Cieli stellati nell’arte: da Nefertari a Van Gogh

Starry starry night… cantava Don McLean negli anni Settanta. Lui si riferiva ai cieli stellati di Van Gogh, ma potrebbe essere dedicata a tutti i cieli notturni della storia dell’arte. Sì perché l’idea di rappresentare un cielo trapunto di stelle (magari proprio su un soffitto, in modo da simulare la volta celeste) risale alla notte dei tempi… Una delle testimonianze più antiche, infatti, si può trovare nella tomba della regina Nefertari (1295-1255 a.C.), moglie del faraone egizio Ramses II, presso la Valle delle Regine. Si tratta di una struttura ipogea ricoperta da più di 3500 mq di dipinti che illustrano il viaggio nell’aldilà della bella Nefertari. Tutto il soffitto è un intero cielo stellato di un intenso blu scuro. Il significato di questa rappresentazione è collegato all’idea della morte come sonno eterno e quindi come notte, luogo e tempo in cui vivono i morti. Per gli Egizi, infatti, la notte è una presenza molto importante, è una divinità (la dea del cielo Nut) che si alterna al giorno in una lotta continua tra luce e tenebre. Per simboleggiare la notte, Nut è rappresentata come un arco che copre la terra nell’atto di inghiottire il Sole al tramonto per poi partorirlo all’alba.  Un particolare curioso dei dipinti egizi è che le stelle sono sempre a cinque punte. Si tratta di un aspetto molto affascinante in quanto questo tipo di stella (definita anche pentagramma o stella pitagorica e associata a dottrine esoteriche) è una figura geometrica con proprietà molto particolari in quanto costruita sulla base della sezione aurea, una proporzione definita “divina” nel Rinascimento e conosciuta già presso gli Egizi. Queste distese di stelle, generalmente, non hanno riferimenti astronomici ma in alcuni casi gli astri sono raffigurati in modo tale da far pensare a delle vere e proprie mappe stellari… E proprio una mappa stellare è forse la rappresentazione più antica in assoluto di un cielo notturno. Mi riferisco a quel manufatto noto come Disco di Nebra, rinvenuto in Germania quindici anni fa e risalente al 1.600 a.C. Al di là del significato astronomico, da poco decifrato, è comunque da ammirare la qualità artistica del pezzo: una piastra in bronzo di 32 cm di diametro con applicazioni in lamina d’oro essenziali ma precise, di una modernità incredibile! Nel corso dell’arte classica è difficile trovare grandi esempi di cieli stellati. Qualche frammento fittile di epoca greca mostra il Dio Eosforo che porta la luce del mattino accompagnato da qualche sporadica stella (raffigurata in questo caso con sedici raggi). Per ritrovare delle grandi volte ricoperte di stelle dobbiamo fare un bel salto temporale fino all’arte bizantina (V secolo d.C.) ed esplorare quel piccolo gioiello dell’arte musiva che è il Mausoleo di Galla Placidia a Ravenna. La cupola è interamente coperta da 570 stelle dorate disposte in cerchi concentrici e culminanti con la croce di Cristo. La diminuzione delle dimensioni delle stelle centrali crea quasi un effetto di sfondamento prospettico e dà l’idea, fisica e spirituale, di uno spazio infinito. Dopo questo esempio facciamo un altro volo di circa novecento anni per ritrovarci a Padova, in un altro scrigno pieno di colore e bellezza. È la Cappella degli Scrovegni, affrescata da Giotto intorno al 1300 con scene tratte dall’Antico e dal Nuovo Testamento. Qui la volta a botte è interamente dipinta di blu oltremare, colore associato allasapienza divina e ottenuto con preziosa polvere di lapislazzuli e azzurrite, mentre le stelle dorate ad otto punte sono leggermente in rilievo rispetto alla superficie della volta. Quello degli Scrovegni non è un caso isolato. Nel basso Medioevo, infatti, sono molte le chiese con volte dipinte a cielo stellato (basta ricordare le crociere della Basilica superiore di San Francesco ad Assisi, o quelle della cattedrale di Siena o del Duomo di San Gimignano). Nello stresso periodo si possono trovare esempi anche fuori dall’Italia, come nella tardogotica cappella di San Biagio nella Cattedrale di Toledo… … o nella coeva chiesa di Santa Maria a Cracovia.  Della fine del Quattrocento è la testimonianza di un altro cielo stellato sulla volta di una cappella. Ma la notizia, stavolta, è quella della sua scomparsa… mi riferisco all’affresco di Piermatteo d’Amelia che ricopriva il soffitto della Sistina prima dell’intervento di Michelangelo. Ebbene sì, un immenso cielo stellato avvolgeva lo spazio della cappella, come dimostrano disegni e incisioni dell’epoca, ma della sua scomparsa ad opera del Buonarroti ce ne siamo fatti un ragione… Pochi anni dopo, nella prima metà del Cinquecento, il Ferramola affrescherà un cielo stellato culminante nell’immagine di Dio sulla volta del romanico Oratorio di Santa Maria in Solario a Brescia. Tuttavia oggi questo spazio è noto soprattutto per la cosiddetta Croce di re Desiderio che vi è conservata. Degli stessi anni è un altro splendido soffitto stellato posto a copertura della Cappella Reale di Hampton Court, uno dei palazzi reali eretti da Enrico VIII in Inghilterra.  Secondo lo stile dell’epoca si tratta di una complessa copertura gotica con chiavi pendule e nervature dorate. Dal Seicento in poi questi mistici cieli stellati non saranno più presenti nelle volte per lasciar spazio ad affreschi e stucchi barocchi. Li ritroveremo, così, in ambiti diversi. Nella scenografia teatrale, ad esempio, è celebre il grande fondale del “Salone delle stelle nel palazzo della Regina della Notte” realizzato da Karl Friedrich Schinkel nel 1815 per il Flauto Magico di Mozart. Ma sicuramente il cielo stellato più famoso dell’arte è quello di Van Gogh del 1889. Secondo le informazioni fornite dall’artista stesso, la scena sarebbe riferita all’alba del 19 giugno (ma per la fase della Luna sarebbe invece il 23 maggio) quando il pittore poteva vedere all’orizzonte la luminosa “stella del mattino” cioè Venere (l’astro più in basso con un grande alone bianco). La tela fu dipinta durante il soggiorno di Van Gogh all’ospedale Saint-Rémy. Qui l’artista restò sveglio per tre notti ad osservare la campagna che vedeva dalla sua finestra: silenziosa, maestosa, con quel grande cielo che la sovrastava. Un’immagine cosmica reinterpretata in chiave espressionista. C’è una bella opera digitale di Alex Ruiz che mostra ciò che Van Gogh avrebbe potuto vedere prima di dipingere il suo capolavoro. E poi c’è un bel video in cui le pennellate che si arrotolano attorno alle stelle cominciano a ruotare e a rispondere al tocco di una mano! Ma questa non è l’unica notte stellata di Van Gogh. Già poco prima aveva dipinto“Notte stellata sul Rodano”, un’immagine forse meno spettacolare ma con ungioco di riflessi delle luci artificiali sul fiume che rende tutto vibrante e vitale. In questo caso si può riconoscere in cielo la costellazione dell’Orsa Maggiore a riprova del contatto intimo che l’artista aveva con la realtà e con la natura. Dello stesso anno sono altri due dipinti nei quali fa capolino uno scorcio di cielo stellato (Caffè di notte e Strada con cipresso e stella) a dimostrare il fascino e la magia che questo soggetto gli ispirava. Dopo le esperienze di Van Gogh nessun cielo stellato avrà la stessa potenza evocativa. Troviamo le geometriche costellazioni di Picasso, quelle colorate e giocose di Mirò e una scura notte stellata in cui vola l’Icaro di Matisse, ma il senso di stupore e di dolcezza delle stelle di Van Gogh mi sembra insuperabile. Oggi abbiamo perso quella capacità di meravigliarci davanti ad un cielo stellato perché non siamo più abituati ad alzare lo sguardo e cercare un contatto con l’universo (e la sovra illuminazione delle nostre città non aiuta). Eppure la visione di quello straordinario tappeto di luci (e chi ha visto la via Latteacoi suoi occhi può capirmi)  andrebbe assolutamente preservata così come quella conoscenza diffusa dell’astronomia che per millenni ha connesso l’uomo al cosmo. Per proteggere la cultura e la bellezza della notte stellata molti hanno chiesto all’Unesco di dichiarare il cielo notturno patrimonio dell’umanità ma per questioni tecniche ciò non è mai avvenuto (e qui l’ente spiega le motivazioni). Ma forse ci basterebbe insegnare ai ragazzi a ritrovare un contatto fisico con la natura, cielo o terra che sia.
BY DIDATTICARTE · 26 FEBBRAIO 2014 http://www.didatticarte.it/Blog/

Plutone: facciamo il punto

L’impresa è entrata nella storia dell’esplorazione del Sistema Solare. 14 luglio 2015: la sonda NASA New Horizons sfiora Plutone – un flyby a 13.691 km dal centro del pianeta nano – e raccoglie dati per 50 gigabit. Dall’analisi preliminare di questi risultati, pubblicata su Science e di cui abbiamo scritto anche noi di MediaINAF, la conferma di un corpo celeste vario e colorato, circondato da cinque lune. Oggi è il momento di fare il punto su Plutone. Scoperto nel 1930 e da sempre considerato un’anomalia nel Sistema Solare. Anomalia, si potrebbe dire, diffusa a tutta la fascia di Kuiperscoperta nel 1992 e che, là oltre l’orbita di Nettuno, fa di Plutone il più grande di una nuova classe di piccoli pianeti formatisi nel Sistema Solare esterno durante il periodo di accrescimento planetario, circa 4,5 miliardi di anni fa. Cosa è cambiato dopo  il passaggio di New Horizons? La sonda NASA, con il suo carico di sofisticati strumenti scientifici, dalla Multispectral Visible Imaging Camera (MVIC) dello strumento Ralph che ci ha permesso di guardare nella geologia del pianeta,  al Long-Range Reconnaissance Imager (LORRI) che tante immagini mozzafiato ci ha regalato nella lunga sequenza di avvicinamento a Plutone, ci ha permesso di scoprire come la superficie di Plutone mostri una grande varietà di morfologie del terreno frutto di differenti ere geologiche. Un discorso, quello della varietà, che vale per l’albedo, il colore, e la variazione della composizione del suolo. L’analisi della variabilità dei crateri suggerisce che Plutone sia stato geologicamente attivo nell’arco delle ultime centinaia di milioni di anni, e che probabilmente lo sia tutt’ora. Le analisi cromatiche rivelano invece una vasta gamma di colori presente sulla superficie, dalle regioni rossastre e più scure della fascia equatoriale alle brillanti tonalità bluastre che si riscontrano salendo verso i poli. I dati raccolti suggeriscono, inoltre, la presenza di più varietà di ghiacci volatili, e in particolare, nella regione occidentale della macchia a forma di cuore, di metano e monossido di carbonio. Senza contare il ruolo giocato dal normale ghiaccio d’acqua, un nuovo elemento da prendere in considerazione se si vuole provare a ricostruire la complessa composizione della superficie di Plutone.  L’atmosfera? Spessa, con tracce di idrocarburi, genera una pressione al suolo pari a 10 microbars. Caronte, la luna maggiore di Plutone, si differenzia per massa di roccia dal pianeta di cui è satellite per una percentuale inferiore al 10%, il che suggerisce una non sostanziale differenza fra i due corpi, almeno per quanto concerne la composizione. Plutone e Caronte, che gli scienziati ritengono essersi formati dallo stesso blocco di materia, spezzata da una collisione cosmica miliardi di anni fa, non sembrano ancora poter confermare uno stretto legame di parentela: due estranei, così li ha definiti NASA presentando una delle prime immagini raccolte da New Horizons (vedi MediaINAF). Ma quello che sappiamo con certezza non è poco: Plutone mostra  una sorprendente varietà di costruzioni geologiche, dove agisce l’effetto di ghiacci, crateri da impatto, movimenti tettonici, possibilità di attività criovulcanica. Anche gli altri piccoli pianeti della fascia di Kuiper potrebbero nascondere un turbolento passato simile. La domanda che resta aperta è: come possono questi corpi essere rimasti tanto attivi a miliardi di anni dalla loro formazione?
di Davide Coero Borga (INAF)

La composizione chimica dello spazio

Tutti gli elementi chimici che sono più pesanti del carbonio, come l’ossigeno che respiriamo o il silicio presente nella sabbia, sono stati prodotti nelle stelle attraverso processi di fusione nucleare e poi diffusi nello spazio a seguito delle esplosioni stellari. Studiare, quindi, la composizione chimica dell’Universo permette agli scienziati di ricostruire la storia di come, dove e quando sono stati prodotti i vari elementi così necessari per l’evoluzione della vita. I risultati di questo studio sono riportati su Astrophysical Journal Letters. In generale, sappiamo che ci sono due modi per cui si ha una supernova e la proporzione degli elementi chimici prodotti dipende dal tipo di esplosione stellare. Gli elementi più leggeri, come l’ossigeno o il magnesio, si origininano principalmente dalle esplosioni di stelle molto massive, più di 10 volte la dimensione del Sole, che si trovano verso gli stadi finali del loro ciclo vitale. Questi oggetti vengono chiamati “supernovae a collasso nucleare”. Di solito, la fase finale delle stelle più piccole è una nana bianca di cui una parte può esplodere come “supernova termonucleare” o di “tipo Ia” se essa accresce successivamente materia da una stella compagna che rende instabile la nana bianca alla propria gravità. Gli atomi più pesanti, come il ferro e il nichel, derivano sostanzialmente da quest’ultimo tipo di esplosione stellare. Ad esempio, per formare la composizione chimica del nostro sistema planetario bisogna richiedere una miscela di esplosioni stellari con un rapporto 1:5 tra supernovae di tipo Ia e a collasso nucleare, rispettivamente. La ricercatrice Aurora Simionescu del Japan Aerospace Exploration Agency (JAXA) e autrice principale dello studio si è domandata se la composizione chimica media dell’Universo è simile, o meno, a quella del Sistema Solare o se il nostro ambiente cosmico è invece un luogo davvero speciale. In realtà, e forse in maniera non intuitiva, la miglior risposta a questa domanda non è da cercarsi nelle stelle piuttosto nello spazio intergalattico. Questo perchè la maggior parte della materia ordinaria, e quindi anche gran parte dei metalli, non sono al momento contenuti nelle stelle ma sono presenti in un gas molto caldo e diffuso che permea lo spazio tra le galassie e la sua temperatura è tale che emana luce in banda X. Infatti, i raggi X più energetici si osservano negli ammassi di galassie, cioè quegli ambienti cosmici dove le galassie sono raggruppate vicine tra loro.“Ho trovato questa idea affascinante sin dal mio primo anno di dottorato di ricerca”, spiega Simionescu. “Passare ai raggi X il contenuto chimico del nostro Universo. Tornando indietro nel tempo, a circa dieci anni fa, era complicato ottenere delle misure attendibili dell’abbondanza dei metalli tranne per le zone più brillanti e più dense del mezzo intergalattico a causa della scarsa presenza di fotoni X e di un elevato rumore di fondo. Perciò potevamo solamente esplorare approssimativamente il contenuto chimico pari a un millesimo del volume occupato tipicamente da un ammasso di galassie”. Per affrontare il problema, il satellite dell’agenzia giapponese JAXA ASTRO E-II “Suzaku” ha dedicato una grande quantità di tempo osservativo a raccogliere dati nel corso di diverse settimane. Le prime osservazioni profonde dedicate a questo studio sono state realizzate sull’ammasso di Perseo, il sistema di galassie più brillante, che ha permesso agli astronomi di ottenere misure alquanto dettagliate dell’abbondanza di ferro presente nello spazio su larga scala all’interno dell’ammasso. Tuttavia, l’informazione relativa agli elementi chimici prodotti principalmente dalle supernovae a collasso nucleare era ancora assente. Per ottenere queste misure, sono state necessarie una serie di osservazioni di un ammasso di galassie che presenta una temperatura media più bassa, in modo che l’emissione degli elementi più leggeri sia in confronto più forte rispetto all’ammasso di Perseo. Perciò, per circa due settimane il satellite Suzaku venne puntato verso l’ammasso della Vergine, che è il gruppo di galassie più vicino e il secondo più brillante nel cielo X la cui temperatura è favorevolmente bassa. Avendo perciò a disposizione questo nuovo insieme di dati, Simionescu e colleghi sono stati in grado di rivelare non solo il ferro ma per la prima volta anche il magnesio, il silicio e lo zolfo tutti verso le regioni periferiche dell’ammasso di galassie. “Ciò che abbiamo trovato è che i rapporti tra le abbondanze di ferro, silicio, zolfo e magnesio sono costanti ovunque nell’intero volume dell’ammasso della Vergine e sono consistenti con la composizione chimica del Sole e della maggior parte delle stelle presenti nella nostra galassia”, spiega Norbert Werner della Stanford University e co-autore dell’articolo. Gli ammassi di galassie coprono un grande volume di spazio che il contenuto di una struttura di questo tipo si può considerare rappresentativo di tutto il resto dell’Universo. In altre parole, i risultati di Suzaku significano che gli elementi chimici nello spazio cosmico sono combinati in modo tale che la composizione chimica rimane mediamente la stessa su tutte le scale a partire dal raggio solare (centinaia di migliaia di chilometri) fino alle dimensioni di un ammasso di galassie (diversi milioni di anni luce). Anche se potrebbero esistere ancora alcuni luoghi speciali nell’Universo caratterizzati da una composizione chimica differente, in media la maggior parte dello spazio cosmico ha una composizione chimica simile a quella del nostro ambiente locale, cioè la stessa “zuppa di elementi” che è necessaria per la vita ovunque si guardi. “Il satellite Suzaku”, conclude Steven Allen della Stanford University e co-autore dello studio, “ha aperto una nuova finestra nell’Universo e ci ha mostrato che ovunque si guardi nello spazio, su vaste scale cosmiche, la miscela di elementi chimici è essenzialmente la stessa. È un risultato semplicemente bello e rappresenta un ulteriore passo in avanti verso la comprensione di come ha avuto origine il nostro Universo”.
di Corrado Ruscica (INAF)

Il Sacco di Carbone sta per andare a fuoco

Chiazze scure cancellano quasi completamente le stelle da un pezzetto di cielo, in questa immagine catturata dalla camera WFI (Wide Field Imager), installata sul telescopio da 2,2 metri dell’MPG/ESO all’Osservatorio dell’ESO di La Silla in Cile. Le zone nere come l’inchiostro fanno parte di un’enorme nebulosa oscura nota come il Sacco di Carbone, uno degli oggetti di questo tipo più facilmente visibili a occhio nudo. Tra milioni di anni, alcuni brandelli della Nebulosa si accenderanno, un po’ come l’omonimo combustibile fossile, grazie al bagliore di molte giovani stelle. La nebulosa Sacco di Carbone si trova a circa 600 anni luce dalla Terra, nella costellazione della Croce del Sud. Questo enorme oggetto cupo si staglia chiaramente contro la fascia stellata della Via Lattea e per questo motivo la nebulosa è ben nota agli abitanti dell’emisfero meridionale fin dai primordi dell’umanità. L’esploratore spagnolo Vicente Yáñez Pinzón riportò per primo in Europa nel 1499 la notizia dell’esistenza della Nebulosa Sacco di Carbone, che successivamente prese il soprannome di Nebulosa Oscura di Magellano, un gioco di parole sul suo aspetto scuro rispetto alle due Nubi di Magellano, che sono in realtà piccole galassie satelliti della Via Lattea. Le due galassie luminose sono chiaramente visibili nel cielo australe e furono rese note agli europei durante l’esplorazione di Ferdinando Magellano nel sedicesimo secolo. Invece la Sacco di Carbone non è una galassia. Come le altre nebulose oscure è una nube di polvere interstellare così fitta da impedire alla maggior parte della luce stellare di fondo di raggiungerci. Molte delle particelle di polvere delle nebulose oscure sono ricoperte da strati ghiacciati di acqua, azoto, monossido di carbonio e altre semplici molecole organiche. I grani che ne risultano impediscono alla luce di attraversare la nube cosmica. Per capire quanto sia veramente scura la Sacco di Carbone, l’astronomo finlandese Kalevi Mattila pubblicò, intorno al 1970, uno studio che stima che la sua luminosità è solo il 10% della zona di Via Lattea che la circonda. Un po’ di luce del fondo riesce comunque a passare attraverso la nebulosa, come si vede nella recente immagine dell’ESO e in altre osservazioni effettuate con i moderni telescopi. La poca luce che riesce a passare non arriva inalterata. La luce che vediamo in quest’immagine appare più rossa di quanto sarebbe normalmente. Ciò accade perché la polvere nelle nebulose oscure assorbe e diffonde la luce blu delle stelle più di quanto faccia con la loro luce rossa, colorando di tinte cremisi le stelle. Tra milioni di anni i giorni oscuri della Nebulosa Sacco di Carbone finiranno. Le nebulose interstellari dense come la Sacco di Carbone contengono molta polvere e gas – il carburante per nuove stelle. Quando i vari pezzi di materiale disperso nella Nebulosa Sacco di Carbone si saranno uniti a causa della reciproca attrazione gravitazionale, le stelle si accenderanno e i pezzetti di carbone della Nebulosa bruceranno, quasi come se fossero sfiorati da una fiamma.
Redazione Media Inaf

L’accrescimento è uguale per tutti

Gli oggetti celesti che compongono l’Universo, a partire dalle protostelle per arrivare fino ai buchi neri supermassicci, possono accumulare materia e diventare più massicci sfruttando lo stesso processo di accrescimento, stando a quanto indica uno studio pubblicato su Science Advances. L’accrescimento porta solitamente alla formazione di un disco in rotazione, che trasporta lentamente il materiale verso l’interno, ma il processo attraverso cui questo avviene non è del tutto chiaro. Anche se una serie di studi hanno accennato in passato a similitudini tra diversi sistemi di accrescimento, rimane poco chiaro se i meccanismi  funzionino allo stesso modo per diverse tipologie di corpi astrofisici. Una prova schiacciante del fatto che si sta osservando un processo di accrescimento è la luminosità generata dal disco di materiale in rotazione. Le variazioni di luminosità producono curve di luce che possono essere rilevate in nuclei galattici attivi,  buchi neri di massa stellare, e nane bianche in accrescimento.Utilizzando i dati dalla missione Kepler – K2 e Ultracam –  della NASA e la letteratura esistente, Simone Scaringi insieme a un gruppo internazionale di ricercatori ha mostrato che le variazioni di luminosità in molti dischi di accrescimento possono essere spiegate da una legge che dipende dal raggio del disco interno, e non la massa del corpo in accrescimento, come invece si pensava fino ad ora.
I risultati suggeriscono che la fisica dell’accrescimento può essere considerata universale, indipendentemente dalla massa, le dimensioni, o il tipo di oggetto celeste in accrescimento. Forniscono quindi la base per lo sviluppo di un modello fisico universale per l’accrescimento in astrofisica.
di Elisa Nichelli (INAF)

Cielo blu, ghiaccio rosso … sotto la fosca atmosfera di Plutone

Le prime immagini a colori della nebbie atmosferiche di Plutone rivelano un’aureola blu attorno al pianeta, che, seppur nano, sta facendo un figura da gigante con le immagini che dal luglio scorso vengono restituite con il contagocce dalla sonda New Horizons della NASA.
L’immagine a fianco, è frutto di diverse riprese effettuate con la Multispectral Visible Imaging Camera (MVIC) dello strumento Ralph a bordo di New Horizons, arrivate a Terra la scorsa settimana ed elaborate da un software che combina le informazioni dalle immagini ottenute nelle lunghezze d’onda del blu, rosso e vicino infrarosso, per replicare il più fedelmente possibile il colore originale come visto da un occhio umano.
«Chi si sarebbe aspettato un cielo blu nella Fascia di Kuiper? E’ magnifica», ha detto commentando la nuova immagine Alan Stern, il responsabile scientifico di New Horizons del Southwest Research Institute (SwRI) di Boulder, in Colorado.
Gli scienziati ritengono che questa foschia ad alta quota sia di natura simile a quella osservata su Titano, una luna di Saturno, e le particelle che la compongono siano presumibilmente di colore grigio o rossastro. Il colore blu è da attribuire al modo in cui tali particelle disperdono la luce solare.
«Quella tinta blu intensa ci racconta indirettamente la dimensione e la composizione delle particelle di foschia», ha detto Carly Howett del SwRI, ricercatrice del team New Horizons. «Un cielo blu è spesso il risultato della diffusione della luce solare da parte di particelle molto piccole. Sulla Terra, queste particelle sono minuscole molecole di azoto. Su Plutone sembrano essere particelle – più grandi, ma ancora relativamente piccole – simili alla fuliggine, che noi chiamiamo toline».
Le toline si formano nell’alta atmosfera, dove la luce solare ultravioletta spezza le molecole di azoto e metano, ionizzandole, inducendo reazioni reciproche sempre più complesse, fino alla formazione di macromolecole, un processo che è stato osservato per la prima volta nell’atmosfera di Titano. Presumibilmente, su Plutone le molecole più complesse continuano a combinarsi e crescere fino a diventare piccole particelle, attorno alle quali si condensa un “cappotto” di ghiaccio prima che inizino a ricadere sulla superficie di Plutone, contribuendo alla sua colorazione rossastra.
In un seconda significativa scoperta, New Horizons ha rilevato numerose piccole regioni esposte di ghiaccio d’acqua su Plutone, grazie ai dati raccolti dallo spettrometro Linear Etalon Imaging Spectral Array (LEISA) dello strumento Ralph.
«Le grandi distese di Plutone non mostrano ghiaccio d’acqua a vista», ha detto un altro membro del team scientifico, Jason Cook sempre del SwRI, «perché risulta mascherato da altri ghiacci, più volatili, su gran parte del pianeta. Capire perché l’acqua compaia esattamente in certi luoghi, e non in altri, è una questione che stiamo approfondendo».
Un aspetto curioso di questa scoperta è che le aree dove la “firma spettrale” del ghiaccio d’acqua appare più marcata corrispondono alle zone che appaiono di un colore rossastro particolarmente brillante nelle immagini a colori di Plutone recentemente pubblicate. «Sono sorpreso che questo ghiaccio d’acqua sia così rosso», ha commentato Silvia Protopapa dell’Università del Maryland. «Non abbiamo ancora compreso il rapporto tra il ghiaccio d’acqua e le toline rossastre sulla superficie di Plutone».
di Stefano Parisini (INAF)

Pianeti extra-solari in cerca di un nome

Con il concorso “Name ExoWorlds” promosso dall’Unione Astronomica Internazionale (IAU), per la prima volta il pubblico mondiale viene chiamato al voto per decidere come dovranno essere chiamati questi nuovi mondi e le loro stelle. La proposta italiana presentata dall’ INAF riguarda il sistema planetario Mu Arae, formato da una stella e quattro pianeti, che è stato associato a un tema dal sapore floreale incentrato sull’idea di natura e mitologia. Per la stella, che si trova a 50 anni luce di distanza da noi ed è molto simile al nostro Sole, è stato proposto il nome greco Riza (radice, origine), mentre per i pianeti sono stati scelti quattro fiori: Lotus, Helianthus, Hibiscus e Camelia.
L’altra proposta italiana è quella della SAIt che suggerisce per il sistema planetario 55 Cancri i nomi di intelligenze artificiali tratti da famose opere di fantascienza. 55 Cancri è composto da un sistema binario di stelle e da cinque pianeti. I nomi proposti per le due stelle sono ispirati dal romanzo La Luna è una severa maestra di R. A. Heinlein (1966): Mike e Michelle. Per i pianeti invece sono stati proposti nomi tratti dal grande schermo: Jane (dalla serie Il gioco di Ender), Joshua (dal film War Games), Simone (dal film S1m0ne), HAL (dal film 2001: Odissea nello spazio) e Samantha (dal film Lei).
Per votare, basta andare sul sito del concorso (nameexoworlds.iau.org) dove sarà possibile vedere i 20 ExoWorlds selezionati dalla IAU. Bastano pochi secondi per votare su ed è molto semplice: cliccate nella sezione For Individuals e troverete elencati i 20 sistemi planetari per i quali è possibile votare. Non viene richiesta nessuna iscrizione.
I dettagli delle proposte sono disponibili sul sito web dell’INAF ‘altrimondi’
di Caterina Boccato (INAF)

E il pianeta più abitabile è…

Un gruppo di astronomi del Laboratorio di Planetologia Virtuale all’Università di Washington a Seattle, negli USA, ha elaborato un metodo per comparare e classificare i pianeti extrasolari, in modo da aiutare la scelta su quali meritino di essere esplorati per primi dai nuovi potenti telescopi, come il James Webb Space Telescope, il cui lancio è previsto per il 2018. La nuova metrica, denominata indice di abitabilità per pianeti transitanti, è presentata in un articolo in via di pubblicazione su Astrophysical Journal. Secondo gli autori, tale indice dovrebbe aiutare i loro colleghi a stabilire degli ordini di priorità nella lista dei numerosi esopianeti conosciuti. Una lista che, come dicevamo in un recente articolo, è destinata ad allungarsi rapidamente nei prossimi anni.
«Fondamentalmente, abbiamo ideato un modo per prendere tutti i dati osservativi che sono disponibili e sviluppato un sistema di priorità», ha spiegato Rory Barnes, professore di astronomia all’Università di Washington. «Siccome stiamo andando verso un periodo in cui avremo a disposizione centinaia di target disponibili, dovremo essere in grado di decidere da quale vogliamo iniziare».
La maggior parte degli esopianeti sono stati individuati – in particolare dal telescopio spaziale Kepler – grazie al “transito”, ovvero al fatto che passano davanti alla loro stella ospite rispetto al nostro punto di vista, mascherando così una parte della luce. La NASA prevede di lanciare nel 2017 la missione TESS, Transiting Exoplanet Survey Satellite, che certamente individuerà molti altri mondi con questo metodo. Ma sarà solamente con telescopi come il James Webb Space Telescope che si potranno fare accurate analisi spettroscopiche sulla composizione delle atmosfere di quei pianeti, alla ricerca di indizi sull’esistenza di forme di vita.
Siccome il tempo del telescopio è prezioso, bisogna subito impiegarlo verso i canditati più promettenti. L’indice di abitabilità sviluppato dal Laboratorio di Planetologia Virtuale serve proprio a questo: aiutare gli astronomi a decidere quali esopianeti abbiano la maggiore probabilità di ospitare la vita, andando oltre il semplice concetto del risiedere o meno nella cosiddetta zona abitabile della loro stella, ovvero alla giusta distanza perché il calore ricevuto della stella permetta l’esistenza di acqua liquida in superficie.
Per calcolare l’indice d’abitabilità, i ricercatori prendono in considerazione le stime di rocciosità di un pianeta, essendo i pianeti rocciosi come la Terra i più interessanti da questo punto di vista. Poi danno conto di due effetti che influiscono in maniera opposta sulla temperatura del pianeta: l’albedo e l’eccentricità dell’orbita. Sono due parametri che stabiliscono un delicato equilibrio energetico. Più alto risulta l’albedo di un pianeta, più luce ed energia vengono riflessi nello spazio e minore è il riscaldamento della superficie. Più l’orbita di un pianeta è eccentrica, tanto più intensa sarà l’energia ottenuta dalla stella quando il pianeta le passa a distanza più ravvicinata.
Tenendo conto di questi fattori, pianeti considerati troppo caldi per ospitare vita potrebbero invece subire l’effetto mitigante di un alto albedo; al contrario, un pianeta al freddo confine esterno della zona abitabile potrebbe scaldarsi un po’ al fuoco della sua orbita eccentrica.
Classificando secondo questi criteri i pianeti finora accertati dal telescopio spaziale Kepler, i tre autori dello studio hanno scoperto che i migliori candidati in quanto ad abitabilità sono quei pianeti che ricevono approssimativamente tra il 60 e il 90 per cento della radiazione solare che la Terra riceve dal Sole. Una percentuale assolutamente in linea con le attuali teorie sulla zona abitabile di una stella.
«Questo passo innovativo ci permette di andare oltre il concetto di zona abitabile “a due dimensioni”, verso un sistema d’indicizzazione flessibile, che possa includere molteplici caratteristiche osservabili assieme ai fattori che influenzano l’abitabilità planetaria», ha commentato Victoria Meadows dell’Università di Washington, tra gli autori della ricerca.
di Stefano Parisini (INAF)

Le 150.000 gemme di Messier 2

Osservarlo ad occhio nudo è davvero difficile, ma basta anche un piccolo binocolo per scorgerlo, in queste sere di ottobre, verso sud, in prossimità delle due stelle più brillanti della costellazione dell’Acquario. L’ammasso globulare Messier 2, in breve M2, è stato scoperto per la prima volta dall’astronomo Giovanni Domenico Maraldi nel 1746 e dista da noi oltre 37.000 anni luce. Ha un diametro di circa 175 anni luce e raggruppa ben 150.000 stelle. Il nucleo dell’ammasso, ovvero la sua regione centrale, è assai denso: in appena qualche anno luce di estensione, sono infatti presenti tante stelle la cui massa è circa la metà di quella totale di M2. Dallo studio delle proprietà d’insieme degli astri che lo compongono, inoltre, è stato stimato che l’età dell’ammasso è di circa 13 miliardi di anni, in linea con i valori riscontrati per altri ammassi stellari di questo tipo, veri e propri ‘fossili’ dell’universo, che si ritiene abbia avuto origine 13,7 miliardi di anni fa. Ma il cielo di ottobre sarà teatro anche di spettacolari congiunzioni, che vedranno la Luna e alcuni pianeti avvicinarsi e creare splendidi panorami celesti.
di Marco Galliani (INAF)

Le costellazioni di ottobre

Solo nelle prime ore della notte ci sarà ancora l’opportunità di osservare parte delle costellazioni che hanno dominato il cielo estivo. Una volta spente le ultime luci del crepuscolo serale, avremo appena il tempo di vedere ad occidente il tramonto del Bootes con la brillante stella Arturo, subito seguito dall’Ofiuco e da Ercole. Abbiamo a disposizione qualche ora in più per vedere ancora una volta il “Triangolo Estivo”, del quale ricordiamo i componenti: ai vertici troviamo le stelle Altair dell’Aquila, Vega della Lira e infine Deneb del Cigno.  Lungo l’eclittica cominciano ad apparire ad Est le costellazioni dello zodiaco che vedremo alte in cielo per i successivi mesi dell’Autunno e dell’Inverno: in tarda serata sorgeranno prima il Toro e successivamente i Gemelli. Ad Ovest, poco dopo il tramonto del Sole, vedremo per l’ultima volta per quest’anno il Sagittario; a Sud – Ovest il Capricorno e l’Acquario, privi di stelle particolarmente brillanti, non offrono punti di riferimento rilevanti. La costellazione dei Pesci è anch’essa poco appariscente, ma la sua posizione, a Sud di quella di Pegaso, ne facilita il ritrovamento sulla volta celeste. Ancora più ad Est è facile identificare la piccola costellazione zodiacale dell’Ariete. Il grande quadrilatero di Pegaso, il cavallo alato, situato ben alto nel cielo in questa stagione, quasi allo zenit – cioè sulla verticale sopra le nostre teste. Tra Pegaso e lastella polare, quest’ultima come sempre ferma in cielo ad indicare il Nord, troviamo Cassiopea, con la sua inconfondibile forma a “W”, e Cefeo, quest’ultima costellazione un po’ più difficile da riconoscere essendo priva di stelle brillanti. Dal vertice nord-est del quadrilatero di Pegaso inizia un allineamento di 3 stelle piuttosto luminose: si tratta della costellazione di Andromeda. Proseguendo ancora sullo stesso allineamento, sull’orizzonte nord-orientale, sopra la brillante stella Capella (della costellazione dell’Auriga), possiamo riconoscere il Perseo, con una forma che ricorda una “Y” rovesciata. Parlando di queste costellazioni, non si può fare a meno di citare due oggetti del cielo tra i più ammirati dagli astrofili. Si tratta di oggetti molto facili da osservare, adatti anche a chi si avvicina per la prima volta all’osservazione astronomica. Iniziamo con il “Doppio Ammasso del Perseo”: si trova nella zona di cielo tra Perseo e Cassiopea ed è già visibile ad occhio nudo in cieli oscuri e senza Luna, ma diventa spettacolare già con un semplice binocolo. Complessivamente i due ammassi sono costituiti da circa 400 stelle, e distano da noi oltre 7.000 anni luce. Guardiamo adesso la costellazione di Andromeda: delle 3 stelle più brillanti che troviamo vicino a Pegaso, prendiamo a riferimento quella centrale. Spostiamoci da lì verso Cefeo: con l’aiuto di una mappa, non sarà difficile notare anche con un binocolo (ma in cieli molto bui si può intravedere anche ad occhio nudo) una leggera nebulosità a forma di ellisse schiacciata: è la famosa galassia di Andromeda (M31), omonima della costellazione che la ospita. Andromeda è la galassia più vicina alla nostra Via Lattea, ma i “grandi numeri” che la caratterizzano non mancheranno di emozionare chi per la prima volta potrà osservarla attraverso un telescopio: si trova comunque alla distanza di circa 2 milioni e mezzo di anni luce (un anno luce è pari a poco meno di 10.000 miliardi di km), ha un diametro di circa 200.000 anni luce secondo le stime più recenti e contiene oltre 100 miliardi di stelle! Concludiamo il tour del cielo con l’Orsa Maggiore, che in questo periodo troviamo bassa sull’orizzonte settentrionale. Tra le due Orse possiamo riconoscere il Dragone.

Orionidi

Conosciute come lo sciame-fratello delle Eta Aquaridi di maggio, le Orionidi di fine ottobre sono associate alla cometa di Halley, la più conosciuta e studiata delle comete. Lo sciame si produce ogni anno negli stessi giorni allorchè l’orbita terrestre incrocia la scia di polveri – che vaporizzano in atmosfera ad un’altezza di circa 100 km – lasciata dal passaggio della cometa ed ha come radiante la zona di Orione che è ai confini con le stelle dei Gemelli. L’assenza della Luna nei momenti di presenza del radiante permetterà ogni tipo di studio: nel visuale sulle frequenze orarie e sulla distribuzione delle luminosità, nel dominio fotografico e video sulla posizione dell’area radiante. Saranno ben visibili dopo mezzanotte, quando il radiante a nord di Betelgeuse salirà più alto sull’orizzonte. Questa corrente non è omogenea, ma in realtà la Terra tra il 18 e il 23 ottobre incontra nel suo moto zone più o meno dense di meteoroidi, cosicchè si osservano variazioni della frequenza da un anno all’altro. I tassi comunque non dovrebbero essere superiori alle 25-30 meteore/hr.
(Astronomia.com)

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