Scoperto il colosso dell’Idra

Con la sua massa monstre di circa 1.7 milioni di miliardi di masse solari è uno tra gli “oggetti” più grandi dell’intero universo. Ancora non ha un nome, si trova in direzione della costellazione dell’Idra, e l’hanno scoperto analizzando i dati raccolti dal telescopio spaziale per raggi X eRosita con la survey eFeds (eRosita final equatorial depth survey), condotta su 140 gradi quadrati di cielo durante cosiddetta performance verification phase. In parole povere, durante il collaudo sul campo. È un supercluster, un superammasso di galassie: un gruppo di ammassi di galassie – otto, in questo caso. Un bel risultato: non solo conferma le eccellenti performance di eRosita, ma aggiunge anche un nuovo esemplare alla scarna lista dei supercluster a oggi conosciuti. Scarna al punto da poterli elencare tutti – per ora – in una pagina di Wikipedia. «Il numero di superammassi dipende dalla definizione usata, ma se ci basiamo sulla definizione di Gayoung Chon se ne conoscono poco meno di duecento – erano 164 nel catalogo di Chon et al. del 2012», ricorda a Media Inaf il primo autore della scoperta del nuovo supercluster, Vittorio Ghirardini, ricercatore al Max-Planck-Institut für extraterrestrische Physik di Garching, in Germania. Un numero destinato a crescere rapidamente, e proprio grazie a eRosita. «Già nel corso della sola minisurvey eFeds, di superammassi ne abbiamo trovati quattro o cinque, e abbiamo predetto che alla fine della missione ne avremo trovati circa 500». Per quanto possa sembrare paradossale, i superammassi – pur essendo i giganti del cosmo – sono assai difficili da identificare, soprattutto se distanti come eFeds J093513.3+004746 (questo il “numero di targa” dell’oggetto scoperto da Ghirardini e colleghi). Fra i supercluster della minisurvey eFeds è quello a più alto redshift: 0.36, vale a dire una distanza di circa quattro miliardi di anni luce. Questo spiega perché sia stato necessario attendere l’entrata in funzione del telescopio spaziale del Max Planck per individuarlo. «Il superammasso che abbiamo scoperto è composto da ammassi che sono relativamente poco brillanti, ed eRosita è il migliore strumento per trovare ammassi a questo redshift usando una strategia di survey», dice Ghirardini. «Ed è infatti proprio uno dei motivi per cui eRosita è stato costruito: trovare ammassi che sono poco brillanti impiegando un tempo di osservazione contenuto. Al giorno d’oggi si conoscono circa duemila ammassi di galassie. Grazie a eRosita, che fra dicembre 2019 e dicembre 2023 compirà otto scansioni dell’intero cielo, tra qualche anno ne conosceremo circa centomila: 50 volte tanti. E soltanto con così tanti ammassi si riescono a trovare bene superammassi di galassie, i quali sono formati da qualche ammasso di galassie di grandi dimensioni, certo, ma per lo più da tanti più “piccoli” – tra virgolette, visto che chiamiamo “piccolo” un ammasso di centomila miliardi di masse solari…». Insomma, eRosita è molto più sensibile e veloce di qualunque altro strumento a raggi X oggi disponibile per le survey, quindi è in grado di scoprire in poco tempo moltissimi ammassi di galassie. Il che lo rende anche la macchina ideale per identificare i superammassi. Ma per sfruttare la scoperta di questi superammassi a fini scientifici eRosita da solo non basta. Una volta individuati, occorre analizzarli in dettaglio anche con i radiotelescopi. Come ha fatto in questo caso LoFar, un array europeo di antenne per le basse frequenze – del quale anche l’Inaf è partner – in grado di tracciare la sottile rete di collegamento fra gli ammassi del supercluster. «I superammassi sono costituiti da agglomerati di ammassi di galassie e sono le strutture più grandi dell’universo. In queste strutture avvengono complesse interazioni fra ammassi che forniscono ambienti unici per studiare la connessione fra emissione radio e dinamica delle strutture cosmiche», spiega uno dei coautori dello studio in uscita su Astronomy & Astrophysics, Gianfranco Brunetti, dell’Inaf di Bologna. In particolare, LoFar è sensibile all’emissione radio di sincrotrone, che traccia la dissipazione dell’energia gravitazionale nelle grandi strutture cosmiche, come appunto i superammassi. «Parte di questa energia viene dissipata nell’accelerazione di particelle e amplificazione di campi magnetici a opera di complessi fenomeni che coinvolgono turbolenza e gigantesche onde d’urto. Questi fenomeni», continua Brunetti, «sono studiati principalmente negli ammassi più grandi, ma grazie alla sensibilità delle osservazioni a bassa frequenza con LoFar è oggi possibile pensare di osservare l’emissione su scale ancora più grandi – fino appunto ai filamenti cosmici fra ammassi. Nel caso di eFeds J093513.3+004746, le osservazioni con LoFar della parte nord del superammasso hanno permesso di scoprire un’emissione diffusa connessa alla fusione tra ammassi appartenenti al superammasso. Osservazioni ancora più profonde permetteranno di capire se esiste emissione su scale ancora più grandi, potenzialmente da tutto il superammasso. In Italia, ad esempio, stiamo analizzando un’osservazione del superammasso della Corona Boreale che sarà circa sei volte più profonda di quella del campo eFeds». Media Inaf

Storia dell’astronomia dalle origini all’Ottocento (1)

La storia dell’astronomia, probabilmente la più antica delle scienze naturali, si perde nell’alba dei tempi, antica quanto l’origine dell’uomo. Il desiderio di conoscenza ha sempre incentivato gli studi astronomici sia per motivazioni religiose o divinatorie, sia per la previsione degli eventi: agli inizi l’astronomia coincide con l’astrologia, rappresentando allo stesso tempo uno strumento di conoscenza e potere; solo dopo l’avvento del metodo scientifico si è giunti a una separazione disciplinare netta tra astronomia e astrologia. Fin dai tempi antichi, gli uomini hanno appreso molti dati sull’universo semplicemente osservando il cielo; i primi astronomi si servirono unicamente della propria vista o di qualche strumento per calcolare la posizione degli astri. Nelle società più antiche la comprensione dei “meccanismi celesti” contribuì alla creazione di un calendario legato ai cicli stagionali e lunari, con conseguenze positive per l’agricoltura. Sapere in anticipo il passaggio da una stagione all’altra era di fondamentale importanza per le capacità di sopravvivenza dell’uomo antico. Pertanto l’investigazione della volta celeste ha costituito da sempre un importante legame tra cielo e terra, tra uomo e Dio. Con l’invenzione del telescopio l’uomo è riuscito ad indagare più a fondo sulle dinamiche celesti, aprendo finalmente una “finestra” sull’universo e le sue regole. Sarà poi l’evoluzione tecnica e l’avvio delle esplorazioni spaziali ad ampliare ulteriormente il campo di indagine e le conoscenze del cosmo.

Origine dell’astronomia

L’uomo, fin dalle sue origini, ha sempre osservato la volta celeste alla ricerca di possibili correlazioni tra le proprie vicende ed i fenomeni cosmici; da questa esigenza “primordiale” e dalla fantasia e creatività tipiche dell’essere umano nacquero le costellazioni. Esse rispondevano ad una serie di requisiti sia di tipo pratico (come indicatori naturali dello scorrere del tempo, come punti di riferimento dell’orientamento per terra e per mare e come segnalatori dei momenti migliori per intraprendere le attività agricole) che religioso (le stelle, quali luci naturali in un cielo buio, erano identificate con le divinità preposte alla protezione delle vicende umane). Le prime conoscenze astronomiche dell’uomo preistorico consistevano essenzialmente nella previsione dei moti degli oggetti celesti visibili, stelle e pianeti. Un esempio di questa astronomia alle prime armi sono gli orientamenti astronomici dei primi monumenti megalitici come il famoso complesso di Stonehenge, i tumuli di Newgrange, i Menhir e diverse altre costruzioni concepite per la stessa funzione. Molti di questi monumenti dimostrano un antico legame dell’uomo col cielo, ma anche l’ottima capacità di precisione delle osservazioni.

Pare che nel Paleolitico l’uomo considerasse il cielo come il luogo in cui prendevano forma le storie delle divinità; a dimostrazione di ciò vi sono tracce di un culto attribuito all’asterismo della “Grande Orsa” da parte dei popoli che abitavano oltre le due sponde dello stretto di Bering, che all’epoca dell’ultima glaciazione univa America e Asia. Studi recenti sostengono che già nel Paleolitico superiore (circa 16 000 anni fa) era stato sviluppato un sistema di venticinque costellazioni, ripartite in tre gruppi che rappresentavano metaforicamente Paradiso, Terra ed Inferi:

  • Primo gruppo, Mondo superiore: creature aeree (Cigno, Aquila, Pegaso, ecc.) – avevano alla culminazione la maggiore altezza sull’orizzonte;
  • Secondo gruppo, Terra: creature terrestri (Perseo, Vergine, Serpente, Orione, ecc.) – alla culminazione raggiungevano un’altezza media sull’orizzonte;
  • Terzo Gruppo, Mondo inferiore: creature acquatiche (Pesci, Balena, Nave Argo) – erano collocate per la maggior parte del tempo al di sotto dell’orizzonte.

Nel Neolitico, per meglio memorizzare gli astri, vennero attribuiti agli asterismi somiglianze e nomi, non sempre antropomorfi, alludenti ad aspetti ed elementi della vita agricola e pastorale. Le costellazioni zodiacali, che si trovano in prossimità della linea percorsa dal Sole durante l’anno (eclittica), furono le prime, per ragioni soprattutto pratiche, ad essere codificate nel cielo: data la preminenza di un’economia di tipo agro-pastorale, era necessario conoscere bene i vari periodi dell’anno in cui effettuare semine, raccolti, accoppiamenti e tutte le pratiche legate a questo mondo

I popoli della Mesopotamia

I primi segnali di una civiltà babilonese ben sviluppata si hanno attorno al 2700 a.C. Questo popolo dimostrò di possedere eccezionali competenze astronomiche, dando successivamente contributi importanti anche agli egizi e ai popoli indiani. La necessità di perfezionare le conoscenze in campo astronomico non proveniva solo dalla necessità di avere un buon calendario su cui fare riferimento, ma anche da convinzioni astrologiche: erano gli stessi sovrani a richiedere precise previsioni astrologiche agli astronomi di corte. Fu quindi la necessità di prevedere la posizione della Luna e dei pianeti, di capire il meccanismo delle eclissi di Sole e di Luna, ritenuti eventi infausti, a far perfezionare le conoscenze e le ricerche astrologiche.

Questi popoli, pur non avendo a disposizione strumenti di precisione, intuirono il moto apparente dei pianeti basandosi sulla posizione di alcune stelle di riferimento nel cielo. Scoprirono anche i periodi sinodici dei pianeti Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno con un margine di errore di pochi giorni, riportando in seguito le previsioni su tavolette effemeridi. Queste ultime potevano esser consultate per sapere, in qualsiasi momento, quando un pianeta era stazionario in cielo o in opposizione.

Osservando il moto lunare, gli astronomi mesopotamici si accorsero che le fasi avevano tempi ben definiti: da qui partì l’intuizione di come il Sole, la Terra e la Luna si trovassero periodicamente nella medesima posizione. Questa scoperta si riferisce al cosiddetto “saros”: dopo 223 lunazioni (18,10 anni) la Luna comincia un ciclo in cui le eclissi si ripetono con la stessa cadenza registrata nel ciclo precedente Grazie alla loro straordinaria abilità nell’effettuare calcoli matematici (introdussero l’algebra), determinarono la durata del mese sinodico lunare con un errore di 30 secondi nell’arco di 5.000 lunazioni. La loro abilità nello studio del cielo li portò ad identificare la fascia dello zodiaco e l’eclittica, da essi chiamata “via del Sole”, in cui trovare i pianeti. Questa fascia in seguito venne divisa in 360 parti, una per ogni giorno dell’anno, introducendo così l’uso del sistema sessagesimale per il calcolo dei gradi. Ebbero l’intuizione di raggruppare le stelle in costellazioni dando loro anche dei nomi.

Gli astronomi babilonesi furono i primi a dividere il giorno in 24 ore, anche se per loro il giorno cominciava la sera, mentre il mese cominciava all’emergere della Luna dalle luci del tramonto subito dopo il novilunio. Fissarono un calendario di 12 mesi lunari di 29 e 30 giorni alternati in maniera non regolare, dividendo i mesi in settimane. Il primo giorno dell’anno però cominciava con il plenilunio di primavera. Per correggere il calendario, anch’essi ebbero bisogno di intercalare mesi aggiuntivi per far tornare i conti, ottenendo comunque una misura precisa nel tempo.

Gli egizi

Le conoscenze astronomiche degli egizi, in parte riscontrabili nella costruzione delle piramidi e di altri monumenti allineati secondo la posizione delle stelle, presenta come punto di forza il calendario. Il trascorrere della vita in Egitto era fortemente legato a quella del fiume Nilo e delle sue periodiche alluvioni, le quali avvenivano con una certa costanza, in genere ogni 11 o 13 lunazioni. Gli egiziani si accorsero che l’inizio delle inondazioni avveniva quando si alzava nel cielo la stella Sirio (“Sopdet” per gli egizi) con un errore di 3-4 giorni al massimo.

Con questo riferimento sorsero diversi calendari, il primo era il “calendario lunare” di 354 giorni con mesi di 29 o 30 giorni. Ma nel tempo si notarono errori di calcolo, così ne fu introdotto un secondo definito “calendario civile” di 365 giorni, con 30 giorni ogni mese e 5 epagomeni ogni anno[15]. Ma anche questo calendario mostrava qualche differenza con la realtà. Così fu introdotto un “ultimo calendario” ancora più preciso, il quale possedeva un ciclo di 25 anni in cui veniva aggiunto un mese intercalare nel 1º, 3º, 6º, 9º, 12º, 14º, 17º, 20º, e 23º anno di ogni ciclo. Questo calendario, estremamente preciso, venne utilizzato anche da Tolomeo nel II secolo d.C. e venne preso in considerazione sino ai tempi di Niccolò Copernico. Da ricordare che i mesi di 30 giorni erano divisi in settimane di 10 giorni e in 3 stagioni di 4 mesi detti: mesi dell’inondazione, mesi della germinazione, mesi del raccolto.

Già dal 3000 a.C. gli egizi avevano in uso la divisione delle ore (immaginate come divinità) diurne e notturne in dodici parti ciascuna: per le ore diurne usavano regolare il tempo con le meridiane, mentre per le ore notturne si servivano di un orologio stellare, ovvero osservavano le posizioni di 24 stelle brillanti. Le ore così misurate sia di giorno che di notte avevano una durata diversa a seconda della stagione, mantenendo comunque una durata media di 60 minuti. Successivamente, per le ore notturne vennero introdotti i “decani”, ovvero 36 stelle poste in una fascia a sud dell’eclittica, ognuna delle quali indicava con maggior precisione l’orario.

I cinesi

L’antica astronomia cinese è celebre per la grande tradizione di osservazioni astronomiche sin dal 2000 a.C.: al 1217 a.C. risale la registrazione di un’eclissi solare.

Astronomi cinesi osservarono e registrarono passaggi di comete o altri eventi come l’esplosione della supernova del Granchio del 1054. Si arrivò anche alla realizzazione di un calendario lunisolare composto di 360 giorni, a cui venivano aggiunti 5 giorni epagomeni; esso sorse probabilmente già dal secondo millennio a.C. Il calendario cinese tuttavia non raggiunse mai il livello di precisione dei calendari di altre civiltà come quella babilonese o maya. Nel IV secolo a.C., nel periodo dei regni combattenti, Shi Shen e Gan De redassero due cataloghi stellari, tra i primi della storia. A Gan De sono attribuite anche le prime osservazioni dettagliate di Giove.

Astronomia greca

I primi astronomi greci

L’uomo a cui si devono le prime indagini conoscitive sul mondo e sull’astronomia fu Talete di Mileto (vissuto tra il VII ed il VI secolo a.C.), fondatore della scuola ionica. Egli stimò con buona approssimazione che i diametri apparenti del Sole e della Luna sono la 720ª parte del circolo percorso dal Sole; gli è stata attribuita anche la divisione dell’anno in quattro stagioni e 365 giorni, nonché la previsione di solstizi ed equinozi, e di un’eclissi di Sole.

Anassimandro (anche lui vissuto tra il VII ed il VI secolo a.C.) fu l’inventore dello gnomone per rilevare l’altezza del Sole e della Luna e quindi l’inclinazione dell’eclittica. Egli riteneva il mondo un cilindro posto al centro dell’universo con i corpi celesti che vi ruotano attorno, supponendo l’esistenza di mondi infiniti in tutte le direzioni, e avendo così la prima intuizione del principio cosmologico.

Iceta di Siracusa fu il primo ad asserire che «la terra si muove secondo un circolo» A lui farà eco anche Ecfanto di Siracusa che sosteneva la rotazione della terra sul proprio asse secondo un moto apparente del sole da oriente verso occidente. Un contributo maggiore lo diede Filolao (470 a.C. – 390 a.C.), della scuola Pitagorica, che sosteneva un modello di sistema solare non geocentrico; al centro dell’universo vi era un grande fuoco dove ruotavano la Terra, l’Antiterra, la Luna, il Sole, Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno. L’esistenza dell’antiterra fu introdotta probabilmente per giustificare l’invisibilità del fuoco centrale che veniva occultato da quest’ultima, nonché dalla necessità filosofica di arrivare ad un numero totale di dieci corpi.

Platone (428 o 427 a.C. – 348 o 347 a.C.) ebbe dapprima una visione dell’universo eliocentrica, poi ritrattata in tarda età per il geocentrismo. Intuì tuttavia la sfericità della Terra, sostenendo anche che la Luna ricevesse luce dal Sole.

Le sfere di Eudosso

Eudosso di Cnido (408 a.C. – 355 a.C.) introdusse il concetto di sfere omocentriche, ossia di un universo diviso in sfere aventi un unico centro di rotazione in cui si trovava la Terra; in ogni sfera vi era poi un pianeta con un moto circolare ed uniforme differente da quello degli altri. In questo modo diede spiegazione dei movimenti retrogradi e degli stazionamenti periodici dei pianeti: per le stelle fisse fu facile attribuire una sfera immobile, mentre per i pianeti e per la Luna il moto veniva spiegato con una prima sfera che induceva un moto diurno, un’altra per il moto mensile ed infine una terza ed una quarta con diverso orientamento dell’asse per il moto retrogrado. Tenendo conto che il Sole ne possedeva tre, si giunse ad un sistema di ben 27 sfere.

Aristotele (384 o 383 a.C. – 322 a.C.) fu la causa dello stallo astronomico per quasi 2000 anni. Egli attribuì una realtà fisica alle sfere di Eudosso, alle quali ne aggiunse altre per sopperire alle evidenze osservative. Ipotizzò un complicato sistema di 55 sfere animate da un motore immobile dal quale partiva l’impulso al moto di tutte le sfere, mentre l’attrito contribuiva a creare un moto differente per ogni sfera.

Il “Copernico dell’antichità”, Aristarco di Samo

Aristarco di Samo (310-230 a.C. circa) perfezionò la visione dell’universo di Eraclide Pontico (385 a.C. – 322 o 310 a.C.) spostando il Sole al centro dell’universo; il moto dei corpi diveniva più semplice da spiegare, anche se in maniera non ancora perfetta, data la mancata applicazione delle orbite ellittiche. Inoltre, considerò il moto rotatorio della Terra su di un asse inclinato, spiegando così le stagioni.

Aristarco fu anche famoso per il metodo di misura della distanza tra la Terra-Sole. Al primo quarto di Luna, quando risulta visibile anche il Sole, i due astri formano un angolo di 90°. Considerando l’ipotetico triangolo tra i tre corpi, Aristarco misurò quello della Terra con la Luna ed il Sole, trovando un valore di 87°. In questo modo, con un semplice calcolo trigonometrico ottenne che la distanza Terra-Sole era 19 volte maggiore di quella tra la Terra e la Luna. Il valore in verità è di 400 volte, ma l’importanza di tale misura non consiste nella precisione riscontrata, quanto nel metodo usato e nell’intuizione.

La prima misura del meridiano terrestre

Lo scienziato che per primo misurò la lunghezza del meridiano terrestre fu Eratostene di Cirene (275 a.C. circa – 195 a.C. circa), in Egitto. Il metodo che adottò non è noto. Si è però tramandata una versione semplificata, descritta da Cleomede nel suo De motu Circulari Corporum Caelestium. La versione di Cleomede prendeva in considerazione due città: Alessandria e Siene, l’odierna Assuan. Assumendo l’ipotesi semplificata che fossero sullo stesso meridiano (in realtà sono separate da 3° di longitudine), si misura dapprima la distanza tra le due città, ponendo concettualmente i raggi solari paralleli tra loro: questa situazione è possibile in alcuni giorni dell’anno; il giorno del solstizio d’estate, infatti, a Siene (assunta ipoteticamente sul Tropico del Cancro) il Sole è allo zenit e i raggi risultano verticali, mentre ad Alessandria formano un certo angolo: questo angolo corrisponde all’angolo posto ipoteticamente al centro della Terra tra le rette che congiungono le due città. Il suo valore era di 1/50 di angolo giro (ancora i gradi sessagesimali non erano stati ufficialmente introdotti), che equivaleva a 250.000 stadi, ossia a 39.400 km (contro i circa 40.000 reali).

Gli epicicli e i deferenti e il contributo di Ipparco

Allo scopo di descrivere con precisione il moto della Terra e degli altri pianeti, Apollonio di Perga (262 a.C. – 190 a.C.) introdusse il sistema degli epicicli e dei deferenti, una tecnica di scomposizione del moto in armoniche. In questo modello matematico, i pianeti descrivevano orbite scomponibili in un’orbita circolare, percorsa ad una velocità costante, chiamata epiciclo, mentre il centro della stessa orbita avrebbe ruotato attorno ad un cerchio immateriale detto deferente. L’applicazione del modello alla realtà dovette prendere in considerazione le differenze osservative: fu allora introdotto il modello eccentrico, con la Terra non perfettamente al centro del deferente. Il metodo degli epicicli e dei deferenti permetteva di calcolare la rivoluzione dei pianeti con grossa precisione, spiegando i moti retrogradi e persino le variazioni di luminosità del pianeta.

Ipparco di Nicea (190 a.C. – 120 a.C.), utilizzando vecchie osservazioni e cataloghi stellari primordiali, ne creò uno nuovo con 850 stelle, assegnandovi per primo il sistema di coordinate eclittiche. Classificò quindi le stelle in una scala di sei grandezze oggi note come magnitudini stellari. Tramite questi elementi Ipparco poté notare che tra le sue osservazioni e quelle del passato vi era una certa differenza; questo implicava lo spostamento del centro di rotazione del cielo, e quindi la precessione degli equinozi. Il suo studio fu così accurato che poté calcolare i valori di spostamento supposti in 46″ d’arco all’anno (il valore stimato è di 50,26″), per cui poté stabilire con buona precisione la differenza tra anno tropico e sidereo.

L’ultimo grande astronomo dell’antichità

La fama di Claudio Tolomeo (100 circa – 175 circa) è stata tramandata principalmente grazie al libro L’Almagesto (Mathematikè Syntaxis). I libri dell’Almagesto sono un riepilogo di tutto il sapere del passato ed erano talmente completi da divenire in breve tempo un riferimento duraturo per i secoli futuri. In essi Tolomeo riprese e riadattò le vecchie teorie astronomiche alle nuove scoperte: stabilì il sistema geocentrico come punto irremovibile delle sue idee, dal quale giustificò il moto dei pianeti con le teorie di Apollonio ed Ipparco usando epicicli e deferenti; e nel cercare di creare un modello quanto più preciso possibile, ma soprattutto che non differisse dalle osservazioni, introdusse il concetto di equante, perfezionando l’ipotesi dell’eccentrico di Apollonio. Con questo “stratagemma” Tolomeo riuscì a non discostarsi troppo dai principi aristotelici di circolarità delle orbite e di costanza del moto: difatti, l’eccentricità fa apparire il moto degli astri non costante quando osservato dalla Terra, mentre in realtà risulta continuo. Fu anche con questo sistema che riuscì a giustificare tutti i moti dei pianeti, anche quelli retrogradi, rispetto alla volta celeste. Creò un catalogo stellare con 1028 stelle usando le carte di Ipparco con cui divise il cielo in costellazioni, tra le quali le 12 dello zodiaco, usando il metodo delle magnitudini stellari.

I popoli dell’America centrale

Anche nel centro America si svilupparono delle civiltà che raggiunsero una cultura e un grado di conoscenze assai elevati. La loro astronomia non diede contributi alle altre civiltà, rimanendo confinata nell’isolamento sino ai tempi moderni. Anch’essi sono famosi per la costruzione di templi e piramidi dedicati agli dei del cielo. Il loro culto era legato a Venere, identificato con la divinità nota come “serpente piumato”; proprio sui moti di questo pianeta svilupparono un preciso calendario astronomico, scoprendo in particolare che ogni 8 anni Venere compie 5 rivoluzioni sinodiche (di 584 giorni): sorprende ancor oggi la precisione degli almanacchi astronomici improntati sul ciclo di Venere con l’esiguo errore di un giorno in 6.000 anni. Il calendario era formato da 18 mesi di 20 giorni con 5 giorni addizionali.

I popoli dell’America Centrale riuscirono a prevedere con maggior veridicità di previsione la comparsa delle eclissi. Notevoli anche i progressi nelle previsioni del ciclo stagionale, dei solstizi e degli equinozi. I templi, perfettamente allineati con la posizione del Sole in determinati giorni dell’anno, sono un ottimo esempio di allineamento astronomico.

Il complesso di edifici di Uaxactún nel Guatemala presenta una piattaforma in cima ad una delle piramidi dalla quale, in occasione di equinozi e solstizi, è possibile osservare il Sole sorgere dietro lo spigolo di altri tre edifici perfettamente allineati.

Il Medioevo

Durante il Medioevo, nel mondo occidentale l’astronomia faceva parte del corso ordinario di studi (nel cosiddetto quadrivio): si vedano, ad esempio, le notevoli conoscenze astronomiche che esprime un poeta come Dante, nella Divina Commedia.

Nel XIII secolo, Guido Bonatti si attribuiva il merito di aver “individuato 700 stelle, delle quali, fino ad allora, non si aveva avuta ancora conoscenza”. Ciò indica un forte interesse per l’osservazione diretta e per il progresso delle conoscenze.

Dall’Islanda dell’XI secolo ci è giunto l’Oddatala di Oddi Helgason, l’opera di un contadino che, avvalendosi della navigazione vichinga come mezzo di orientamento, calcolò le varie posizioni del sole durante l’anno, così come le date esatte dei solstizi.

L’astronomia islamica

L’arrivo degli Arabi nel sud dell’Europa, in particolare in Spagna e in Sicilia, determinò il mantenimento di una fiorente cultura astronomica che avrebbe influenzato le future generazioni di intellettuali; basti pensare che buona parte dei nomi delle stelle (Deneb, Altair, Betelgeuse, Aldebaran, Rigel ecc.) e alcuni termini astronomici (Zenit, Nadir, almanacco, algoritmo, algebra, ecc.) hanno un’origine araba. Infine, bisogna ricordare l’introduzione del sistema di numerazione arabo (desunto dagli Indiani), ben più semplice di quello romano e ben più pratico.

Attorno al 638 il califfo ‘Omar ibn al-Khattāb oltre a creare una solida struttura amministrativa islamica, decretò la nascita di un calendario islamico che per convenzione faceva partire il conteggio degli anni dall’Egira di Maometto del 622.

Valenti astronomi hanno reso possibile il fiorire di questa cultura del cielo: da Yaqūb ibn Tāriq (noto per aver misurato la distanza e il diametro di Giove e Saturno), Muḥammad ibn Mūsā al-Khwārizmī (padre dell’algebra, formulò una teoria per la costruzione di meridiane e quadranti astronomici)[55], Habash al-Hasib al-Marwazi (perfezionò le misure e le dimensioni di Terra, Sole e Luna), al-Farghānī (latinizzato in Alfraganus), al-Hasan ibn al-Haytham (latinizzato in Alhazen), da al-Bīrūnī a Ibn Yūnus, da Abu l-Wafāʾ a ‘Omar Khayyām (la cui fama di poeta oscurò quella per cui fra i musulmani era assai più apprezzato, quella cioè di astronomo e di matematico). Abd al-Rahmān al-Sūfi fu il primo a catalogare la galassia di Andromeda, descrivendola come una “piccola nube” e a scoprire la Grande Nube di Magellano.

Al-Battani (latinizzato in Albategnius), attivo al Cairo, fu il più grande astronomo arabo, autore di misurazioni che migliorarono la conoscenza dell’inclinazione dell’asse terrestre; al-Zarqali, latinizzato in Arzachel, arabo di Cordova, fu autore delle celebri tavole planetarie note come Tavole toledane che, tuttavia, si rifacevano a tavole risalenti all’età persiana sasanide; l’andaluso Ibn Rushd, detto Averroè, criticò apertamente la teoria degli epicicli, sostenendo l’irrealtà dei cerchi eccentrici e dei deferenti assieme a tanti altri scienziati come Alhazen e al-Bīrūnī. Bisogna anche ricordare il fatto che furono gli scienziati arabi i sostenitori di ciò che oggi chiamiamo il metodo scientifico o galileiano di dimostrare la validità delle affermazioni scientifiche.

Il Cinquecento

Da Copernico a Galilei

Si può ben affermare che l’astronomia moderna cominci da Niccolò Copernico. Nella sua nuova visione, la Terra orbita intorno al Sole con moto circolare; il moto dei pianeti e le elongazioni di Mercurio e Venere venivano di conseguenza spiegati con estrema semplicità, senza dover ricorrere “all’artificio” degli epicicli e dei deferenti. La rivoluzione copernicana nasceva nel clima filosofico già inaugurato da Nicola Cusano, che contestando la tesi geocentrica aveva sostenuto come l’universo fosse privo di un centro e di una circonferenza assoluti.

Giordano Bruno non si limitò a sostenere una posizione eliocentrica, ma allargò a dismisura i confini del sistema tolemaico, allora limitato a un numero finito di orbite o sfere celesti visibili dalla Terra e ruotanti attorno a questa: per Bruno adesso il massimo orizzonte visibile dell’universo non costituiva più il suo limite estremo, perché oltre di esso occorreva ammettere, per mezzo della speculazione filosofica, la presenza di innumerevoli altri pianeti e cieli motori. Questi non sono più disposti in un ordine gerarchico a partire dalla prima Intelligenza motrice, ma ogni punto del cosmo, ogni corpo celeste diventa una sua diretta manifestazione:

Dove è numero infinito, ivi non è grado né ordine numerale […] Son, dunque, infiniti mobili e motori, li quali tutti se riducono a un principio passivo ed un principio attivo, come ogni numero se reduce all’unità; e l’infinito numero e l’unità coincideno […] Cossì non è un primo mobile, al quale con certo ordine succeda il secondo, in sino l’ultimo, o pur in infinito; ma tutti gli mobili sono equalmente prossimi e lontani al primo e dal primo ed universal motore. Giordano Bruno, De l’Infinito, Universo e Mondi, dialogo quinto

Tycho Brahe è considerato tra i più grandi osservatori del passato. All’età di 30 anni ottenne dal re di Danimarca la concessione dell’isolotto di Hveen, dove avrebbe costruito “Uraniborg”, l’osservatorio più importante dell’epoca. A seguito del passaggio di due comete nel 1577 e nel 1583 dedusse che questi corpi, tanto variabili, si trovassero oltre l’orbita lunare; cominciava quindi a cadere l’idea delle sfere associate al Sole, alla Luna e ai pianeti, come pensava Aristotele, così come cominciava a cadere l’idea dell’immutabilità del cielo stellato. La fama di Brahe non è legata solo a queste considerazioni, ma soprattutto alle precise osservazioni effettuate con strumenti da lui stesso realizzati. Brahe determinò con precisione la lunghezza dell’anno terrestre, riscontrando l’accumulo di errori dal passato, tanto da rendere inevitabile la riforma del calendario. Riuscì poi a stabilire con una precisione mai raggiunta: l’obliquità dell’eclittica, l’eccentricità dell’orbita terrestre, l’inclinazione del piano dell’orbita lunare e l’esatta misura della retrogradazione dei nodi, scoprendo la non costanza del moto. Infine, compilò il primo catalogo moderno di posizioni stellari con oltre 1000 stelle.

Giovanni Keplero nel 1600 andò a Praga a lavorare come assistente di Brahe, e due anni dopo venne nominato suo successore. Utilizzò le osservazioni di Brahe e in particolare, studiando l’orbita di Marte, si accorse dell’esistenza di incongruenze tra teoria e pratica; provando e riprovando, Keplero capì che per limitare gli errori di calcolo l’unico modello che potesse spiegare il moto fosse quello ellittico, con il Sole in uno dei fuochi. Con tale deduzione Keplero gettò le basi della meccanica celeste; le tre leggi di Keplero infatti, furono una vera e propria rivoluzione, abbattendo l’ultima barriera ideologica alla radicata convinzione dei moti uniformi e circolari delle orbite dei pianeti.

Nel 1609, Galileo Galilei venne a sapere dell’invenzione del telescopio; dopo essersi documentato, ne costruì uno migliorandone le prestazioni e gli ingrandimenti. Quando lo puntò verso il cielo, le sue osservazioni rivelarono un universo mai visto prima: la Luna aveva una superficie scabrosa, Giove era circondato da quattro satelliti che gli ruotavano intorno, la Via Lattea era risolta in milioni di stelle, Saturno mostrava uno strano aspetto, mentre Venere aveva le fasi come la Luna. Tuttavia, nel 1632, dopo aver pubblicato il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, nel quale affermava apertamente le sue idee eliocentriche, Galileo fu costretto dalla Chiesa ad abiurare.

Il Seicento

L’astronomia matematica: Newton

Già dal periodo universitario Isaac Newton si occupò di studi matematici, di osservazioni astronomiche, fisiche e chimiche. Nel 1686 pubblicò la sua famosa opera Phylosophiæ naturalis principia mathematica, che contiene anche la legge di gravitazione universale, vari studi sul moto dei fluidi e le leggi dell’urto; a lui si deve anche il calcolo infinitesimale, le funzioni di una variabile e la costruzione di tangenti su curve piane. In ottica espose la teoria della scomposizione della luce bianca secondo la famosa esperienza del prisma, fornendo anche spiegazioni sul fenomeno dell’arcobaleno. Studiò anche la forma della Terra, l’effetto delle perturbazioni dovute all’azione gravitazionale del Sole e quindi il fenomeno delle maree, da cui risalì anche alla valutazione della massa della Luna. Interpretò anche la precessione degli equinozi partendo dalla forma irregolare della Terra, e valutò lo schiacciamento polare conoscendo la velocità di rotazione e le dimensioni del pianeta.

I telescopi migliorano: le nuove scoperte

Christian Huygens si dedicò a studi di fisica e meccanica ottenendo delle scoperte fondamentali. A lui si deve la prima ipotesi della conservazione dell’energia, introducendo la “forza viva” che successivamente sarà chiamata “energia cinetica”, applicata concettualmente anche alla possibilità di spiegare i fenomeni naturali in termini di cambiamenti di velocità e posizione di atomi microscopici. Fu il primo ad ipotizzare una teoria ondulatoria della luce secondo piccole esperienze, entrando così in polemica con Newton, il quale sosteneva la teoria corpuscolare, polemica che sarebbe terminata solo con la moderna concezione della doppia natura della luce: sia ondulatoria che corpuscolare. Si occupò anche di ottica, migliorando notevolmente gli strumenti astronomici, costruendo un oculare adatto a ridurre l’aberrazione cromatica. Queste migliorie ottiche gli consentirono di scoprire gli anelli di Saturno e la sua luna più grande, Titano (nel 1665).

Giovanni Domenico Cassini scoprì nel 1665 una breccia sugli anelli di Saturno, la cosiddetta divisione di Cassini. Successivamente scoprì alcuni satelliti: Giapeto (1671), Rea (1672), Dione e Teti (1684)[71]. Determinò anche l’unità astronomica con un errore inferiore al 7,5%.

Ole Rømer collaborò con Cassini all’introduzione del micrometro filare ed ebbe anche la prima idea di montatura equatoriale. Il suo nome però, è legato indubbiamente alla prima vera misurazione della velocità della luce: utilizzando le effemeridi di Giove, notò come persistesse nel calcolo teorico un certo tempo tra il fenomeno calcolato (eclissi o transito del satellite) e la realtà; da ciò dedusse che, data la notevole distanza tra la Terra e Giove, la luce impiegava un determinato tempo per arrivare sino alla Terra, contraddicendo le convinzioni dell’epoca sull’istantaneità dei fenomeni luminosi. Egli giunse a stabilire che la luce viaggiava ad una velocità di 225 000 km/s, contro i 300 000 reali.

Edmund Halley nel 1678 fu nominato membro della Royal Society. Nel 1682 osservò la cometa che prenderà il suo nome, supponendo che compisse una rivoluzione completa lungo la sua orbita ogni 76 anni. Tramite i calcoli predisse il successivo passaggio che avvenne puntuale, ma che egli non vide a causa della sua morte. Nel 1718 mise in evidenza i moti propri delle stelle, dimostrando che almeno tre di esse, Sirio, Procione e Arturo, avevano cambiato posizione dai tempi di Tolomeo; scoprì inoltre l’ammasso dell’Ercole.

Il nome di James Bradley è legato alla scoperta dell’aberrazione della luce, la quale aprì la strada alle future misure di parallassi stellari. Osservando la stella γ Draconis, sospettata di mutare posizione, scoprì uno spostamento opposto a quello dovuto. Annotando tutti i dati necessari quali temperatura e comportamento del telescopio, annunciò nel 1729 la scoperta dell’aberrazione. Egli tuttavia notò che, calcolando gli effetti dell’aberrazione, resiste uno scostamento fisso di 2″ d’arco, il quale indicava l’esistenza di un altro fenomeno: il fenomeno in questione era la nutazione, che determina uno spostamento delle posizioni stellari ogni 18,6 anni.

Il Settecento

Il catalogo di Messier

Charles Messier, astronomo francese, pubblicò nel 1774 il celebre catalogo che porta il suo nome. Accanito cacciatore di comete, ne scoprì una quindicina e ne osservò molte altre. Si appassionò nel catalogare gli oggetti del cielo inserendo anche una breve descrizione. Usò un modesto riflettore da 19 cm installato presso l’Hotel de Cluny al centro di Parigi. Tra le sue scorribande celesti scoprì e catalogò diversi oggetti famosi tra nebulose, galassie e ammassi, giungendo al numero di 103 oggetti; in seguito, altri astronomi ne aggiunsero altri facendo arrivare il catalogo a 110. Il catalogo di Messier, per quanto innovativo, presentava delle lacune osservative causate dalla modestia dello strumento usato. Herschel infatti dopo quasi un secolo risolse in stelle oggetti che Messier considerava semplici nebulosità.

William Herschel

Nel 1781, William Herschel scoprì Urano utilizzando un modesto telescopio da 18 cm. Questa scoperta, che lo fece divenire astronomo del Re, fu totalmente casuale: facendo conteggi stellari per determinare la forma della galassia, notò la presenza di un astro vicino alla stella 1 Geminorum; egli intuì che ciò che aveva all’oculare non era una stella, ma supponeva piuttosto che fosse una cometa, perché aumentando gli ingrandimenti aveva notato un dischetto circolare. Fece così una comunicazione ufficiale alla Royal Society, la quale constatò che egli aveva invece scoperto un pianeta. Nel 1787 scoprì anche due satelliti di Urano, Titania e Oberon, e fu il primo ad osservare anche gli anelli di Urano, anche se l’effetto fu interpretato come un difetto d’ottica; gli anelli infatti verranno confermati solo nel 1977. Nel 1789, con un telescopio da 1,2 m di diametro, osservò per primo due satelliti interni all’anello di Saturno, Encelado e Mimas. Scoprì il sistema doppio ξ Bootis, la doppia Algieba (γ Leonis), l’ammasso globulare NGC 2419 nella costellazione della Lince. Per ottenere questi risultati eccellenti, Herschel aveva costruito uno dei telescopi più grandi dell’epoca, un newtoniano di ben 1,22 m di diametro e 12,20 m di lunghezza focale. Per costruirlo impiegò tre anni di lavoro dal 1786 al 1789, affinando anche le tecniche di lavorazione dei telescopi e delle ottiche. Inoltre studiò la forma visibile della galassia, tracciandone un disegno completo e intuendone la forma lenticolare.

La meccanica celeste

Giuseppe Luigi Lagrange, oltre ai contributi alla matematica analitica e al calcolo delle funzioni, sviluppò un modello di meccanica celeste molto più complesso e preciso. Nel 1773 notò che era possibile esprimere la legge di Newton in termini di azione di un campo di forza che riempie lo spazio in modo continuo. In questo modo egli teneva ormai in considerazione gli effetti delle perturbazioni causate da altri pianeti su diversi valori come: inclinazione dell’orbita, direzione e lunghezza dell’asse maggiore, eccentricità dell’ellisse. Risultava così che i corpi celesti, pur mantenendo la loro orbita stabilita nel tempo, subivano molteplici influenze da parte degli altri pianeti. Altro valido contributo alla meccanica celeste fu portato da Pierre Simon Laplace, che scoprì la ciclicità del moto di Giove e Saturno, ciclicità stimata in circa 900 anni, per cui i pianeti appaiono accelerare o decelerare reciprocamente. Tale variazione era già nota anche a Lagrange, ma solo Laplace ricondusse la variazione a un moto ciclico, confermando l’idea che il sistema solare presenta dei moti non casuali anche su grande scala temporale.

Joseph Von Fraunhofer e Wilhelm Bessel

Joseph Von Fraunhofer fu l’artefice di una piccola rivoluzione strumentale. Nel 1812 cominciò a studiare un metodo per ottenere lastre di vetro prive di aberrazioni dell’immagine. Per raggiungere lo scopo, aveva bisogno di lavorare su ogni singolo colore prodotto dalle aberrazioni. Egli sfruttò allora il metodo del prisma con cui scompose la luce solare, ma nella scomposizione dei colori notò che lo spettro prodotto manteneva diverse righe nere del tutto indipendenti dal vetro usato: aveva scoperto le righe di Fraunhofer. Le righe nere infatti non dipendevano dall’ottica, ma dalla luce solare. Esse in realtà erano già state osservate da altri ottici, ma Fraunhofer fu il primo che ne annotò la posizione secondo la denominazione delle lettere dell’alfabeto; sarà successivamente Kirchhoff ad interpretare correttamente l’origine delle strane righe nere. Fraunhofer ebbe anche per primo l’intuizione di usare un reticolo di diffrazione, al posto del prisma, per la scomposizione della luce. Con questo mezzo l’immagine degli spettri risultava più precisa di quella ottenibile col prisma, introducendo così un nuovo modello di spettroscopio[85]. Perfezionò poi uno strumento che avrebbe premesso ulteriori scoperte astronomiche, l’eliometro, dapprima usato per la misura del diametro solare; a seguito dei perfezionamenti di Fraunhofer, Bessel riuscì ad ottenere la misura della prima parallasse stellare. Friedrich Wilhelm Bessel fu uno dei più rappresentativi astronomi del XIX secolo. Nel 1838, grazie all’introduzione dell’eliometro di Fraunhofer, Bessel riuscì ad osservare la prima parallasse stellare e dunque a determinare la distanza della stella. Per la prima misura Bessel scelse la stella 61 Cygni, dotata di maggior moto proprio rispetto alle altre; dopo sei mesi di osservazioni riscontrò una parallasse che determinava una distanza di 10,7 anni luce, valore assai preciso anche per i nostri giorni. Nel 1844, dopo decenni di osservazioni, Bessel annunciò che Sirio ruotava attorno al baricentro di un sistema, ossia che Sirio comprendeva un oggetto invisibile. Queste scoperte aprivano la strada allo studio di posizione degli astri, nonché alla consapevolezza che l’universo visibile mostrava dimensioni enormi, ben oltre le aspettative iniziali.

La formazione del Sistema Solare

Le conoscenze oramai raggiunte nel campo della meccanica celeste permisero lo sviluppo di teorie legate alla formazione del sistema solare partendo dalla prima teoria esposta: quella dei vortici di Cartesio[87]. Georges-Louis Leclerc avanzò l’ipotesi che il sistema solare fosse nato dal Sole a seguito del passaggio ravvicinato di una stella: il corpo avrebbe estratto materia dal Sole creando i corpi planetari. Questa idea venne subito definita come teoria catastrofica.

Nel 1755, il filosofo tedesco Kant e successivamente nel 1796 in modo indipendente anche Laplace, esposero una teoria nuova definita poi come teoria di Kant-Laplace. La teoria prevedeva la nascita del sistema solare da una nube di gas, la quale, posta in rotazione per non collassare su sé stessa, avrebbe formato al centro la stella che conosciamo, il Sole, mentre all’esterno il gas si sarebbe aggregato formando i proto-pianeti; nel tempo il Sole si sarebbe acceso come stella, e spazzata via la presenza di nubi e polveri ricadute poi sulle superfici planetarie, i cosiddetti proto-pianeti sarebbero divenuti quelli che conosciamo ora. Questa teoria, tuttora accreditata, spiega ad esempio il perché i pianeti gassosi si siano mantenuti all’esterno del sistema, nonché la disposizione uniforme sul piano dell’eclittica. Essa però mantiene delle incongruenze, ad esempio non si sa per quale motivo il materiale nebulare si sarebbe dovuto aggregare.

L’Ottocento

La scoperta dei primi asteroidi

Il primo gennaio 1801, Giuseppe Piazzi da Palermo scoprì un oggetto celeste che a prima vista sembrava una cometa. Divulgata la scoperta, Gauss cominciò a osservare il corpo per determinarne i parametri orbitali, ma l’oggetto passò dietro il Sole; fu Olbers che lo ritrovò nel 1802. Valutata quindi l’orbita e la distanza, William Herschel definì l’oggetto “asteroide”, in quanto, a causa del piccolo diametro, non riusciva a “risolverne” il disco, dando quindi un aspetto “quasi stellare”. Piazzi lo battezzò col nome di Cerere Ferdinandea, poi modificato in Cerere. Inizialmente Cerere fu creduto un nuovo pianeta, anche perché si trovava esattamente alla distanza prevista dalla legge empirica di Titius-Bode.

Nel giro di pochi anni, Olbers scoprì Pallade e Vesta; Giunone fu scoperto nello stesso periodo da Karl Ludwig Harding. Dopo i primi quattro tuttavia, si dovette aspettare circa quarant’anni per vedere una nuova scoperta (Astrea, scoperto da Karl Ludwig Hencke).

Nonostante il continuo incrementarsi di tali scoperte, gli asteroidi furono considerati pianeti fino a circa il 1851, quando vennero riclassificati come “corpi minori” del sistema solare, ordinati in base ad un numero progressivo e non più in base alla distanza dal Sole (come i pianeti).

Il Sole e il ciclo delle macchie

Nel 1848, Johann Rudolf Wolf introdusse un metodo di misura giornaliero delle macchie solari, detto anche “numero di Wolf”; questo valore tiene conto del numero di gruppi di macchie presenti e di quello singolo, seguito da un fattore K di valutazione delle condizioni di osservazione. Subito dopo l’introduzione di questo metodo, è stato possibile calcolare l’andamento ciclico dell’attività solare dal 1700 ad oggi, scoprendo l’esistenza di svariati cicli di attività solare, il più evidente dei quali è quello di 11,04 anni.

Richard Christopher Carrington ricavò la legge di rotazione differenziale del Sole, e definì la “migrazione” delle macchie verso l’equatore nel corso del ciclo. La migrazione in latitudine è stata scoperta disponendo tutte le macchie osservate in un grafico a forma di farfalla.

Il primo settembre 1859, Carrington osservò una nuova classe di fenomeni solari: i brillamenti. Egli vide una specie di lampo che saettava tra due macchie con una durata di cinque minuti; poco dopo avvenne una tempesta magnetica, gli aghi delle bussole impazzirono e apparve il giorno dopo un’aurora boreale. Questo fenomeno si ripete tutte le volte che sul Sole avviene un brillamento

La movimentata scoperta di Nettuno

Il 23 settembre del 1846 si ebbe la scoperta di Nettuno. Le vicende legate alla sua scoperta furono piuttosto complesse: nel 1821 un collaboratore di Laplace, Alexis Bouvard, pubblicò degli effemeridi di Urano, ma nell’introduzione al libro fece notare che vi erano delle discrepanze di posizione del pianeta; egli pensò subito all’idea di un corpo perturbatore. Nel 1823, Bessel iniziò una serie di osservazioni alla ricerca del pianeta, confrontando i dati di Bouvard, senza però ottenere risultati. George Biddell Airy, nominato direttore dell’osservatorio di Cambridge, rilevò anch’egli queste discrepanze tra calcoli e osservazione, presentando un rapporto ufficiale. John Couch Adams, dopo alcuni mesi di lavoro, concluse che le perturbazioni erano causate da un pianeta; dopo due anni di analisi delle osservazioni indicò in quale posizione potesse trovarsi il nuovo corpo. Anche Urbain Le Verrier, dopo aver ottenuto le stesse conclusioni, sollecitò i colleghi francesi alla ricerca, ma non avendo avuto grandi consensi si rivolse successivamente, presso l’Osservatorio di Berlino, a Johann Gottfried Galle.  Galle individuò alla prima notte di osservazione il nuovo pianeta dopo ben 25 anni di tentativi. La scoperta fu il trionfo della meccanica celeste e dei calcoli matematici.

Lo spettro degli elementi chimici

Robert Wilhelm Bunsen si dedicò ad una serie di esperimenti sull’azione chimica della luce sfruttando la sua celebre invenzione: il becco Bunsen (un bruciatore a gas regolabile). Egli cercò di identificare le sostanze chimiche mediante la colorazione della fiamma posta a contatto con le sostanze. Dapprima provò a identificare i tenui colori con dei filtri colorati, senza però ottenere una misura precisa; successivamente, l’amico Gustav Robert Kirchhoff suggerì l’idea di osservare la fiamma attraverso uno spettroscopio. L’idea era talmente valida che entrambi si misero a studiarne gli effetti con le diverse sostanze, scoprendo la correlazione tra sostanze e righe di Fraunhofer. A riprova del reale collegamento tra spettro ed elemento chimico, effettuarono altri esperimenti invertendo la condizione, e notando quindi come le stesse righe venissero prodotte, in emissione o in assorbimento, in base alle condizioni del materiale.

I primi passi della spettroscopia

Angelo Secchi proseguì l’opera appena avviata da Kirchhoff classificando le stelle in base al loro spettro. Egli infatti era convinto che su grande scala le stelle presentassero una logica suddivisione. Sfruttando uno spettrografo, Secchi distinse le stelle in quattro categorie: Tipo I, II, III e IV. La divisione spettrale divenne ancor più importante quando si scoprì il legame con la temperatura superficiale. Secchi ebbe così modo di compilare il primo catalogo spettrale della storia dell’astronomia.

William Huggins, dopo aver letto il rapporto di Kirchhoff sull’identificazione degli elementi chimici tramite lo spettro, decise di compiere ricerche in questo campo. Usando appunto uno spettrografo, iniziò la sua ricerca su altri oggetti del cielo: sulle comete individuò la presenza di idrocarburi gassosi, e nel 1866 puntò il suo strumento su una nova nella Corona Boreale, accorgendosi di una immane eruzione di idrogeno e altri gas. In questo modo avviò lo studio sui meccanismi delle nove, in quanto si pensava ancora fossero delle stelle nuove, o oggetti in rapido movimento.

Joseph Lockyer, il fondatore della rivista Nature, scoprì che sul Sole apparivano le righe di un elemento sconosciuto, chiamato poi elio. La sua fu una scoperta fondamentale per l’astronomia, poiché l’elio è una sostanza chiave nel processo evolutivo delle stelle. Nel 1890, durante un viaggio in Grecia, osservò l’orientamento dei templi greci e constatò che gli assi erano allineati sulla direzione del sorgere e tramontare del Sole. Suppose allora che anche i templi egizi potevano avere degli orientamenti. Intraprese così lo studio di alcuni monumenti, riscontrando che sette templi egizi erano orientati verso il sorgere di Sirio. Le scoperte di Lockyer furono subito apprezzate. Egli trovò poi l’orientamento del tempio di Ammon-Ra a Karnak, e successivamente estese le sue ricerche a Stonehenge, riuscendo a stabilire la data della loro fondazione.

All’asta alcuni manoscritti inediti dell’ultimo dei maghi

Quattro pagine scritte dal grande fisico e matematico Isaac Newton (1642 – 1727) saranno vendute in un’asta on line della Casa University Archives di Westport nello stato del Connecticut, (USA), il prossimo 6 gennaio. Nel manoscritto (inedito) il grande fisico cercava l’ispirazione per i suoi famosi esperimenti leggendo la Kabbalah, i libri dei primi filosofi cristiani e i testi della Bibbia. Newton era alla ricerca dei “collegamenti” tra la metafisica e la fisica volendo così unire il mondo astratto con il mondo concreto. Il valore dei manoscritti va da 130.000 a 160.000 euro. (La Nazione 28 dicembre 2020)

Insomma come disse John Maynard Keynes dell’illustre scienziato Newton in una conferenza del 1942 al Royal Society Club: “Non fu Newton il primo scienziato dell’età della Regione, piuttosto fu l’ultimo dei Maghi, l’ultimo dei Babilonesi e dei Sumeri”.

Alla morte di Newton infatti la Royal Society rifiutò di acquistare i suoi manoscritti di argomento religioso e li restituì alla famiglia con la raccomandazione di non mostrarli ad alcuno. Una parte dei manoscritti fu acquistata da Keynes, il grande economista.. Egli considerando la mole dei manoscritti alchemici, dette una definizione che fece scandalo e fu all’origine di molte controversie: lo chiamò appunto non il primo degli scienziati ma “l’ultimo dei maghi”. Quelle carte contenevano molta matematica, molta fisica, molta ottica, ma una rilevante parte di esse era dedicata a temi di alchimia e di cronologia universale, alla interpretazione delle Scritture e alle controversie teologiche.

Regali extraterrestri per Cina e Giappone

Le agenzie spaziali di Cina e Giappone festeggiano un Natale con regali extraterrestri. La prima consegna è avvenuta il 5 dicembre nel deserto di Woomera, in Australia, dove la nipponica Jaxa aveva ottenuto il permesso di fare atterrare la capsula contenente i campioni dell’asteroide Ryugu raccolti dalla missione Hayabusa 2 che, dopo avere sganciato il prezioso carico, ha continuato la sua corsa verso KY26, un altro asteroide. Il contenitore è stato trovato e raccolto in tutta fretta per evitare ogni tipo di contaminazione terrestre. Adesso è in Giappone dove si sono sincerati con soddisfazione che le fantasiose procedure “mordi e fuggi”, escogitate per raccogliere campioni dell’asteroide, hanno avuto successo. Un’ispezione a distanza ha rivelato la presenza di materiale che certamente ha qualcosa da raccontare a proposito delle fasi iniziali della storia del sistema solare. Una storia che non possiamo tracciare studiando le rocce terrestri perché noi viviamo su un pianeta la cui superficie è continuamente rinnovata dalla tettonica a zolle. Per trovare materiale veramente primitivo bisogna andare a grattare le comete o gli asteroidi che sono rimasti immutati dall’epoca della loro formazione e hanno una lunghissima memoria. Per il Giappone è la ripetizione in grande stile, e senza intoppi, della prima missione Hayabusa, che aveva avuto una lunga serie di problemi, riuscendo, però, in modo quasi rocambolesco a riportare a Terra, sempre in Australia, qualche granello della polvere dell’asteroide Itokawa. Quando alla Jaxa si sono sincerati che si trattasse effettivamente di materiale extraterrestre, la notizia era stata annunciata dal primo ministro. Adesso il raccolto è decisamente più abbondante, e le aspettative sono alle stelle. Grande curiosità anche per il contenuto del modulo di rientro della missione Chang’e 5, l’ultimo successo nell’avventura lunare dell’agenzia spaziale cinese, atterrata il 16 dicembre in un angolo di Mongolia. Si tratta del primo tentativo cinese di effettuare la raccolta automatica di campioni lunari, una manovra complessa che, fino ad ora, era riuscita per tre volte all’Unione Sovietica che, dal 1970 al 1976, aveva riportato a Terra 330 grammi di suolo lunare. Poca cosa rispetto ai 382 chilogrammi raccolti dagli astronauti delle missioni Apollo, ma pur sempre un successo tecnologico che il programma spaziale sovietico aveva perseguito con incredibile perseveranza incassando una sequenza di ben 6 fallimenti consecutivi prima della riuscita di Luna 16, nel settembre 1970, grossomodo 50 anni fa. Allora, il primo esempio di sample return non aveva fatto notizia perché l’attenzione del mondo era concentrata sulle missioni umane, molto più mediatiche di una sonda robotica. Senza gli astronauti a rubare la scena, oggi il successo cinese viene giustamente riconosciuto anche perché si tratta dei primi campioni lunari che arrivano a Terra dopo uno iato di 44 anni. Chang’e 5 è allunata in un punto geologicamente diverso da quelli, molto antichi, scelti dalla Nasa per le missioni Apollo. La Cina ha esplorato una regione relativamente giovane, dove si spera di trovare qualcosa di diverso rispetto ai siti degli allunaggi Apollo. I campioni, che dovrebbero essere stati raccolti da un trapano capace di scavare fino a due metri di profondità, saranno messi a disposizione degli scienziati di tutto il mondo, con la probabile eccezione di quelli americani. Dopo tutto, la legge Usa impedisce agli scienziati cinesi di ottenere i campioni raccolti dalle missioni Apollo, difficile immaginare che il favore non venga restituito. Media Inaf

Astrofisica nelle top ten di Nature

Siamo alla fine dell’anno ed è tempo di bilanci. Lo è anche per la rivista Nature, che ha pubblicato la sua top ten, sia in termini di scoperte – le 10 scoperte straordinarie del 2020 – che di immagini – le migliori immagini scientifiche del 2020. Per entrambe le categorie l’astrofisica è protagonista con due notizie, riprese anche da Media Inaf nel corso dell’anno. Ecco quali.

Violata la simmetria materia-antimateria

Il 15 aprile 2020, la collaborazione T2K (acronimo di “da Tokai a Kamioka”) ha riportato l’evidenza di una possibile violazione della simmetria CP emersa da un centinaio di eventi registrati nel corso di dieci anni di raccolta dati al Super-Kamiokande. Se la simmetria CP fosse conservata, la probabilità di conversione da neutrini muonici a neutrini elettronici sarebbe la stessa di quella da antineutrini muonici ad antineutrini elettronici. Nell’esperimento T2K, i neutrini (e gli antineutrini) – che hanno viaggiato per 295 chilometri – sono stati “contati” dal rilevatore sotterraneo dell’Osservatorio di Kamioka in Giappone, ed è stata misurata la probabilità di oscillazione della conversione da neutrini (e antineutrini) muonici a neutrini (e antineutrini) elettronici. Colti a oscillare da muonici a elettronici sono stati 90 neutrini e soltanto 15 antineutrini. Numeri diversi e quindi simmetria violata, a un livello di confidenza del 95 per cento. La scoperta potrebbe rappresentare la prima indicazione dell’origine dell’asimmetria materia-antimateria nel nostro universo. Pubblicazione di riferimento: Nature 580, 339–344 (2020).

Il lampo radio più veloce della galassia

Il 28 aprile 2020 è stato rilevato, per la prima volta, un Fast Radio Burst (Frb) di origine galattica. La scoperta è stata riportata in tre articoli pubblicati su Nature. Sorprendentemente, insieme al lampo radio sono stati rilevati anche lampi X e gamma. La scoperta è stata fatta e compresa mettendo insieme le osservazioni di più telescopi spaziali e terrestri. Il nome “raffiche radio veloci” è una buona descrizione del fenomeno: raffiche luminose di onde radio con durate su scala del millisecondo. Scoperti per la prima volta nel 2007, la loro natura di breve durata rende particolarmente difficile individuarli e determinare la loro posizione nel cielo. Questo Frb è il primo per il quale sono state rilevate emissioni diverse dalle onde radio, il primo a essere trovato nella Via Lattea e il primo a essere associato a un residuo stellare chiamato magnetar, dimostrando che le magnetar possono guidare gli Frb. Per l’occasione, Media Inaf intervistò l’attuale Presidente Marco Tavani. Pubblicazioni di riferimento: Nature 587, 54–58 (2020); Nature 587, 59–62 (2020); Nature 587, 63–65 (2020).

Sulla superficie del Sole

Questa è l’immagine del Sole con la più alta risoluzione mai scattata dalla Terra, catturata dal telescopio solare più grande del mondo, il nuovo Daniel Ken Inouye Solar Telescope (Dkist), collocato a oltre 3000 metri di quota in cima al vulcano Haleakala a Maui, nelle isole Hawaii. L’immagine mostra la superficie solare con un incredibile livello di dettaglio, a una risoluzione mai raggiunta prima. Le osservazioni rivelano un complesso motivo disegnato dal plasma “in ebollizione” che ricopre l’intera fotosfera. Le componenti elementari di questo schema ripetuto sono celle convettive, ciascuna di dimensioni di circa 1000 chilometri, prodotte dai violenti moti di plasma che trasportano energia dall’interno del Sole alla sua superficie. Il plasma caldo sale al centro di queste celle, chiamate granuli, raffreddandosi ed espandendosi durante la risalita, per poi ridiscendere verso l’interno in “corridoi” di plasma più freddi posizionati al bordo dei granuli, dove appaiono meno luminosi a causa della temperatura più bassa.

Il cielo sfregiato

Le scie luminose dei satelliti in movimento solcano questa fotografia di una stella. Diverse aziende stanno lanciando migliaia di satelliti in orbita per fornire alle persone di tutto il mondo l’accesso a Internet. Se da una parte questo sembra essere un beneficio per l’umanità, gli scienziati che studiano il cielo si stanno preoccupando per come la luce solare riflessa dai satelliti interferirà con le osservazioni. Media Inaf ha scritto diversi approfondimenti in merito. Media Inaf

Captato un segnale radio da Proxima Centauri

Un segnale radio anomalo è stato captato dagli astronomi del Breakthrough Listen Project con il radiotelescopio Parkes,che si trova in Australia. Proviene dalla direzione della la stella più vicina al Sole, Proxima Centauri, distante 4,2 anni luce, ed è stato individuato analizzado i dati raccolti nel 2019. La notizia, diffusa dalla stampa britannica, è stata considerata con cautela dal Seti (Search for Extraterrestrial Intelligence, che sul suo sito osserva che le possibili sorgenti del segnale possono essere diverse. Il segnale, con una frequenza di emissione di 982 megahertz, non sembra provenire da un’antenna terrestre, potrebbe infatti provenire da un satellite in orbita. Ce ne sono oltre 2700 satelliti in funzione intorno al nostro pianeta. Ma se non fosse il segnale di un satellite, cos’altro potrebbe essere? Il Seti spiega che è possibile che provenga da qualcosa che si trova dietro Proxima Centauri. Se non arrivasse da Proxima Centauri, potrebbe essere qualcos’altro che si trova molto oltre. I segnali radio naturali, prodotti da quasar o pulsar, non sono a banda stretta e non sono confinati a una ristretta gamma di frequenze, come invece sembra essere questo segnale. “I segnali astronomici naturali – spiega all’ANSA Marta Burgay, ricercatrice dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) – di solito sono su frequenze multiple in modo continuativo, non su una sola come in questo caso. Tuttavia noi terrestri emettiamo continuamente onde radio con queste caratteristiche”. Basti ricordare che pochi anni fa, sempre dallo stesso telescopio, era stato colto un segnale radio che poi si è scoperto essere stato prodotto dal forno a micronde del centro visitatori della struttura. Un’altra ipotesi è che si tratti di segnali radio naturali emessi da un pianeta con un forte campo magnetico, come quello di Giove. “Ci sono molte possibili spiegazioni, ma fin quando non sapremo – conclude il Seti – dovremo continuare a considerare anche l’ipotesi aliena tra le possibilità”. ANSA

Negli antichi cieli di Babilonia

Ho trovato sullo splendido sito del Galassiere una vera e propria “perla”. Come sappiamo questo è il mese della tanto attesa congiunzione Giove Saturno,  evento molto raro che capita ogni 400 anni circa. Per chi ama le curiosità storiche il Galassiere  propone una visione suggestiva. Immaginiamo di trovarci nell’antica Babilonia il 26 marzo 185 a.C. e di guardare verso est alla mattina poco prima dell’alba. Ciò che avremmo visto è sunteggiato nell’ immagine ricostruita col programma Perseus: i cinque pianeti visibili a occhio nudo entro soli 7 gradi di distanza (meno di un pugno tenuto col braccio teso) nella costellazione dei Pesci. In ordine decrescente di luminosità avremmo avuto: Venere (magnitudo -3.8), Giove (-2), Mercurio (+0.2), Saturno (+1) e Marte (+1.2). Questo sì che sarebbe stato un bello spettacolo! Tratto da Il Galassiere

Ritratto del blazar più lontano che c’è

La luce di questa galassia lontanissima ed energetica risale a quando l’universo aveva meno di un miliardo di anni

Il blazar più distante mai osservato si trova a circa 12,8 miliardi di anni luce dalla Terra: osservato da un gruppo di ricercatrici e ricercatori italiani tra aprile e maggio 2020, è stato classificato con la sigla Pso J030947.49 + 271757.31. Ora, grazie al Very Long Baseline Array (Vlba) della National Science Foundation statunitense, abbiamo anche una sua “fotografia” ad alta definizione: a scattarla, un team guidato da Cristiana Spingola, astrofisica dell’Università di Bologna e associata Inaf, prima autrice dello studio pubblicato il mese scorso su Astronomy & Astrophysics. I blazar sono fra le sorgenti del cielo più intensamente variabili.  In particolare, questo è in una galassia che fa parte di una particolare sottoclasse dei nuclei galattici attivi (in inglese active galactic nuclei o Agn): i radio-loud Agn, potentissime sorgenti di segnali radio alimentate dal buco nero supermassiccio ospitato nel loro centro, espellono immensi e potenti getti di materia a velocità vicine a quella della luce. Pso J0309+27  è anche il radio-blazar più luminoso mai studiato finora a questa distanza. «È sorprendente che nelle ultime osservazioni radio questo candidato blazar mostri delle caratteristiche fuori dal comune. Infatti, il profilo dello spettro radio e l’aspetto core-jet delle osservazioni Vlba non fanno presumere un’orientazione del getto particolarmente allineata con la linea di vista, a differenza di quanto si potrebbe ipotizzare in base alla sua emissione nei raggi X», spiega Daniele Dallacasa, anch’egli astrofisico all’Università di Bologna e associato all’Inaf Ira di Bologna, secondo autore dello studio su A&A. «Potremmo avere colto una giovane sorgente dove si è insediato stabilmente il processo responsabile dell’emissione X, mentre è ancora in fase di avvio quello responsabile della radio emissione. In alternativa la sorgente potrebbe essere caratterizzata da un getto che trasporta plasma magnetizzato relativistico più lentamente di quanto avvenga in oggetti più vicini a noi». La radiazione che dal blazar arriva ai telescopi terrestri risale a quando l’universo aveva meno di un miliardo di anni, ovvero circa il 7 per cento della sua età attuale. Dall’immagine si evince che l’emissione radio più brillante proviene dal nucleo della galassia, in basso a destra: il getto, alimentato dalla forza di gravità di un buco nero supermassiccio al centro, si sposta verso l’angolo superiore sinistro. Il getto si estende per circa 1600 anni luce. Media Inaf

Il primo esopianeta da ascoltare in radio

Il radiotelescopio europeo Low Frequency Array (Lofar), la più estesa rete per osservazioni radioastronomiche in bassa frequenza al mondo attualmente operativa, ha rilevato quella che potrebbe essere la prima emissione radio captata da un pianeta oltre il Sistema solare. In corso di pubblicazione sulla rivista Astronomy & Astrophysics, i dati sono stati raccolti da un team guidato dalla Cornell University (Usa) e riguardano il sistema Tau Boötes, distante circa 51 anni luce in direzione della costellazione di Boote, che ospita una stella binaria e un esopianeta di tipo gioviano caldo (un pianeta gigante e gassoso molto vicino al suo sole). Sfruttando la potenza delle antenne dell’array LoFar (25mila raggruppate in 51 stazioni distribuite al momento in 7 stati europei), Jake D. Turner (Cornell University) e colleghi hanno osservato anche altri potenziali candidati per le emissioni radio da esopianeti nei sistemi 55 Cancri (nella costellazione del Cancro) e Upsilon Andromedae. Tuttavia solo il sistema Tau Boötes ha mostrato una significativa firma radio che apre una finestra unica nel suo genere sul campo magnetico del pianeta. Dopo aver esaminato più di 100 ore di osservazioni radio, i ricercatori sono stati in grado di trovare la firma di un gioviano caldo prevista nel sistema Tau Boötes. «Abbiamo imparato dal nostro Giove che aspetto ha questo tipo di rilevamento. Siamo andati a cercarlo e lo abbiamo trovato», dice Turner, primo autore dello studio. L’esopianeta protagonista della survey è Tau Boötes Ab, scoperto nel 1996 attorno alla stella Tau Boötis A, con una massa pari a 7-8 volte quella di Giove.

Tempesta sorprendente nel cielo di Nettuno

Il telescopio spaziale Hubble ha osservato un misterioso vortice su Nettuno allontanarsi improvvisamente dalla sua probabile morte in prossimità dell’equatore del gigantesco pianeta blu. La tempesta in questione, che è più ampia dell’Oceano Atlantico, è nata nell’emisfero settentrionale del pianeta ed è stata scoperta da Hubble nel settembre 2018. Un anno dopo, nuove osservazioni hanno mostrato come abbia iniziato a spostarsi in direzione sud, verso l’equatore, dove si prevedeva sarebbe svanita alla vista, dissolvendosi. Con grande sorpresa però, Hubble ha visto che il vortice ha cambiato direzione prima dello scorso agosto, dirigendosi nuovamente a nord. Sebbene negli ultimi 30 anni il telescopio spaziale abbia osservato simili macchie scure, questo comportamento atmosferico imprevedibile è stato qualcosa di assolutamente sorprendente.

La Grande tempesta

Altrettanto sorprendente è stato osservare che la tempesta non era sola. Nel gennaio di quest’anno, Hubble ha infatti individuato un’altra macchia scura più piccola che è apparsa temporaneamente vicino alla più grande. Potrebbe essersi trattato di una parte del gigantesco vortice che si è ”staccata” dalla principale, andando alla deriva per poi scomparire nelle successive osservazioni. Non era mai stato osservato un fenomeno simile, sebbene previsto dalle simulazioni. La grande tempesta – che ha un diametro di 7400 chilometri – è la quarta macchia scura che Hubble ha osservato su Nettuno dal 1993. Altre due tempeste sono state scoperte dalla sonda Voyager 2 nel 1989 mentre volava vicino al lontano pianeta, ma erano già scomparse prima che Hubble potesse osservarle. Da allora, solo Hubble ha avuto la risoluzione e la sensibilità, nella luce visibile, per seguire queste caratteristiche sfuggenti, che sono apparse in sequenza e poi sono svanite, per una durata di circa due anni ciascuna. I vortici scuri di Nettuno sono sistemi ad alta pressione che possono formarsi alle medie latitudini e migrare verso l’equatore. Iniziano rimanendo stabili a causa della forza di Coriolis, che fa ruotare in senso orario le tempeste dell’emisfero settentrionale, per via della rotazione del pianeta. Da notare che queste tempeste sono diverse dagli uragani sulla Terra, che ruotano in senso antiorario perché sono sistemi a bassa pressione. Tuttavia, quando una tempesta si sposta verso l’equatore, l’effetto Coriolis si indebolisce e la tempesta si dissolve. Questo comportamento è stato confermato da varie simulazioni al computer effettuate da diversi team ma, a differenza delle simulazioni, l’ultima tempesta gigante non è migrata nella “kill zone” equatoriale.

Le osservazioni di Hubble

Le osservazioni di Hubble hanno anche rivelato che l’inversione del percorso del vortice si è verificata nello stesso momento in cui è apparsa una nuova macchia scura più piccola – di circa 6300 chilometri di diametro –in prossimità del lato della macchia principale che si affaccia verso l’equatore, in una zona nella quale alcune simulazioni mostrano che si sarebbe verificato un disturbo. Tuttavia, i tempi di comparsa della macchia più piccola sono strani. «Quando ho visto per la prima volta la macchia più piccola, ho pensato che quella più grande fosse stata distrutta», riferisce Michael H. Wong dell’Università di Berkeley. «Non pensavo si stesse formando un altro vortice perché quello piccolo è più lontano, verso l’equatore, all’interno di questa regione di instabilità. Tuttavia non possiamo provare che i due vortici siano collegati. Rimane un completo mistero. È stato nel mese di gennaio che il vortice scuro ha interrotto il suo movimento e ha iniziato a muoversi di nuovo verso nord», aggiunge Wong. «Forse, spargere quel frammento è stato sufficiente a impedirgli di spostarsi verso l’equatore». I ricercatori stanno continuando ad analizzare ulteriori dati per capire se resti della macchia più piccola sono persistiti per il resto del 2020.

Il modo in cui queste tempeste si formano è ancora un mistero, ma quest’ultimo gigantesco vortice è sicuramente il meglio studiato finora. L’aspetto “scuro” della tempesta potrebbe essere dovuto a un denso strato di nubi scure e potrebbe indicare agli astronomi una struttura verticale della tempesta. Un’altra caratteristica insolita della macchia scura è l’assenza di nubi luminose attorno a essa, che erano invece presenti nelle immagini di Hubble scattate quando il vortice è stato scoperto nel 2018. Apparentemente, le nubi sono scomparse quando il vortice ha interrotto il suo viaggio verso sud. Le nubi luminose si formano quando il flusso d’aria viene perturbato e deviato verso l’alto sopra il vortice, causando il probabile congelamento dei gas in cristalli di ghiaccio di metano. Secondo i ricercatori, la mancanza di nubi potrebbe rivelare informazioni su come si evolvono le macchie. Hubble ha scattato molte delle immagini delle macchie scure nell’ambito del programma Outer Planet Atmospheres Legacy (Opal), un progetto a lungo termine guidato da Amy Simon del Goddard Space Flight Center della Nasa a Greenbelt, nel Maryland, che acquisisce ogni anno mappe globali dei pianeti esterni del nostro Sistema solare, quando si trovano nei punti delle loro orbite più vicini alla Terra. Gli obiettivi principali di Opal sono studiare i cambiamenti stagionali a lungo termine, nonché catturare eventi relativamente transitori, come la comparsa di macchie scure su Nettuno o su Urano. Queste tempeste potrebbero essere così fugaci che in passato alcune di esse potrebbero essere apparse e svanite durante gli intervalli pluriennali nelle osservazioni di Nettuno da parte di Hubble. Il programma Opal assicura che gli astronomi non ne perdano altre, garantendo più continuità nelle osservazioni. Media Inaf

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