Quando Marte era blu

Oggi lo conosciamo come pianeta rosso. Ma certo ieri era blu, d’acqua. Tracce di formazioni geologiche originatesi grazie all’azione di H2O allo stato liquido confermano la presenza di acqua nel recentissimo passato geologico di Marte. A dirlo è uno studio appena pubblicato da un team di geologi guidati da Andreas Johnsson, ricercatore presso il dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Göteborg. Le immagini aree dell’emisfero meridionale di Marte mostrano un cratere contenente calanchi e depositi di fenomeni erosivi perfettamente conservati. Si tratta di fenomeni geomorfologici di erosione del terreno che si producono per effetto di dilavamento delle acque su rocce friabili e poco protette (sulla Terra sono le piante a difendere i terreni argillosi da piogge e acque correnti). Formazioni geologiche che forniscono la prova dell’azione di acqua in tempi geologicamente recenti. Secondo il team di Johnsson il cratere potrebbe avere all’incirca 200.000 anni. Si sarebbe quindi formato parecchio tempo dopo quella che crediamo sia stata l’ultima era glaciale marziana, conclusasi 400.000 anni fa. “Il fenomeno dei calanchi è piuttosto comune su Marte”, spiega Johnsoon. “Vero è che quelli studiati finora sono sempre risultati più antichi. E i sedimenti di cui sono formati sono stati associati all’ultima glaciazione. Il cratere di cui parliamo, invece, è decisamente più giovane e testimonia processi di dilavamento importanti anche in tempi recenti”. Quando un blocco di sedimenti che si trova su un pendio si satura di acqua, la miscela che ne risulta può comprometterne la stabilità. Il peso lo trascina a valle in forma di detriti e si genera una frana. Sulla Terra, in zone edificate, questi fenomeni danno origine a veri e propri disastri: un misto di pietre, ghiaia, argilla e acqua che si muove rapidamente trascinando con sé tutto quel che si trova in superficie. Dal punto di vista prettamente geologico, arrivato a fine corsa il sedimento presenta caratteristiche uniche, depositi ben visibili e argini speculari lungo i canali di flusso delle frane. Sono queste strutture geologiche che i geologi di Göteborg hanno riconosciuto su Marte. Del tutto simili a formazioni conosciute sulle isole Svalbard e di cui sono state scattate immagini aeree per fare un confronto. “Il lavoro fatto sul campo alle Svalbard ha confermato le nostre ipotesi sul cratere marziano. Anche se quello che ci ha lasciati a bocca aperta è l’età geologica di questo fenomeno”, afferma Johnsson. La regione in cui sorge il cratere si trova attorno al 45° parallelo Sud di Marte, in quella che è conosciuta come un’area di materiali estrusi da un grande cratere vicino. Il materiale eruttato si dispone in forma di fiore attorno al nostro cratere, il che ha suggerito agli scienziati di interpretare il fenomeno come risultato di un impatto su fondo bagnato, o comunque ricco di ghiaccio. Osservando meglio non sono però state trovate impronte riconducibili a uno scioglimento di acque. È più probabile che si tratti di un’azione di dilavamento causata da una normale nevicata, al tempo in cui la meteorologia marziana contemplava la formazione di cumulonembi. Cosa possibile, dal momento che in passato l’asse orbitale del pianeta era più inclinato rispetto all’ellittica.
di Davide Coero Borga (INAF)

Gli otto grandi misteri della Terra

Oggi possiamo dire di conoscere alcuni angoli di spazio meglio delle nostre tasche. E questo è vero quasi in senso letterale: ad esempio, possediamo una mappa della superficie di Marte molto più dettagliata di quella degli oceani terrestri. Mentre l’Universo viene svelato anno dopo anno, sono ancora tanti i misteri che avvolgono quella che è la nostra casa da millenni, il Pianeta Terra. In occasione della Giornata mondiale della Terra, la giornalista scientifica Becky Oskin ha pubblicato su Livescience un articolo che parla proprio degli enigmi terrestri ancora rimasti irrisolti. Identificando 8 domande fondamentali, corrispondenti ad altrettanti rompicapo che la scienza dovrà risolvere nei prossimi anni.

1. Perché siamo così bagnati?

Secondo gli scienziati, quando 4,5 miliardi di anni fa la Terra si è amalgamata nella forma attuale, era costituita per lo più da un grande masso arido e secco. Da dove è spuntata tutta quest’acqua? In che modo l’H2O, elemento chimico per eccellenza simbolo di vita, si è formato fino a raggiungere le percentuali attuali? Una delle ipotesi più accreditate è che l’origine sia stato il violento impatto con asteroidi ghiacciati, da cui il nostro pianeta si sarebbe rifornito di acqua per la prima volta. Eppure sono state trovate pochissime prove di questi scontri, e così il mistero dell’acqua rimane irrisolto.

2. Cosa c’è al centro?

Tra miti e leggende, il mistero del nucleo terrestre ha affascinato gli scrittori almeno quanto i ricercatori. Per molto tempo, sia scienza che letteratura hanno parlato del centro irraggiungibile della Terra: fino agli anni ’40, quando lo studio di alcuni meteoriti portò a una vera e propria rassegna di tutti i minerali che dovevano essere presenti sopra e dentro il nostro pianeta. I “grandi assenti” erano il ferro e il nichel, che poiché non si trovavano sulla crosta terrestre, dovevano necessariamente stare nel nucleo: ecco elaborata la prima teoria sul centro della Terra. Ma appena un decennio dopo, una serie di misure che sfruttavano la forza di gravità dimostrarono che quella stima era erronea: il nucleo era troppo leggero. Oggi i ricercatori continuano a fare ipotesi sugli elementi che compongono la zona più interna e calda del pianeta, ma ancora non è stata raggiunta una teoria condivisa.

3. Da dove viene la Luna?

Da uno scontro titanico tra la Terra e un protopianeta della dimensione di Marte? È la teoria più accreditata, ma non convince tutti. Anche perché alcuni dettagli non quadrano: per esempio, la composizione chimica di Terra e Luna è troppo simile perché il nostro satellite sia arrivato da lontano. Per questo, secondo alcuni, si trattava invece di un gigante frammento staccato proprio dal nostro pianeta; ma ancora, in questo caso non è chiaro in che modo la Luna si sarebbe staccata da noi. Insomma, il mistero dell’origine della Luna resta tale.

4. Come si è formata la vita?

Questa è forse la domanda delle domande. I primi organismi viventi hanno avuto origine sulla Terra, o sono stati portati dallo spazio? Le componenti più basilari della vita, come gli amminoacidi e le vitamine, sono state trovate “impigliate” sia nelle rocce degli asteroidi sia nelle zone più inospitali della Terra. Per questo l’ago della bilancia ancora non può pendere per l’una o per l’altra teoria, anche perché non è mai stata trovata traccia di quelli che si pensa fossero gli abitanti più primitivi del nostro pianeta, i primi batteri.

5. L’ossigeno, come e quando?

Dobbiamo la nostra esistenza ai cianobatteri, creature microscopiche che hanno avuto un ruolo determinante nella trasformazione dell’atmosfera terrestre. Questi microrganismi buttavano fuori ossigeno come scarto, riempiendone così il cielo per la prima volta circa 2,4 miliardi di anni fa. Eppure l’analisi delle rocce rivela tracce di ossigeno risalenti a 3 miliardi di anni fa: ci manca quindi un tassello per capire davvero la storia della vita sul nostro pianeta.

6. Cosa causò l’esplosione Cambriana?

Il periodo Cambriano, 4 miliardi di anni dopo la formazione della Terra, vide una vera e propria esplosione di vita: improvvisamente comparvero animali con cervelli e vasi sanguigni, occhi e cuori, tutti in grado di evolversi più rapidamente rispetto a qualunque altra era geologica conosciuta. Ci fu un responsabile di questa esplosione? Secondo alcuni, una spiegazione potrebbe essere un aumento del livello di ossigeno appena prima l’inizio del Cambriano, ma altri fattori potrebbero aver concorso a questa rivoluzione di vita.

 7. Quando cominciò la tettonica delle placche?

Il movimento e il sollevamento di strati sottili di crosta terrestre hanno dato origine alle meravigliose cime montuose e alle violente eruzioni vulcaniche sul nostro pianeta. Eppure i geologi ancora non hanno capito in che modo si è avviato il motore della tettonica: semplicemente, le prove sono andate distrutte. Giusto alcuni minerali risalenti a 4,4 miliardi di anni fa sono sopravvissuti, a segnalare le prime rocce continentali esistenti. Ma ancora non è chiaro il meccanismo che ha portato alla rottura della crosta terrestre.

8. E i terremoti?

Più che un mistero, questa è una sfida. I modelli statistici sono oggi in grado di prevedere la probabilità statistica dei terremoti, più o meno come gli esperti sanno fare con le previsioni del tempo. Ma prevedere un evento specifico è ancora impossibile: persino il più grande esperimento mai fatto in proposito è fallito, quando i geologi hanno annunciato un terremoto a Parkfield, in California, nel 1994, e l’evento si è verificato solo nel 2004. Per questo, oltre agli enigmi sul passato del nostro pianeta, ci sono quelli sul suo futuro: tra tutti, riuscire a proteggerlo dai disastri atmosferici.
di Giulia Bonelli (INAF)

Uno studio in rosso

La  nuova immagine ottenuta all’Osservatorio dell’ESO a La Silla in Cile rivela una nube d’idrogeno nota come Gum 41. Nel mezzo di questa nebulosa poco conosciuta, stelle giovani e calde, molto brillanti, emettono radiazioni molto energetiche che fanno risplendere l’idrogeno circostante di un caratteristico tono di rosso.  Questa area del cielo australe, nella costellazione del Centauro, ospita molte nebulose brillanti, ciascuna associata a stelle neonate molto calde che si sono formate a partire dalle nubi di idrogeno gassoso. La radiazione intensa prodotta dalle nuove stelle eccita il resto dell’idrogeno circostante, facendo risplendere il gas nelle tinte di rosso caratteristiche delle zone di formazione stellare. Un altro esempio famoso di questo fenomeno è la Nebulosa Laguna un’ampia nube che risplende di simili tinte scarlatte. La nebulosa di questa immagine si trova a circa 7300 anni luce dalla Terra. L’astronomo australiano Colin Gum la scovò nelle fotografie prese all’Osservatorio di Mount Stromlo, vicino a Canberra, e la inserì nel suo catalogo di 84 nebulose ad emissione,pubblicato nel 1955. Gum 41 è in effetti solo una piccola parte di una struttura più grande nota come Nebulosa Lambda Centauri, o anche con il nome più esotico di Nebulosa “Gallina in fuga” . Gum morì giovane nel 1960 per un tragico incidente sugli sci in Svizzera. In questa fotografia di Gum 41 la nebulosa appare spessa e brillante, ma questo è in realtà fuorviante: se un viaggiatore spaziale potesse attraversare questa nebulosa non la noterebbe – nemmeno da vicino – perchè sarebbe troppo debole per essere vista dall’occhio umano. Questo aiuta a spiegare perchè un oggetto così grande abbia dovuto attendere la metà del ventesimo secolo per essere scoperto – la sua luce debole è molto dispersa e la luce rossastra non può essere vista facilmente nella banda visibile. Questo nuovo ritratto di Gum 41 – probabilmente uno dei migliori  di questo oggetto sfuggente – è stata creata a partire dai dati del WFI (Wide Field Imager) installato sul telescopio da 2,2 metri dell’MPG/ESO all’Osservatorio di La Silla dell’ESO in Cile. È una combinazione di immagini prese attraverso filtri blu, verdi e rossi, insieme all’immagine ottenuta attravrso un filtro particolare che cattura il bagliore rossastro dell’idrogeno.
FONTE ESO

Lampo di luce dal Buco Nero

Sono miliardi di galassie nel cosmo che ruotano su se stesse in quello che sembra un “sonnacchioso” procedere. Ma l’apparente tranquillità di questo incedere potrebbe essere paragonata a quella del predatore che attende immobile la sua preda. Uno scatto repentino e le fauci che si aprono smentiscono in un istante quella apparente tranquillità. Così ogni tanto un lampo di luce esplode dal centro della galassia. La preda in questo caso è una stella che orbita troppo vicino all’orizzonte degli eventi di un buco nero supermassiccio centrale della galassia e per questo finisce lacerata dall’attrazione gravitazionale, riscaldando il suo gas e emettendo una luce come un faro che invia il suo segnale ai confini dell’universo. Ma in questo cosmo fatto di miliardi di galassie come possiamo cogliere questo improvviso faro? Come possiamo distinguere quel segnale luminoso dai tanti che i turbolenti eventi che caratterizzano l’universo producono? Sono quesiti che hanno un obiettivo. Come è noto i buchi neri di per sé non emettono luce, sono oggetti la cui attrazione gravitazionale è tale da non permettere neanche alla luce di fuggire, così da renderli luminosi ai nostri occhi. L’occasione migliore per scoprirli in galassie lontane è quando e se interagiscono con le stelle e il gas che li circondano. Ma negli ultimi decenni, grazie a migliori telescopi e tecniche di osservazione, gli scienziati hanno notato che alcune galassie, in precedenza apparentemente inattive, si accendevano improvvisamente al loro centro. “Questo bagliore di luce è stato trovato avere un comportamento caratteristico in funzione del tempo”, dice Tamara Bogdanovic, assistente professore di fisica presso il Georgia Institute of Technology. “Inizia molto luminoso e poi la sua luminosità diminuisce in un certo lasso di tempo che ne fa un elemento distintivo”. Utilizzando un insieme di approcci teorici e computazionali, Bogdanovic cerca di prevedere i segnali che caratterizzano eventi come quello sopra descritto e comunemente chiamato della “tidal disruption” (pertubazione mareale). Segnali che se codificati potrebbero essere utili osservando tali eventi con telescopi da Terra. Per capire la sua utilità basti pensare che una galassia come la nostra Via Lattea registra fenomeni di disgrgazione stellare una volta ogni circa 10.000 anni. La luminosa scia di luce che ne deriva, d’altra parte, può svanire nel giro di pochi anni. Questa differenza evidenzia le difficoltà osservative di tali eventi. Lo sviluppo tecnologico e il sempre maggior numero di telescopi che osservano diverse galassie, rende sempre più possibile osservare fenomeni simili e quindi accrescere le conoscenze sui buchi neri e il loro comportamento. In un recente articolo inviato all’Astrophysical Journal, Bogdanovic, con Roseanne Cheng (Centro per l’astrofisica relativistica presso il Georgia Tech) e Pau Amaro – Seoane (Albert Einstein Institute di Potsdam), ipotizzano in un modello al computer, le perturbazioni mareali create da un buco nero supermassiccio in una stella gigante rossa ad esso vicina. La pubblicazione è il frutto dello studio di un evento accaduto a 2,7 miliardi di anni luce e che ipotizzino abbia riguardato una gigante rossa chiamata PS1 – 10jh.
di Francesco Rea (INAF)

Quel girino blu nella Costellazione del Cigno

Una protostella a forma di girino è stata fotografata da Hubble proprio nel momento del suo spuntino. Questa nuova immagine, realizzata nell’agosto del 2013, ci mostra IRAS 20324+4057 “nuotare”, proprio come un girino (“Tadpole”, in inglese), tra le stelle del cielo. Si tratta di un agglomerato di gas e polvere stellare che ha dato alla luce una brillante protostella (una delle prime fasi di formazione stellare). La particolarità catturata dal telescopio di NASA ed ESA è proprio la testa simile a quella di un girino. L’unicità di IRAS 20324+4057 è, però, quella di avere diverse protostelle all’interno della “testa”, ma quella che nell’immagine appare gialla è decisamente la più luminosa e massiva. Quando questa protostella avrà raccolto abbastanza materiale dall’ambiente circostante, alla fine diventerà una vera e propria giovane stella. Il bagliore blu che circonda IRAS 20324+4057 è causato da altre stelle vicine che la bombardano con radiazioni: è proprio questo processo che scolpisce la coda facendola diventare così lunga e sinuosa. Dalla testa alla coda, questo agglomerato si estende per circa un anno luce e contiene talmente tanto gas da superare di quattro volte la massa del Sole. Sullo sfondo di questa immagine, che fa parte della collezione Hubble Heritage, si vede Cygnus OB2, cioè una una delle associazioni si stelle di tipo O e B più brillanti e concentrate della Via Lattea. Si tratta di un cluster di stelle estremamente giovani, luminose e massicce a 4700 anni luce dalla Terra nella Costellazione del Cigno: alcune di queste sono fino a 2 milioni di volte più luminose del Sole. Nell’immagine è possibile notare altre due formazioni stellari: una è stata chiamata “Il pesce rosso”, (“Goldfish”) si trova in basso a destra, ma non è stata ripresa nell’immagine, ed è circa la metà di IRAS 20324+4057; l’altra ha preso il nome di “Verme” o “Larva” (“Wiggler”), ed è un piccolo agglomerato di gas in basso a sinistra nella foto. Tutti e tre questi oggetti hanno lo stesso orientamento nel cielo e sembrano essere più luminosi nel loro lato più a nord: questo particolare ha portato gli astronomi a ipotizzare che le radiazioni e i venti stellari provengano da destra.
di Eleonora Ferroni (INAF)

Plutone, oceano e tettonica a placche

Pur declassato nel 2006 a pianeta nano,Plutone non ha certamente perso interesse per gli astronomi. Anzi,  più si avvicina il momento in cui gli occhi artificiali della sonda NASA New Horizons scruteranno da vicino la sua superficie gelata – un appuntamento previsto per il luglio 2015 – e più diviene frenetico lo sviluppo di ipotesi su come interpretare il panorama che la navicella spaziale ci permetterà di godere. Una delle ultime idee in questo senso è che la collisione a cui presumibilmente si deve l’origine di Plutone e della sua luna maggiore Caronte, con la quale il pianeta nano sembra formare in realtà un sistema binario, abbia riscaldato l’interno di Plutone in maniera sufficiente da permettere la formazione di un oceano sotterraneo di acqua. Un evento antico che deve avere portato il piccolo corpo del Sistema Solare a possedere per un breve periodo un sistema di tettonica a placche, simile a quello che si riscontra sulla Terra. “Riteniamo che quando New Horizons raggiungerà Plutone, ci mostrerà le prove di un’antica attività tettonica”, è la convinzione di Amy Barr, planetologa della Brown University e coautrice, assieme a Geoffrey Collins del Wheaton College, di uno studio pubblicato sull’ultimo numero della rivista Icarus. L’epoca antica a cui fanno riferimento Barr e Collins si riferisce al primo miliardo di anni nella storia evolutiva del Sistema Solare. I due ricercatori hanno modellizzato il sistema Plutone-Caronte basandosi sull’idea che l’iniziale collisione tra i due corpi abbia generato abbastanza energia da fondere la parte interna di Plutone, dando origine ad un oceano. Una massa d’acqua che sarebbe rimasta in forma liquida sotto la crosta gelata per un tempo abbastanza lungo, grazie al fatto che, mano a mano che una parte dell’oceano si ricongelava, la parte ancora liquida si arricchiva di sali e ammoniaca, funzionando da anticongelante. Da cosa sarebbe stata prodotta l’attività tettonica? I ricercatori sono partiti dall’assunto che, nell’evoluzione del sistema Plutone-Caronte, il momento angolare si debba essere conservato. Su questa base, hanno simulato un gran numero di scenari sull’ipotetica orbita di Caronte immediatamente dopo la collisione, riscontrando che in ogni scenario l’orbita della compagna di Plutone migrava progressivamente verso l’esterno, come ha fatto la Luna attorno alla Terra. Quando Plutone e Caronte si trovavano vicini, ancora “caldi” a causa della collisione, esercitavano una grande forza l’uno sull’altro, con il risultato di assumere una forma ad uovo. Ma quando poi Caronte ha cominciato ad allontanarsi, Plutone è divenuto più sferico. Durante questa trasformazione, la superficie ghiacciata deve essersi fratturata creando delle faglie, i segni distintivi dell’attività tettonica. “Nei nostri scenari osserviamo che si sono generati sulla superficiestress in quantità più che sufficiente per dare luogo a una pletora di fenomeni tettonici”, ha concluso Barr. Non è ancora lunga l’attesa per sapere se New Horizons, che fotograferà Plutone con una risoluzione fino a 100 metri per pixel, vedrà effettivamente le antiche faglie. Secondo Jeffrey Moore, che dirige il team d’osservazione geologica e geofisica di New Horizons al centro ricercheAmes della NASA, “sarebbe sorprendente se non osservassimo attività tettonica”. Tuttavia, c’è una potenziale complicazione: il clima di Plutone. Si è scoperto anni fa, infatti, che Plutone nei momenti di massimo avvicinamento al Sole possiede un’atmosfera, che però si congela al suolo quando il pianeta nano percorre la parte più distante della sua orbita ellittica. L’intensità di questi cambiamenti regolari potrebbe essere tale da avere eroso la superficie di Plutone fino al punto di cancellare le tracce tettoniche. Moore rimane ottimista, prendendo come riferimenti altri mondi dove si verifica lo stesso fenomeno atmosferico, come Callisto, una delle lune di Giove. “Su Callisto, dove avviene la sublimazione e il deposito  dell’atmosfera, possiamo comunque osservare l’effetto dei fenomeni geologici”, ha concluso Moore.
di Stefano Parisini (INAF)

La soglia oltre cui nasce una stella

Da dove vengono le stelle? Dietro a questa domanda, tra le più antiche e ancestrali che l’uomo si sia mai posto, oggi ci sono anni e anni di lavoro da parte degli scienziati di tutto il mondo. E da quando il primo telescopio fu puntato sul manto del cielo, moltissima è stata la strada fatta per capire l’origine e i meccanismi della formazione stellare. Ora il mosaico si arricchisce di un altro piccolo tassello: un nuovo studio pubblicato stasera suScience ha individuato per la prima volta la soglia oltre la quale una nube molecolare, cioè l’accumulo di gas e polveri all’interno delle galassie, è in grado di dar vita a una stella. Si tratta della cosiddetta soglia di densità, su cui gli astronomi stanno lavorando da un po’: la cosa certa è che la formazione stellare coinvolge una grande quantità di materia, in particolare gas, che per dare origine a una stella deve avere una densità sufficiente. Perché? Media INAF l’ha chiesto aDavide Elia, dell’Istituto di Astrofisica e Planetologia Spaziali. “Le nubi di gas e polveri devono essere sufficientemente dense per far avvenire l’innesco del collasso gravitazionale, che determina la formazione delle stelle” spiega il ricercatore. “Infatti perché la gravità sia abbastanza efficace, deve esserci una certa soglia di densità, superata la quale la nube interessata da instabilità gravitazionale può procedere al collasso. Queste sono le condizioni minime per la formazione delle stelle”. Una densità, quella necessaria per il processo di nascita stellare, che però non ha nulla a che vedere con le misure familiari alla fisica terrestre. “Noi parliamo di densità probabilmente inferiori al vuoto spinto che si può ottenere sulla Terra” precisa Elia. “Si tratta di densità nell’ordine di 10.000 particelle per centimetro cubo: numeri bassissimi, che non si riuscirebbero mai a raggiungere in un comune laboratorio terrestre”. Per lo spazio questa misura corrisponde invece a una densità decisamente elevata, abbastanza da innescare la formazione stellare. Ma fino ad ora non si era riusciti ad attribuire un numero preciso a questa soglia in termini di densità volumerica. “Ci sono stime varie e discordanti. I calcoli puramente teorici e le evidenze osservative spesso non sono in accordo” prosegue il ricercatore. “Questo perché le osservazioni utilizzate in questi casi sono di natura bidimensionale: si fa una mappa del cielo, che però non riesce a includere informazioni sulla materia lungo  la terza dimensione, la profondità. Quindi si può misurare solo la somma di tutta la materia che c’è entro una certa area del cielo. Una sorta di densità media, che però non corrisponde alla densità effettiva tridimensionale”. Ed è proprio questo il punto su cui si differenzia la ricerca pubblicata da Science. Lo studio, la cui prima firma è Jouni Kainulainen del Max-Planck-Institute, propone un metodo innovativo per aggirare questo limite sull’assenza della terza dimensione. “Hanno fatto un’operazione di deproiezione” spiega Elia. “In pratica hanno trasformato le informazioni bidimensionali in informazioni tridimensionali: questo ha permesso di passare dal punto di vista della cosiddetta densità di colonna (in 2D) a quello della densità di volume (in 3D).” Un vero e proprio cambio di prospettiva, che ha permesso di misurare in particelle al centimetro cubo ciò che prima si poteva misurare solo in particelle al centimetro quadrato. I ricercatori hanno così utilizzato una funzione chiamata PDF (probability density function, ossia funzione di probabilità della densità) che ha permesso loro di definire appunto la soglia del volume di densità oltre la quale può avvenire la produzione stellare. Il prossimo passo sarà ora trovare ulteriori evidenze sperimentali che confermino la soglia di densità determinata dallo studio su Science. Un obiettivo a cui sta lavorando lo stesso Davide Elia, che collabora con la missione Herschel dell’ESA, tra i cui obiettivi c’è anche studiare la formazione delle stelle e la loro interazione con le polveri interstellari. “Questo studio è complementare a quello descritto nello studio di Science” racconta l’astrofisico. “Va a indagare la struttura delle nubi non tanto per cercare le soglie di formazione stellare, quanto per estrarre ulteriori quantità osservabili e confrontarli ulteriormente con i modelli”. I risultati di questo metodo compariranno in uno studio già accettato da Astrophysical Journal, che verrà pubblicato il 20 maggio.  E così il mosaico di conoscenze sulle stelle e i meccanismi della loro formazione si amplierà di un altro tassello.
di Giulia Bonelli (INAF)

La giovane Terra nel mirino degli asteroidi: devastante impatto 3,6 miliardi di anni fa

Sessantacinque milioni di anni fa un enorme asteroide (o una cometa – la teoria deve essere ancora verificata) ha causato la scomparsa dei dinosauri. Questa è storia e la conosciamo tutti. L’impatto è stato talmente devastante da provocare anche l’estinzione di circa il 70 per cento di tutte le specie già viventi sulla Terra, come confermato da geologi e paleontologi. In realtà, secondo un gruppo di studiosi, si ritiene che questo non sia stato il più forte impatto verificatosi sul nostro pianeta. Sembrerebbe, infatti, che ben 3,26 miliardi di anni fa un gigantesco asteroide abbia colpito violentemente la superficie terrestre generando un cratere di enormi dimensioni, quasi 500 chilometri (cioè due volte e mezzo più largo di quello che è stato creato dall’impatto dell’asteroide che ha spazzato via i dinosauri). Dall’impatto sono stati generati anche tsunami di gran lunga più distruttivi di quello che è seguito al terremoto in Giappone del 2011. Già da tempo gli esperti ipotizzavano un impatto di gran lunga più importante e distruttivo rispetto a quello di 65 milioni di anni fa. Adesso lo studio, che è stato pubblicato su Geochemistry, Geophysics, Geosystemsconferma la potenza e la scala di un cataclisma avvenuto miliardi di anni prima e che ha determinato la conformazione della superficie terrestre, soprattutto in Sud Africa, in una regione nota come “Cintura di Greenstone” sulle Barberton Mountains. Si tratta di una area di 100 chilometri di lunghezza e 60 chilometri di larghezza che si trova a est di Johannesburg, vicino al confine con il Regno dello Swaziland. Il Barbeton custodisce alcune delle rocce più antiche del pianeta. Una decina di anni fa, il primo autore dello studio Donald Lowe, geologo alla Stanford University, ha scoperto delle formazioni rocciose rivelatrici proprio tra le queste montagne africane. Le rocce indicherebbero un forte impatto e i nuovi modelli elaborati dai ricercatori mostrerebbero per la prima volta le dimensioni dell’asteroide e i suoi effetti sul nostro pianeta, in termini di movimenti delle zolle tettoniche, che poi hanno cambiano l’aspetto della Terra. L’asteroide, largo tra 37 e 58 chilometri, ha impattato con la Terra a una velocità di 20 km/s generando una scossa di terremoto di magnitudo 10,8. Le onde sismiche si sono propagate in tutta la Terra distruggendo le giovani rocce (il nostro pianeta aveva poco più che 1 miliardo di anni) e provocando altri sciami sismici sotto gli oceani.  Durante studi in Sud Africa, Lowe e i suoi colleghi scoprirono uno strato molto sottile di antichi sedimenti marini contenente migliaia di microscopiche sfere cave. Secondo i ricercatori la loro origine è certa: l’impatto con la Terra di un enorme asteroide più di 3 miliardi di anni fa, quando il calore generato dall’impatto polverizzò la roccia, che fu dispersa dal vento su tutto il globo cristallizzando e ricadendo poi in superficie. Gli scienziati hanno mappato in l’impatto che è stato, con ogni certezza, catastrofico per l’ambiente di quel periodo. Basti pensare che l’asteroide, di gran lunga più piccolo, che ha spazzato via i dinosauri si stima abbia rilasciato più di un miliardo di volte l’energia delle bombe atomiche che distrussero Hiroshima e Nagasaki. Se confrontato con le dimensioni della Terra, un asteroide delle stesse dimensioni (dai 10 ai 15 chilometri di diametro) sarebbe stato «poco più che un moscerino sul parabrezza», ha detto tempo fa Bruce M. Simonson dell’Oberlin College (Ohio). Quasi 4 miliardi di anni fa, ipotizzano gli esperti, il cielo sarebbe diventato rosso “fuoco”, a causa dell’immenso calore, l’atmosfera si sarebbe riempita di polvere e gli oceani (che ricoprivano la maggior parte del pianeta) avrebbero cominciato a bollire, come acqua in una pentola. L’asteroide potrebbe far parte del gruppo di decine di enormi rocce che gli scienziati pensano abbiano colpito la Terra durante la parte finale del periodo di Intenso bombardamento tardivo, un’importante fase di impatti che si è verificata all’inizio della storia della Terra – circa 4 miliardi di anni fa. Molti dei siti dove questi asteroidi sbarcati sono stati distrutti dall’erosione, movimento della crosta terrestre e le altre forze, come si è evoluta la Terra, ma i geologi hanno trovato una manciata di aree in Sud Africa e Australia Occidentale che ancora nutrono la prova di questi impatti che si sono verificati tra 3,23 miliardi e 3,47 miliardi anni fa. I Co-autori dello studio pensano che l’asteroide ha colpito la Terra migliaia di chilometri di distanza dal Barberton Greenstone Belt, pur non potendo individuare la posizione esatta. Spesso i ricercatori, come ha affermato lo stesso Lowe, «non possono andare direttamente sul luogo dell’impatto», per questo i nuovi modelli saranno utili in futuro. I geologi stanno ricostruendo il puzzle di ciò che è accaduto sulla Terra in questo periodo, cercando di capire meglio l’evoluzione della Terra, della crosta terrestre, i diversi regimi tettonici e il sistema attuale delle placche tettoniche. “Dobbiamo immaginare la Terra, almeno nei primi anni di vita, come un punching ball che veniva continuamente colpito da grandi asteroidi e dobbiamo cercare di immaginare terremoti di gran lunga più distruttivi rispetto a quelli dell’epoca moderna”, ha spiegato Norman Sleep, fisico della Stanford University. Il co-autore dello studio ha utilizzato modelli fisici per studiare le formazioni rocciose sulla Cintura di Greenstone, altri terremoti, altri siti di impatto di asteroidi e la Luna, calcolando la potenza e la durate nel tempo del sisma, anzi delle scosse, che ha provocato l’asteroide nel suo impatto quasi 4 miliardi di anni fa. Ricostruendo il momento del catastrofico scontro e ciò che ha portato, gli esperti potranno studiare anche come si sono evoluti molti organismi.
di Eleonora Ferroni (INAF)

Mercurio, il pianeta vicino al Sole

Mercurio è il pianeta più interno del sistema solare e il più vicino alla nostra stella, il Sole. È il più piccolo e la sua orbita è anche la più eccentrica (ovvero, la meno circolare) degli otto pianeti. Come tutti gli altri pianeti Mercurio orbita in senso diretto, ad una distanza media di 0,3871 UA con un periodo siderale di 87,969 giorni terrestri, completando tre rotazioni intorno al proprio asse per ogni due orbite. L’eccentricità orbitale è abbastanza elevata, 0,205, e ben 15 volte superiore a quella della Terra. Considerando Mercurio come il più vicino degli otto pianeti, dalla superficie il Sole ha un diametro apparente medio di 1,4°, circa 2,8 volte superiore a quello visibile dalla Terra, ma arriva a 1,8° durante il passaggio al perielio. Il rapporto fra la radiazione solare al perielio e quello all’afelio è 2,3, da confrontare con l’1,07 della Terra. Trattandosi di un pianeta interno rispetto alla Terra, Mercurio appare sempre molto vicino al Sole (la sua elongazione massima è di 28,3°), al punto che i telescopi terrestri possono osservarlo solo di rado. La sua magnitudine apparente oscilla tra -0,4 e +5,5 a seconda della sua posizione rispetto alla Terra e al Sole. Durante il giorno la luminosità solare impedisce ogni osservazione, e l’osservazione diretta è possibile solamente subito dopo il tramonto, sull’orizzonte a ovest, oppure poco prima dell’alba verso est. Inoltre l’estrema brevità del suo moto di rivoluzione (solamente 88 giorni) ne permette l’osservazione solamente per pochi giorni consecutivi, dopo di che il pianeta si rende inosservabile dalla Terra. Per evitare danni agli strumenti, il telescopio spaziale Hubble non viene mai utilizzato per riprendere immagini del pianeta. Come nel caso della Luna e di Venere, anche nel caso di Mercurio dalla Terra è visibile un ciclo delle fasi, sebbene sia abbastanza difficoltoso rendersene conto con strumenti amatoriali. Galileo Galilei compì le prime osservazioni telescopiche di Mercurio all’inizio del XVII secolo. Sebbene fosse riuscito nell’osservare le fasi di Venere, il suo telescopio non era sufficientemente potente da permettergli di cogliere anche quelle di Mercurio, che furono scoperte nel 1639 da Giovanni Battista Zupi, fornendo la prova definitiva che Mercurio orbita intorno al Sole. Nel 1631, intanto, Pierre Gassendi era stato il primo a osservare un transito di Mercurio innanzi al Sole, secondo le previsioni fornite da Giovanni Keplero. Evento raro nell’astronomia è il passaggio di un pianeta davanti a un altro (occultazione), se visti dalla Terra. Mercurio e Venere si occultano ogni pochi secoli e l’evento del 28 maggio 1737 è l’unico storicamente osservato (daJohn Bevis all’Osservatorio di Greenwich). La prossima occultazione di Mercurio da parte di Venere avverrà il 3 dicembre 2133. Le difficoltà insite nella osservazione di Mercurio hanno determinato che il pianeta sia stato il meno studiato tra gli otto del Sistema solare. Nel 1800 Johann Schröter compì alcune osservazioni delle caratteristiche superficiali e affermò di aver osservato montagne alte 20 km. Friedrich Wilhelm Bessel utilizzò i disegni di Schröter e stimò, erroneamente, un periodo di rotazione di 24 ore e un’inclinazione dell’asse di rotazione di 70°. Negli anni ottantadel Ottocento, Giovanni Schiaparelli compose mappe più accurate della superficie e suggerì che il periodo di rotazione del pianeta fosse di 88 giorni, uguale a quello di rivoluzione, e che il pianeta fosse in rotazione sincronacon il Sole così come la Luna lo è con la Terra. L’impegno nel mappare la superficie di Mercurio fu proseguito da Eugène Michel Antoniadi, il quale pubblicò le proprie mappe e osservazioni in un libro nel 1934. Molte caratteristiche superficiali del pianeta, e in particolare formazioni di albedo, prendono il loro nome dalle mappe di Antoniadi. Nel giugno del 1962, ricercatori sovietici dell’Istituto di radio-ingegneria ed elettronica dell’Accademia delle Scienze dell’URSS diretto da Vladimir Kotelnikov furono i primi a eseguire osservazioni radar del pianeta.Tre anni dopo, ulteriori osservazioni radar condotte con il radiotelescopio di Arecibo dagli statunitensi Gordon Pettengill e R. Dyce indicarono in modo conclusivo che il pianeta completa una rotazione in 59 giorni circa. La scoperta risultò sorprendente perché l’ipotesi che la rotazione di Mercurio fosse sincrona era ormai ampiamente accettata e vari astronomi, riluttanti ad abbandonarla, proposero spiegazioni alternative per i dati osservativi. In particolare, la temperatura notturna della superficie del pianeta risultò molto più alta rispetto al valore atteso nel caso di rotazione sincrona e, tra le varie ipotesi, fu proposta l’esistenza di venti estremamente potenti che avrebbero ridistribuito il calore dalla faccia illuminata a quella buia. L’astronomo italiano Giuseppe Colombo osservò che il periodo di rotazione era circa due terzi di quello orbitale e propose una risonanza 3:2 invece che l’1:1 prevista dalla teoria della rotazione sincrona. I dati raccolti dalla missione spaziale Mariner 10 confermarono successivamente il fatto.In considerazione di ciò, si può concludere che le mappe di Schiaparelli e Antoniadi non erano “errate”. Gli astronomi osservarono le stesse formazioni di albedo ogni seconda orbita e le registrarono, ma non prestarono attenzione a quelle viste nel frattempo, a causa delle condizioni osservative scarse dell’altra faccia di Mercurio. Le osservazioni dalla Terra non permisero di acquisire maggiori informazioni su Mercurio e le sue principali caratteristiche ci rimasero ignote finché non fu visitato dalla prima sonda spaziale, il Mariner 10. Tuttavia, recenti progressi tecnologici hanno migliorato anche le osservazioni dalla Terra e, grazie alle osservazioni condotte dall’Osservatorio di Monte Wilson con la tecnica del lucky imaging nel 2000, è stato possibile risolvere per la prima volta dettagli superficiali sulla porzione di Mercurio che non era stata fotografata dal Mariner 10.Osservazioni successive hanno permesso di ipotizzare l’esistenza di un cratere d’impatto più grande del Bacino Calorisnell’emisfero non fotografato dal Mariner 10, cui è stato informalmente dato il nome di Bacino Skinakas. La maggior parte del pianeta è stata mappata dal radiotelescopio di Arecibo, con una risoluzione di 5 km, compresi depositi polari in crateri in ombra che potrebbero essere composti da ghiaccio d’acqua. Mercurio è stato visitato per la prima volta nel 1974 dalla sonda statunitense Mariner 10, che ha teletrasmesso a terra fotografie registrate nel corso di tre successivi sorvoli. Concepito per l’osservazione di Venere e Mercurio, il Mariner 10 venne lanciato il 3 novembre 1973 e raggiunse il pianeta nel 1974. La sonda statunitense si avvicinò fino ad alcune centinaia di chilometri dal pianeta, trasmettendo circa 6.000 fotografie e mappando il 40% della superficie mercuriana. La NASA ha lanciato nel 2004 la sonda MESSENGER, il cui primo passaggio ravvicinato di Mercurio, avvenuto il 14 gennaio 2008, è stato seguito dal fly-by di ottobre 2008 ed è stato replicato il 29 settembre 2009 prima dell’ingresso in orbita attorno al pianeta, il 18 marzo 2011. In seguito al primo fly-by di Mercurio, la sonda MESSENGER ha inviato a terra le prime immagini dell’emisfero “sconosciuto” di Mercurio. Per il 2015 è invece previsto il lancio, da parte dell’ESA, della missione spaziale BepiColombo, così battezzata in onore dello scienziato, matematico e ingegnere Giuseppe Colombo (1920-1984), volta esclusivamente all’esplorazione del pianeta più interno. La densità di Mercurio si discosta molto da quella lunare e, al contrario, è molto vicina a quella terrestre. Questo lascia supporre che, nonostante le somiglianze con la Luna, la struttura interna del pianeta sia più vicina a quella della Terra, con un nucleo particolarmente massiccio (fino all’80% del raggio mercuriano) formato da elementi pesanti. Ricerche pubblicate nel 2007 su Science, condotte con radar di alta precisione negli Stati Uniti e in Russia, hanno confermato l’idea di una frazione liquida nel nucleo di ferro-nichel. È quindi possibile distinguere un nucleo interno solido e un nucleo esterno liquido. Il mantenimento di un nucleo liquido per miliardi di anni richiede la presenza di un elemento chimico più leggero, come lo zolfo, che ne abbassi la temperatura di fusione dei materiali. L’idea che il nucleo di Mercurio potesse essere liquido era già stata avanzata per spiegare la presenza di un debole campo magnetico attorno al pianeta (rilevato per la prima volta dal Mariner 10 e quantificato in un centesimo di quello terrestre). Il campo rimane comunque difficilmente spiegabile, date le piccole dimensioni di Mercurio e la sua moderata velocità di rotazione. Si suppone che il nucleo sia circondato da un mantello e da una spessa crosta. La presenza del debole campo magnetico conferma che Mercurio dispone di un nucleo metallico fluido elettricamente conduttore. Per via della sua bassa attrazione gravitazionale Mercurio è sprovvisto di una vera e propria atmosfera come quella terrestre, fatta eccezione per esili tracce di gas probabilmente frutto dell’interazione del vento solare con la superficie del pianeta. La composizione atmosferica è stata determinata come segue: potassio (31,7%), sodio (24,9%), ossigeno atomico (9,5%), argon (7,0%), elio (5,9%), ossigeno molecolare (5,6%), azoto (5,2%), anidride carbonica (3,6%), acqua (3,4%), idrogeno (3,2%). La pressione atmosferica al suolo, misurata dalla sonda Mariner 10, è nell’ordine di un millesimo di pascal. A causa dell’assenza di un meccanismo di distribuzione del calore ricevuto dal Sole e della sua rotazione molto lenta, che espone lo stesso emisfero alla luce solare diretta per lunghi periodi, l’escursione termica su Mercurio è la più elevata finora registrata nell’intero sistema solare.
Tratto da Wikipedia

Tempeste solari e brillamenti (senza dimenticare l’Evento di Carrington)

Il ciclo solare (o ciclo dell’attività magnetica solare) è il “motore” dinamico e la sorgente energetica alla base di tutti i fenomeni solari. L’attività solare viene misurata in base al numero di macchie solari che compaiono in maniera ciclica e più o meno intensa sulla superficie solare. Quando la superficie solare mostra un ampio numero di macchie, il Sole sta attraversando una fase di maggior attività e emette maggior energia nello spazio circostante. Il numero medio di macchie solari presenti sul Sole non è costante, ma varia tra periodi di minimo e di massimo. Il ciclo solare è il periodo, lungo in media 11 anni, che intercorre tra un periodo di minimo (o massimo) dell’attività solare e il successivo. La lunghezza del periodo non è strettamente regolare ma può variare tra i 10 e i 12 anni.Durante il periodo di minimo dell’attività possono passare anche settimane intere senza che sia visibile alcuna macchia sul disco del Sole, mentre durante il massimo è possibile osservare la presenza contemporanea di diversi grandi gruppi di macchie.Questo ciclo nella variazione del numero delle macchie solari venne intuito per primo dall’astronomo danese Christian Pedersen Horrebow ma il fenomeno fu riconosciuto solo nel 1845 sulla base delle osservazioni, estese su decine di anni, compiute dall’astrofilotedesco Heinrich Schwabe. Il ciclo venne poi esaminato in maniera più sistematica negli anni 50 dell’Ottocento dall’astronomo svizzero Rudolf Wolf, che introdusse il numero di Wolf per la caratterizzazione dell’attività solare. Questo numero viene calcolato moltiplicando per 10 il numero di gruppi di macchie presenti sul disco solare aggiungendovi poi il numero di macchie presenti in tutti i gruppi. Questo numero viene poi rinormalizzato per tenere conto delle differenti prestazioni degli strumenti utilizzati dai vari osservatori.L’attività solare si manifesta in svariati modi e oltre alla variazione del numero di macchie solari, molti fenomeni osservabili del sole manifestano variazioni cicliche undecennali, tra cui la frequenza di brillamenti solari, espulsioni di massa coronali, come pure la frequenza di aurore sulla terra.

Attività solare e variazioni del clima terrestre

Da sempre la comunità scientifica ha riconosciuto nel Sole l’elemento che fornisce la quasi totalità dell’energia che muove le dinamiche climatiche terrestri (venti, piogge, correnti oceaniche, movimenti delle nuvole e delle masse d’aria ecc.) Più complicato è stato trovare quanto e come l’attività del Sole influisca oggi sulle variazioni del clima terrestre. Fino a qualche anno fa la quasi totalità della comunità scientifica internazionale, sulla base della ricostruzione del clima da parte dei modelli, aveva maturato la convinzione che da sole le variazioni più o meno periodiche nella intensità della radiazione solare, non riuscirebbero a giustificate il forte riscaldamento attuale perché al più potevano provocare fluttuazioni di non più di 0.2 °C nel clima terrestre nell’arco di qualche decennio. Tuttavia oggigiorno molti studiosi fanno notare che l’influenza del Sole sul clima della Terra si esplica, non tanto attraverso le fluttuazioni – modeste – della quantità di energia solare in arrivo sul pianeta, quanto piuttosto attraverso un meccanismo più complesso legato all’attività solare. L’attività del Sole, infatti, viene misurata non in base alla quantità di energia irradiata nello spazio dalla nostra stella ma quanto piuttosto dal numero di macchie solari (Sunspot Number) che compaiono sulla sua superficie e che raggiungono un valore massimo ogni 11-12 anni. Approfonditi studi portati a termine nel 2009 da scienziati statunitensi e tedeschi del National Center for Atmospheric Research (NCAR) a Boulder, Colorado, avvalendosi di più di un secolo di osservazioni meteorologiche e delle tecnologie più avanzate attualmente disponibili, sono riusciti a dimostrare come avviene tale legame tra attività solare e fluttuazione del clima terrestre, spiegando in dettaglio la complessa interazione tra la radiazione solare, l’atmosfera e l’oceano. I risultati degli studi, pubblicati sul Journal of Climate e su Science, dimostrano come anche un piccolo aumento di attività solare influenza in maniera determinante l’area tropicale e le precipitazioni di tutto il globo terrestre. In particolare gli effetti di una maggiore attività solare si fanno sentire in maniera forte nel riscaldamento della troposfera tropicale (dove aumenta la quantità di ozono prodotta dai raggi UVA), nell’aumento della forza dei venti alisei, nell’aumento dell’evaporazione nella zona equatoriale e nell’aumento dell’annuvolamento e delle precipitazioni. Lo studio rileva come ci sia una indubbia associazione fra il periodico picco dell’attività solare e lo schema delle precipitazioni e della temperatura superficiale delle acque del Pacifico. Il modello messo a punto dai ricercatori mostra anche le influenze che i picchi solari hanno con due importanti fenomeni collegati al clima: La Niña e El Niño che sono originati da eventi associati ai cambiamenti nella temperatura delle acque superficiali del Pacifico orientale. In particolare l’attività solare risulta influire su La Niña e El Niño, rafforzandoli o contrastandoli. Molti climatologi ritengono che, al fine di comprendere meglio i meccanismi legati ai cambiamenti climatici e per rendere più affidabile gli scenari climatici futuri, tali studi sono importanti per capire la base naturale della variabilità climatica e per comprendere come la variabilità climatica naturale, in tempi diversi, sia significativamente influenzata dal sole.

Tempeste solari

Una tempesta geomagnetica è un disturbo della magnetosfera terrestre, di carattere temporaneo, causato dall’attività solare e rilevabile dai magnetometri in ogni punto della Terra. Durante una tempesta solare il Sole produce forti emissioni di materia dalla sua corona che generano un forte vento solare, le cui particelle ad alta energia vanno ad impattare il campo magnetico terrestre dalle 24 alle 36 ore successive all’emissione di massa coronale. Ciò accade soltanto qualora le particelle del vento solare viaggino in direzione della Terra. La pressione del vento solare cambia in funzione dell’attività solare e tali cambiamenti modificano le correnti elettriche presenti nella ionosfera. Le tempeste magnetiche generalmente durano dalle 24 alle 48 ore, anche se alcune possono durare per diversi giorni. Nel 1989, una tempesta elettromagnetica si verificò sui cieli del Québec, causando un’aurora boreale visibile fino in Texas.

Radiazioni pericolose

Il vento solare rilascia intense particelle ad alta energia che possono generare delle radiazioni dannose per gli esseri umani, allo stesso modo delle radiazioni nucleari a bassa energia. L’atmosfera e la magnetosfera terrestri agiscono fornendo una adeguata protezione a livello del suolo, ma gli astronauti nello spazio sono soggetti a dosi potenzialmente letali di radiazioni ionizzanti. La penetrazione di particelle ad alta energia nelle cellule può causare il danneggiamento cromosomico, il cancro ed altri problemi di salute. Alte dosi potrebbero essere fatali. I protoni solari con energia superiore ai 30 MeV sono particolarmente pericolosi. Nel mese di ottobre del 1989, il Sole produsse particelle tanto energetiche da poter causare la morte di un astronauta che si fosse trovato sulla Luna con la sola protezione della tuta spaziale. I protoni solari possono produrre problemi di radiazioni anche a bordo di voli di linea alle elevate altitudini. Sebbene questi rischi siano bassi, il monitoraggio delle emissioni solari consente di valutare un eventuale cambio del piano di volo.

Brillamento solare

In astronomia, un brillamento solare o più esattamente brillamento stellare o anche eruzione solareeruzione stellare, è una violenta eruzione di materia che esplode dalla fotosfera di una stella, con un’energia equivalente a varie decine di milioni di bombe atomiche. I brillamenti delle stelle creano delle spettacolari protuberanze solari ed emettono fasci di vento solare molto energetico; in particolare la radiazione emessa da questi fenomeni nel Sole può rappresentare un pericolo per le navi spaziali al di fuori della magnetosfera terrestre, e che interferisce con le comunicazioni radio sulla Terra. I brillamenti sono spesso associati alle macchie solari e sono probabilmente causati dal rilascio di energia in occasione del fenomeno di riconnessione delle linee di campo magnetico.Questi fenomeni furono osservati per la prima volta nel 1859 dall’astronomo britannico Richard Christopher Carrington, e recentemente sono anche stati osservati su varie altre stelle. La frequenza dei brillamenti varia: da molti al giorno quando il Sole è particolarmente “attivo”, a circa uno alla settimana quando invece è “quieto”. Essi impiegano molte ore o anche giorni per “caricarsi”, ma l’eruzione solare vera e propria impiega pochi minuti per rilasciare la sua energia. Le onde d’urto risultanti viaggiano lateralmente attraverso la fotosfera e verso l’alto attraverso la cromosfera e la corona, a velocità dell’ordine di 5.000.000 di chilometri all’ora (ovvero 1.389 km/s, contro i 300.000 chilometri al secondo della velocità della luce).I brillamenti solari sono classificati in cinque classi di potenza a seconda della loro luminosità nei raggi X, misurata a Terra in Watt/m2 e nella banda tra 0,1 e 0,8 nm. In ordine crescente di potenza sono A, B, C, M e X. Ogni classe è dieci volte più potente di quella precedente, con la più potente X pari a un flusso di 10-4 W/m2, ed è ulteriormente suddivisa linearmente in 9 classi, numerate da 1 a 9. Per esempio un brillamento M5 è la metà di un brillamento M10, cioè X1, a sua volta la metà di un brillamento X2. Un brillamento X2 è pertanto 4 volte più potente di un M5 e 10 volte più potente di un evento M2. Oltre la classe X9, la più alta, la numerazione prosegue linearmente. Brillamenti di tale entità sono rari, come quelli del 16 agosto 1999 e del 2 aprile 2001, di potenza X20, cioè due volte più potenti di un X10, il fondoscala della classe X. Il record del più potente flare mai registrato è detenuto dall’evento del 4 novembre 2003, inizialmente stimato in X45 e successivamente corretto in X28. L’attività solare di routine si trova compresa tra le classi A e C, mentre la classe M è raggiunta solo in prossimità e durante il massimo del ciclo undecennale del Sole. I brillamenti X si concentrano quasi esclusivamente nei periodi di picco dell’attività e sono quindi relativamente rari, poche decine per ogni ciclo solare. Brillamenti come quello del 4 novembre 2003 sono ancora più rari, e avvengono solo poche volte per secolo, come l’evento di Carrington. La regione di macchie solari 486 che produsse il brillamento del 2003 era la più turbolenta mai osservata.Le particelle energetiche emesse da questi fenomeni solari sono le prime responsabili dell’aurora boreale e di quella australe.Il rischio posto dalle radiazioni da esse emesse è uno dei problemi maggiori per le missioni umane su Marte attualmente in discussione. Occorrerà un qualche tipo di scudo fisico o magnetico.La navetta Hinode chiamata originariamente Solar B, è stata inviata nel settembre 2006 dalla Agenzia Spaziale Giapponese con lo scopo di osservare e studiare in maniera più dettagliata le eruzioni del sole. La missione si è concentrata soprattutto sulla osservazione dei potenti campi magnetici solari, individuati secondo la teoria più accreditata come la fonte del fenomeno.

L’Evento di Carrington fu la più grande tempesta geomagnetica o solare mai registrata. Fu visualizzata il primo settembre 1859 e deve il suo nome a Richard Carrington, un astronomo inglese che, grazie al suo studio delle macchie solari, fu precursore anche della Legge di Spörer. L’evento produsse i suoi effetti su tutta la Terra dal 28 agosto al 2 settembre. La tempesta provocò notevoli disturbi all’allora recente tecnologia del telegrafo, causando l’interruzione delle linee telegrafiche per 14 ore e produsse un’aurora boreale visibile anche a latitudini inusuali (es. Roma, Giamaica,Hawaii e Cuba). Ebbe un indice DST pari a -850 nanotesla.  L’indice DST significa disturbance by storm e misura l’intensità di una tempesta magnetica (ad una maggiore intensità corrisponde un numero più basso). Giovedì 1º settembre 1859 alle ore 11,18 in una mattinata serena priva di nuvolosità, mentre era dedito all’osservazione del Sole attraverso un telescopio che ne proiettava l’immagine su uno schermo,Richard Carrington, allora all’età di 33 anni, accentrò la sua attenzione su un paio di luci accecanti apparse improvvisamente dentro una formazione di macchie solari che stava studiando; avevano una strana forma a fagiolo ed eguagliavano, se non superavano addirittura, la stessa luminosità della nostra stella. Agitatissimo, comprendendo di essere testimone di un evento straordinario, corse a cercare qualcuno che avallasse la sua scoperta; ma purtroppo quando ritornò, con sua grande sorpresa s’accorse che l’intensità di quelle luci si era alquanto affievolita fino a scomparire. Il giorno successivo, poco prima dell’alba, i cieli nei pressi delle latitudini di Cuba, Bahamas, Giamaica, El Salvador ed Hawaii si colorarono di rosso sangue a causa di intense e variopinte aurore, la cui causa era da riportare a quelle luci che Carrington la mattina precedente aveva avuto la fortuna di poter osservare, ed altro non erano che flare, esplosioni magnetiche che avvenivano sulla superficie solare.

Vento solare

Il vento solare è un flusso di particelle cariche emesso dall’alta atmosfera del Sole: esso è generato dall’espansione continua nello spazio interplanetario della corona solare. Questo flusso è principalmente composto da elettroni e protoni con energie normalmente compresi tra 1.5 e 10 keV. Il flusso di particelle mostra temperature e velocità variabili nel tempo e con andamenti legati al ciclo undecennale dell’attività solare. Queste particelle sfuggono alla gravità del Sole per le alte energie cinetiche in gioco e l’alta temperatura della corona che accelera, trasferendo ulteriore energia, le particelle. Negli anni trenta, gli scienziati avevano determinato che la temperatura della corona solare doveva essere di un milione di gradi Celsius a causa della maniera in cui risaltava nello spazio (quando vista durante un’eclissi totale). Studi eseguiti con lo spettroscopio confermarono questo livello di temperatura. A metà degli anni cinquanta il matematico britannico Sydney Chapman calcolò le proprietà che doveva avere un gas a quella temperatura e determinò che era un conduttore di calore tale che doveva estendersi grandemente nello spazio, ben oltre l’orbita della Terra. Sempre negli anni ’50 lo scienziato tedesco Ludwig Biermann studiò le comete e il fatto che la loro coda puntava sempre in direzione opposta al Sole. Biermann postulò che ciò avvenisse a causa dell’emissione da parte del Sole di un flusso costante di particelle in grado di spingere lontano alcune particelle ghiacciate della cometa, formandone la coda. Eugene Parker capì che il flusso di calore dal sole nel modello di Chapman e la coda della cometa soffiata via dal sole nell’ipotesi di Biermann dovevano essere il risultato dello stesso fenomeno. Parker dimostrò che sebbene la corona solare fosse fortemente attratta dalla forza di gravità del sole, era un tale buon conduttore di calore che era ancora molto calda a grandi distanze. Poiché la forza di gravità si indebolisce con il quadrato della distanza dal Sole, la corona solare esterna sfugge nello spazio interstellare L’opposizione all’ipotesi di Parker sul vento solare fu forte. L’articolo che sottopose all’Astrophysical Journal nel 1958 venne rifiutato dai due revisori. Venne salvato dal correttore di bozze Subrahmanyan Chandrasekhar (meglio noto come Chandra, che nel 1983 ricevette il Premio Nobel per la fisica). Negli anni sessanta l’ipotesi venne confermata mediante osservazioni dirette da satellite del vento solare. Comunque l’accelerazione del vento solare non è ancora chiara e non può essere spiegata dalla teoria di Parker. Il vento solare è un plasma tenuissimo, la cui componente di ioni è formata, normalmente, per il 95% da protoni ed elettroni (in proporzione circa uguale) e per il 5 % da particelle alfa (nuclei di elio) con tracce di nuclei di elementi più pesanti. Vicino alla Terra, la velocità del vento solare varia da 200 km/s a 900 km/s, mentre la sua densità varia da alcune unità a decine di particelle per cm cubo. La velocità del vento solare è nettamente superiore allavelocità di fuga di tutti i pianeti del sistema solare, essendo la più alta (quella di Giove) pari a soli 59.54 km/secondo: il moto prosegue in linea retta, non deviato dalle orbite dei pianeti. Pertanto, il vento solare impiega da 2 a circa 9 giorni per percorrere i 149.600.000 km che mediamente separano la Terra dal Sole. Il Sole perde circa 800 milioni di kg di materiale al secondo eiettandolo sotto forma di vento solare (rispetto alla massa del Sole questa perdita è del tutto insignificante). Il plasma del vento solare porta con sé il campo magnetico del Sole in tutto lo spazio interplanetario fino ad una distanza di circa 160 unità astronomiche (una unità astronomica rappresenta la distanza media tra la Terra ed il Sole). Poiché le linee di forza del campo magnetico del vento solare rimangono collegate alla loro origine nella fotosfera, l’espansione radiale del vento solare dal Sole e la rotazione di questo (periodo 28 giorni) fanno sì che le linee del campo magnetico si curvino in modo da formare una spirale. Il vento solare interagisce con il campo magnetico terrestre e lo confina in una regione di spazio detta magnetosfera. Le variazioni nel tempo della pressione dinamica del vento solare e dell’intensità e orientazione del suo campo magnetico perturbano in modo a volte drammatico la magnetosfera terrestre. Tali perturbazioni, insieme con gli effetti di altri disturbi provenienti dal Sole, sono oggetto di studio da parte di una disciplina emergente, la cosiddetta “meteorologia spaziale”. Tra tali effetti vi sono, ad esempio, il danneggiamento delle sonde spaziali e dei satelliti artificiali e la ben nota aurora boreale e quella australe. Altri pianeti con campi magnetici simili a quelli della Terra hanno anch’essi le loro aurore. Il vento solare crea una “bolla” nel mezzo interstellare (che è composto dal gas rarefatto di idrogeno ed elio che riempie la galassia), che prende il nome di eliosfera. Il bordo più esterno di questa bolla è dove la forza del vento solare non è più sufficiente a spingere indietro il mezzo interstellare. Questo bordo è conosciuto come eliopausa, ed è spesso considerato come il confine esterno del sistema solare. La distanza dell’eliopausa non è conosciuta con precisione. Probabilmente è molto più piccola sul lato del sistema solare che si trova “davanti” rispetto al moto orbitale del sistema solare nella galassia. Potrebbe anche variare a seconda della velocità del vento solare al momento, e a seconda della densità locale del mezzo interstellare. Si sa che è ben oltre l’orbita di Plutone. Le sonde spaziali Voyager 1 e Voyager 2, dopo aver terminato la loro esplorazione planetaria, si stanno dirigendo verso l’esterno del sistema e si spera che arrivino fino all’eliopausa. La correlazione tra vento e macchie solari è stata smentita dal confronto fra il comportamento del sole durante il minimo di attività elettromagnetica del 1996, e quella molto più elevata del 2008. In modo più evidente, si è manifestata a gennaio 2012 con la maggiore tempesta solare registrata da sette anni, in corrispondenza di un numero di giorni senza precedenti in assenza di macchie solari. L’indice KP è un indicatore dell’attività geomagnetica del pianeta, calcolato come media delle misure effettuate dell’indice K presso 13 osservatori in tutto il mondo. Fu introdotto da Bartels nel 1949 ed è stato calcolato, fin da allora, presso l’Istituto di Geofisica dell’Università di Gottinga in Germania (Institut für Geophysik of Göttingen Universty). Lo storico dei valori parte dal 1932. Nel 1951 è stato ufficialmente adottato come indice geomagnetico dalla IAGA (International Association of Geomagnetism and Aeronomy).
Tratto da Wikipedia

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