne, Andromeda II. Si tratta di una galassia nana molto piccola – per intenderci, meno dell’1% della Via Lattea. E le stelle che ospita hanno caratteristiche mai osservate prima: con il loro movimento sono dei veri propri indizi mobili della storia della galassia, la memoria storica di ciò che è avvenuto milioni e milioni di anni fa. Gli astronomi infatti dal moto delle stelle di Andromeda II hanno capito che ciò che osserviamo è in realtà il risultato di uno scontro tra due galassie nane precedenti. Un fatto piuttosto insolito: la fusione di due galassie di massa così piccola non era mai stata registrata prima d’ora. Scontri tra titani erano invece all’ordine del giorno nell’Universo giovane: secondo gli astronomi l’attuale conformazione dello spazio si è ottenuta a forza di collisioni tra galassie vicine, da cui derivavano galassie più grandi. Ancora oggi le galassie con massa maggiore continuano ad attrarre quelle più piccole a causa della forza di gravità, e spesso le inglobano aumentando così ancora di più la loro massa. Ma in alcuni casi le galassie più piccole riescono a sfuggire al destino di essere “mangiate” da galassie più grandi. È quello che è successo ad Andromeda II, che insieme alle sue sorelle ha iniziato a orbitare attorno alla più grande M31, nome in codice di Andromeda. Eppure anche per lei a quanto pare non sono mancati gli urti: in particolare con un’altra galassia nana che orbitava attorno alla galassia madre, e con cui Andromeda II si è fusa. Gli astronomi se ne sono accorti proprio grazie al movimento insolito delle stelle della galassia satellite. “Le stelle nelle galassie nane spesso si muovono in modo casuale, ma non è il caso di Andromeda II” ha detto l’astrofisico italiano Nicola Amorisco, prima firma dell’articolo apparso ieri su Nature. “Abbiamo osservato un flusso di stelle che si muovevano in modo diverso dalle altre: formavano un anello quasi completo e ruotavano attorno al centro della galassia”. La scoperta è stata il frutto di una proficua collaborazione internazionale tra gruppi di ricerca diversi. I primi a notare l’anomalia di Andromeda II sono stati alcuni astronomi americani guidati da Marla Geha, che hanno misurato le velocità di oltre 700 stelle in “AndII”, comodo soprannome della galassia nana. Dopo aver registrato l’insolito movimento delle stelle, i ricercatori hanno passato i dati ad Amorisco e ai suoi colleghi Glenn van de Ven e Wyn Evans, già noti per la loro esperienza di simulazione dei movimenti di stelle nelle galassie. I tre hanno rianalizzato le velocità stellari, trovano la spiegazione dell’anomalia: AndII è così agitata dal moto delle sue stelle perché risente dello scontro con l’altra galassia nana che ha inglobato, scontro avvenuto secondo gli astronomi almeno 3 miliardi di anni fa. Come una gigantesca ruota animata, le stelle ancora oggi testimoniano vorticosamente quell’antica battaglia tra galassie.
di Giulia Bonelli (INAF)

Alla scoperta di Urano e Nettuno

Tra i pianeti del Sistema solare, Urano e Nettuno sono quelli che non hanno ancora visto l’arrivo di sonde automatiche dedicate al loro studio, almeno se si eccettua un loro fugace fly by della Voyager 2 nel 1986 (Urano) e nel 1989 (Nettuno).  L’attenzione della comunità scientifica verso questi pianeti giganti ai confini del nostro sistema planetario si sta però ridestando e il merito è dei ricercatori dell’INAF, che hanno pensato a una missione spaziale specifica destinata allo studio di Urano e Nettuno: ODINUS (Origins, Dynamics and Interiors of Neptunian and Uranian Systems) . Tale missione è stata presentata all’Agenzia Spaziale Europea come candidata a uno dei posti disponibili nel piano di esplorazione spaziale Cosmic Vision per programmi di classe L, ovvero grandi.  “Urano e Nettuno sono due pianeti che hanno risentito degli effetti più violenti nell’evoluzione del Sitema solare. Basti pensare che sono ormai vent’anni che si ritiene che Urano e Nettuno non si siano formati dove si trovano oggi ma abbiano subìto una migrazione spostandosi su orbite più esterne e scolpendo in questo modo la regione della fascia di Kuiper, cioè tutta quella regione popolata di oggetti ghiacciati al di là dell’orbita di Nettuno”. A parlare è Diego Turrini, ricercatore dell’Istituto di Astrofisica e Planetologia Spaziali dell’INAF, che ha coordinato la proposta della missione ODINUS. “Quindi tutto quello che possiamo studiare su questi sistemi ci permette di capire meglio la storia del Sistema solare. Ma questi due pianeti sono interessanti anche per alcune loro caratteristiche uniche. Ad esempio Urano è l’unico caso di sistema pianeta-satelliti in cui la sua obliquità, ovvero l’inclinazione del suo asse di rotazione rispetto al piano orbitale è di 98 gradi, cioè il pianeta praticamente ‘rotola’ sulla sua orbita. E così è orientato il sistema dei suoi satelliti, che sono sostanzialmente perpendicolari al piano orbitale del Sistema solare. Nel caso di Nettuno poi abbiamo il suo satellite Tritone che oltre ad essere un oggetto geofisicamente molto attivo, almeno dai dati limitati della sonda Voyager, è anche un oggetto che non si è formato in quella zona, poiché orbita in senso opposto agli altri satelliti del pianeta. C’è poi da dire che Urano e Nettuno sono i rappresentanti di quella che sembra la classe più abbondante di pianeti extrasolari nella nostra Galassia, per cui studiarli ci permette di capire meglio quali sono i meccanismi di formazione, perché questi pianeti sono così abbondanti a livello galattico rispetto a quelli tipo Terra o Giove e Saturno”. “Il programma ODINUS nasce come risposta al bando dell’agenzia spaziale ESA per ridefinire i temi scientifici delle future missioni di classe L” prosegue Turrini. “Alcune tra le ambiziose domande a cui vuole rispondere questa missione sono : quale è stata la storia del Sistema solare? Come questi due sistemi si sono venuti a formare? Cosa ci possono dire nell’ambito dello studio dei pianeti extrasolari? “ Obiettivi ambiziosi appunto, che richiedono un profilo di missione altrettanto avanzato sotto tutti gli aspetti, sia concettuali che tecnologici, come ci spiega Romolo Politi, collega di Diego Turrini, che ha curato lo sviluppo tecnologico della missione ODINUS. “Il concetto di base della missione è quello di avere due sonde gemelle da lanciare contemporaneamente, secondo due possibili configurazioni: o all’interno dello stesso razzo, come un vero e proprio treno spaziale, in cui le due unità viaggiano agganciate fino all’orbita di Giove per poi separarsi e raggiungere ciascuna il pianeta di destinazione, oppure con due lanci separati, ciascuno ottimizzato per raggiungere nel minor tempo possibile le due mete. Il problema della distanza comunque rimane perché stiamo parlando di oggetti distanti rispettivamente 30 e 40 unità astronomiche. Considerando che una unità astronomica vale 150 milioni di chilometri, il tragitto da percorrere è davvero elevatissimo.  Per raggiungere queste destinazioni in tempi brevi, c’è bisogno di imprimere una grandissima spinta alle sonde, cosa che si può fare o con metodi classici, caricando però a bordo del razzo vettore molto carburante, oppure utilizzando nuove tecnologie di propulsione, come la vela elettrica cioè un sistema che sfrutta la potenza del Sole per dare la spinta ai veicoli spaziali, per arrivare a destinazione in 3-4 anni e non i 10-12 anni che ha impiegato la sonda Voyager 2 per raggiungere Urano e Nettuno”. Seppure la proposta della missione presentata all’ESA non è stata ammessa alla fase finale, quella di realizzazione, l’idea di esplorare Urano e Nettuno è risultata per per i valutatori dell’Agenzia Spaziale Europea una pietra miliare nell’esplorazione spaziale, tanto che il giudizio dato dagli esperti del Senior Survey Committe è stato estremamente positivo: lo studio di Urano e Nettuno è stato ritenuto l’unico tema scientifico, al di là di quelli selezionati, degno di una missione di classe L. Confortati da queste conclusioni, i ricercatori hanno così presentato una versione rivista della missione all’agenzia spaziale cinese, che ha accolto con interesse la proposta. Il nuovo progetto, denominato LOKI, verrà presentato ufficialmente al primo workshop sulla collaborazione a missioni spaziali tra Europa e Cina che si svolgerà il prossimo 25 e 26 febbraio a Chengdu in Cina. “Possiamo dire che la missione è figlia di ODINUS, e non a caso è stato scelto il nome LOKI” spiega Politi, che è il coordinatore della nuova proposta. “È una missione esplorativa con l’obiettivo di sondare l’ambiente attorno a Nettuno e in particolar modo a Tritone, uno dei suoi principali satelliti. LOKI è stata ripensata per avere costi contenuti e impiegare un tempo ragionevole per arrivare a Nettuno. La sonda dovrà avere una massa molto piccola per riuscire a raggiungere facilmente velocità molto elevate che nell’arco di tre-quattro anni siano in grado di farle raggiungere il sistema planetario utilizzando un metodo di propulsione classica. Quindi con LOKI vogliamo dimostrare da un lato che la missione si può fare, dall’altro svelare alcune informazioni scientifiche su Nettuno e i suoi satelliti, in particolare il suo ambiente di radiazione, per preparare al meglio future missioni attorno a Nettuno”. Nel team dell’INAF c’è dunque molta soddisfazione e una buona dose di speranza per gli sviluppi di questa nuova proposta scientifica. “Nonostante le difficoltà oggettive anche della proposta di LOKI, abbiamo ricevuto dagli esperti spaziali cinesi dei commenti estremamente positivi” aggiunge Turrini . “Infatti tra più di quaranta proposte che sono state presentate e che verranno poi discusse nel workshop, solo quattro riguardano il Sistema solare e una di quelle è LOKI.  Quindi nonostante le difficoltà della missione, comprese le limitazioni sulla massa della sonda e sul costo complessivo del progetto, c’è grande attenzione alla nostra proposta non solo in ambito europeo ma anche della Cina. E noi non possiamo che esserne felici e auspicarci una futura concretizzazione delle nostre idee”.
di Marco Galliani (INAF)

Per saperne di più:

Il sito web della missione ODINUS

Supernova in M82

Com’è noto, lo scorso 21 gennaio un professore universitario dell’università di Londra ha scoperto visualmente una supernova in questa famosa galassia attiva e irregolare durante una lezione pratica al telescopio con i suoi studenti (detto tra parentesi, M82 è una delle galassie più fotografate dagli astrofili di tutto il pianeta). M82 è distante solo 12 milioni di anni luce e infatti al momento della scoperta la supernova era già di magnitudo 11.7. La stella ospite, di tipo Ia — più brillanti anche se meno energetiche di quelle di tipo II — ha continuato a salire di luninosità e attualmente è attorno alla 10.5 (osservabile quindi in un buon binocolo 12×50); in un telescopio mostra una tinta arancione, causata da un arrossamento dovuto alle polveri presenti nel disco di M82; se quest’ultima non fosse presente sarebbe forse più brillante di ben 2 magnitudini! Attorno alla metà di febbraio, più o meno il periodo in cui stiamo scrivendo, è di 11-esima e quindi in fase calante.
Le supernove di tipo I sono causate dall’esplosione di una nana bianca appartenente a un sistema binario stretto. Continuando a risucchiare materia dalla compagna la sua massa cresce e quando supera il cosiddetto limite di Chandrasekhar (che per una nana bianca non ruotante è poco inferiore a 1.5 volte la massa solare), la stella non è più in grado di controbilanciare il proprio collasso gravitazionale ed esplode violentemente. eiettando violentemente gli strati esterni. i quali possono raggiungere velocità sino a 20000 km al secondo! Ciò che infine rimane è una stella di neutroni, un piccolo oggetto con densità analoga a quella del nucleo atomico (la sostanza più densa che si conosce in natura).
Il Galassiere

Il cuore nuvoloso delle galassie attive

Alex Markowitz, astrofisico dell’Università della California, e Karl Remeis, dell’Osservatorio di Bamberg, avevano davanti una mole di dati non indifferente: 16 anni di osservazioni del Rossi X-ray Timing Explorer (RXTE), un satellite che ha viaggiato nell’orbita terrestre bassa fino al gennaio 2012 raccogliendo le variazioni delle sorgenti di raggi-X che rilevava attorno a sé. Una delle sorgenti per eccellenza di raggi-X del nostro universo sono i cosiddetti Nuclei Galattici Attivi (Active Galactic Nucleus, AGN). Molte delle grandi galassie che conosciamo ospitano al centro un buco nero supermassiccio. In alcune di queste gas e materia assorbiti vengono compressi e riscaldati raccogliendosi in un cosiddetto disco di accrescimento ed emettendo raggi-X prima di precipitare nel buco nero. Il cuore delle galassie più attive produce emissioni straordinariamente potenti che superano l’energia del Sole di miliardi di volte. Spulciando tra le osservazioni di 55 AGN, Markowitz, Remeis e colleghi hanno così trovato una dozzina di casi in cui il segnale a raggi X veniva oscurato per periodi di tempo che vanno da ore ad anni interi. Per diverso tempo gli astronomi hanno pensato che gli AGN fossero circondati da una sorta di “ciambella” relativamente uniforme di polveri e gas che abbracciava (talvolta a distanze molto grandi) il buco nero centrale. I nuovi modelli prevedono invece una struttura differente: non una unica nube toroidale ma un insieme di tante singole nubi distribuite sul piano centrale. E questa ipotesi verrebbe confermata dallo studio basato sui dati di RXTE. Secondo la nuova ricerca, pubblicata tra le Monthly Notices della Royal Astronomical Society e disponibile online, le variazioni nel segnale a raggi X sarebbe da imputare proprio al passaggio delle nubi di gas denso che andavano a interporsi ciclicamente tra la sorgente e il satellite. Il “catalogo” di nubi esposto nel nuovo studio è molto variegato. E non poteva essere altrimenti, visto che le osservazioni di RXTE sono state così lunghe e prolungate (è stato il più lungo  monitoraggio di AGN mai eseguito in raggi-X). Gli strumenti del satellite hanno  misurato variazioni nell’emissione di raggi-X che variavano da microsecondi ad anni interi, per energie che a loro volta si muovevano tra i 2.000 e i 250.000 elettronvolt. Le nubi che sono state analizzate nello studio orbitano  da qualche settimana luce a diversi anni luce di distanza dai rispettivi buchi neri e  variano fortemente in dimensione e forma, ma in media sono grandi 6,5 miliardi chilometri (più della distanza  Plutone-Sole, per intenderci)  con una massa di circa due volte quella della Terra. Nella grande varietà di eventi registrati, il più insolito è stato quello osservato nei dintorni di NGC 3783, una galassia a spirale barrata a 143 milioni di anni luce da noi. “Nel 2008, questo AGN è stato oscurato due volte in 11 giorni e non ha mai raggiunto la sua luminosità tipica di raggi X in quel periodo”, racconta Mirko Krumpe, co-autore dello studio. “Quest’anomalia potrebbe essere causata dal passaggio di una nube filamentosa e allungata, forse in procinto di essere lacerata dal buco nero”. La nuova ricerca non è un semplice inventario di nubi. Lo studio è la prima indagine statistica di questo tipo degli ambienti che circondano i buchi neri supermassicci, zone dell’universo le cui dinamiche ci sono ancora piuttosto oscure. “Una delle grandi domande senza risposta sugli AGN è come il gas a migliaia di anni luce di distanza venga immesso nel disco di accrescimento caldo che alimenta il buco nero supermassiccio”, spiega Markowitz. “Comprendere la dimensione, la forma e il numero delle nubi distanti dal buco nero ci potrà dare una migliore idea di come funzioni questo meccanismo di trasporto”.
di Matteo De Giuli (INAF)

Così Einstein cambiò idea sull’Universo

Anche le menti più geniali cambiano idea, e possono farlo in modo radicale. È il caso diAlbert Einstein, che è arrivato a rinnegare completamente una delle sue teorie: l’Universo statico. Per accettare, suo malgrado, la teoria opposta secondo cui l’Universo è in continua espansione e accelerazione, ancora oggi appoggiata dalla maggioranza dei fisici. Il cambio di rotta del grande scienziato in realtà non è una novità: secondo una leggenda metropolitana Einstein rimase fermo nelle sue idee fino al 1931, quando l’astronomo Edwin Hubble gli mostrò alcune emissioni di luce rossa prodotte da un insieme di ammassi nebbiosi lontani – oggi chiamati galassie. La cosa invece meno nota è che ammettere il suo errore fu per Einstein un processo tortuoso e sofferto: è quanto emerge da un articolo appena pubblicato sull’European Physical Journal da Harry Nussbaumer dell’Istituto di Astronomia dell’ETH di Zurigo. Nussbaumer ricostruisce l’intera vicenda a partire dal 1917, data in cui Einstein applicò all’Universo la sua teoria della relatività generale. Ne derivò un modello di Universo omogeneo e spazialmente curvato: è la teoria dell’Universo statico, secondo cui lo spazio non è né in espansione né in contrazione, ma è dinamicamente stabile. La cosmologia einsteiniana presentava però un problema non da poco: se la gravitazione è l’unica forza attiva, l’Universo dovrebbe collassare. Einstein risolse la questione introducendo una costante cosmologica alle sue equazioni della relatività generale: ecco aggirate le disastrose conseguenze della gravità. Da quel momento in poi, contro la teoria “rivale” oppose una strenua resistenza. Ormai la maggior parte dei suoi contemporanei si era convinta che l’Universo fosse in espansione, e furono in molti a cercare di convincerlo. Per esempio, il fisico russo Alexander Friedman nel 1922 mostrò che proprio le equazioni di Einstein erano compatibili con la teoria dell’Universo in espansione; lo stesso fece l’astrofisico belga Georges Lemaître, che combinò la relatività generale con le osservazioni astronomiche. Ma Einstein non si diede per vinto, e ancora rifiutò di abbandonare il suo Universo statico. Proseguendo il racconto di Nussbaumer, la svolta si ebbe nel 1931, ma non per l’incontro con Hubble. Alcuni documenti dell’Accademia Prussiana delle Scienze attestano infatti che il fisico adottò un modello dell’Universo in espansione insieme all’astronomo olandese Willem de Sitter. Teoria subito salutata da un unanime appoggio della comunità scientifica, e mantenuta pressoché invariata fino alla metà degli anni ’90. Una piccola consolazione per Einstein, che comunque non si perdonò l’abbandono della sua costante cosmologica.
di Giulia Bonelli (INAF)

I piani della NASA per catturare asteroidi

Quando quasi un anno fa la NASA ha annunciato ufficialmente i piani di una nuova missione mirata a neutralizzare gli asteroidi potenzialmente pericolosi per la Terra, gli articoli di giornali e riviste si sono popolati di citazioni di Armageddon, il blockbuster hollywoodiano dove un nerboruto Bruce Willis si fa inviare in una missione senza speranza per far saltare in aria un asteroide delle dimensioni del Texas che sta per colpire il nostro pianeta. La missione ARM (Asteroid Redirect Mission) della NASA è però meno machista e decisamente più complessa di così. “Conosci il nemico”, ammoniva Sun Tzu ne “L’arte della guerra”, e l’agenzia spaziale statunitense sembra aver deciso di prendere alla lettera l’insegnamento dell’antico generale cinese. I piani della missione ARM sono infatti quelli di catturare un asteroide (non per forza pericoloso, ma se pericoloso tanto meglio) e spingerlo nella nostra regione spaziale immettendolo in orbita attorno alla Luna. Una volta neutralizzato e domato, l’asteroide diventerebbe così una comoda meta per una missione con equipaggio e una tappa intermedia per la prossima missione su Marte. La NASA sta valutando due possibili prototipi di navicelle robotiche capaci di catturare e reindirizzare la massa di un asteroide in un’orbita stabile attorno alla Luna. Una prima proposta è quella di lavorare direttamente con un asteroide intero, molto piccolo, la seconda è quella di riuscire a prelevare una parte di un asteroide più grande. Una missione di questo tipo è interessante per diverse ragioni. Non solo riusciremmo a mettere in piedi (se non subito almeno gradualmente) un sistema di difesa contro asteroidi pericolosi, ma avremmo anche (entro il 2020) un traguardo intermedio per una missione umana in attesa della missione NASA su Marte, prevista per il 2030. La cosa più interessante dal punto di vista scientifico sarà invece riuscire a studiare l’esatta composizione degli asteroidi, che sono tra gli oggetti più antichi del sistema solare, una sorta di Stele di Rosetta per poter decifrare molti dei quesiti cosmici ancora aperti riguardanti il sistema solare primordiale. Come si capisce sin da subito, le fasi del programma ARM sono diverse, ognuna delle quali conferisce un grado di complessità aggiuntivo alla missione. Il programma sarà in grado di fare affidamento su diverse novità tecnologiche ancora in fase di sviluppo, tra cui il nuovo veicolo spaziale Orion e il potente razzo Space Launch System (SLS). Ma gran parte della ricerca di base per la missione si farà da Terra. E la caccia è già iniziata. Il primo passo sarà infatti quello di riuscire a identificare gli asteroidi interessanti. Per quanto potenti e avanzate saranno le sonde che cattureranno gli asteroidi, non potremo scegliere a caso nel catalogo cosmico: bisognerà trovare un asteroide che viaggi già su una traiettoria favorevole, e che pesi tra le 500 e le 1.000 tonnellate. Dati alla mano non sono poi troppi gli oggetti vicini alla Terra che potrebbero diventare buoni candidati per ARM. La maggior parte degli asteroidi conosciuti sono troppo grandi per essere catturati, o hanno orbite radicalmente differenti da quelle utili perché un veicolo spaziale possa riuscire a spingerli nei dintorni della Luna. Per i piccoli asteroidi che si avvicinano alla Terra, invece, il programma Near-Earth Object della NASA ha sviluppato un sistema di risposta rapida il cui obiettivo principale è quello di mobilitare le attività di osservazione quando un asteroide appena osservato potrebbe rivelarsi un un potenziale candidato per la missione ARM . “Ci sono diversi elementi in gioco, ma se la dimensione fosse l’unico fattore ci piacerebbe trovare un asteroide più piccolo di una decina di metri di diametro”, spiega Paul Chodas, scienziato senior del programmma Near-Earth Object del Jet Propulsion Laboratory della NASA. “Ci sono centinaia di milioni di oggetti là fuori in questo intervallo di grandezza, ma sono piccoli, non riflettono molta luce solare e possono essere difficili da individuare. Il momento migliore per scoprirli è quando sono più brillanti, quando sono vicini alla Terra”. Le indagini che scandiscono ripetutamente il cielo alla ricerca di oggetti di questo tipo rilevano centinaia di asteroidi in movimento in una sola notte. Secondo alcune stime, decine di asteroidi delle giuste dimensioni sorvolano ogni anno la Terra a una distanza più vicina di quella della Luna. Ma solo una frazione di questi viene effettivamente osservata (circa la metà passa vicino alla Terra durante il giorno rendendosi invisibile nel bagliore luminoso della luce solare), e solo una parte ancora più piccola viaggia in orbite favorevoli per ARM. Ma Chodas è ottimista sulle possibilità di trovare il bersaglio perfetto per la missione “Ci sono un sacco di asteroidi là fuori, e ci sono un sacco di persone a lavoro qui sotto”, spiega. “Metti insieme le due cose ed è solo una questione di tempo prima di trovare alcune rocce spaziali che si adattino alle nostre esigenze”.
di Metteo De Giuli (INAF)

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