Hubble studia M 31 e la nostra Galassia

In una survey di immagini del NASA Hubble Space Telescope che comprende 2753 giovani ammassi stellari blu nella vicina galassia di Andromeda (M31), gli astronomi hanno scoperto che la Via Lattea condivide con la sua vicina di casa una percentuale di nuove stelle simile, anche in rapporto alla massa. Raggruppando per massa le stelle che si trovano all’interno di un cluster, i ricercatori sono in grado di interpretare meglio i processi di formazione ed evoluzione delle stelle dell’Universo. Dal collage di 414 scatti del telescopio spaziale Hubble in direzione di M31 (frutto dell’ennesimo ottimo lavoro di  citizen science) gli astronomi hanno potuto scoprire come, per qualche strana ragione, apparentemente la natura “sforni” supergiganti blu e nane rosse in maniera uniforme per tutta la galassia di Andromeda, anche se la loro età oscilla fra i 4 e i 24 milioni di anni. «Abbiamo ricalcolato, per ognuna di esse, la initial mass function», ovvero la distribuzione relativa iniziale fra stelle di grande e piccola massa, spiega Daniel Weisz della University of Washington e primo autore di una ricerca appena pubblicata su The Astrophysical Journal. A sorpresa i dati che riguardano Andromeda sembrano combaciare con quelli rilevati nella nostra galassia, la Via Lattea. Curiosamente, le stelle più luminose e più massicce in questi cluster sono del 25% meno abbondanti di quanto previsto da precedenti ricerche. Un risultato che suggerisce come le stime sulla massa utilizzate nei precedenti lavori fossero evidentemente sbagliate. Le quasi 8000 immagini, per un totale di 117 milioni di stelle, sono state ottenute guardando Andromeda nel vicino ultravioletto, nel visibile e nelle lunghezze d’onda del vicino infrarosso. Il progetto Andromeda è uno delle tante collaborazioni di citizen science organizzate da Zooniverse (vedi mediaINAF). In meno di un mese, i volontari hanno catalogato 1,82 milioni di immagini, un lavoro che altrimenti avrebbe portato via qualcosa come due anni di lavoro per un team di ricerca che avesse voluto occuparsene. Mica male.
di Davide Coero Borga (INAF)

Gaia: un anno di buone osservazioni

L’Universo secondo Gaia. La missione astrofisica di ESA, che ambisce a produrre una mappa tridimensionale della nostra galassia e che in cinque anni di missione studierà oltre un miliardo di oggetti, ci regala due affascinanti immagini in dati. Si tratta di due diagrammi di Hertzsprung-Russell, ottenuti grazie ai dati provvisori della Tycho-Gaia Astrometric Solution, la distanza delle stelle la cui parallasse presenta rispettivamente un margine di incertezza inferiore al 20% (in alto) e al 10% (qui sotto), è stata utilizzata per convertire la magnitudine apparente Tycho-2 in magnitudine assoluta sull’asse y. I due diagrammi di Hertzsprung-Russell rappresentano un primo test della capacità astrometrica di Gaia (vedi sito INAF). Anche se basati sui dati raccolti nel corso di osservazioni routinarie, queste immagini ci anticipano un po’ delle emozioni che la missione ha promesso di regalarci. In linea di principio i dati raccolti finora da Gaia non sono sufficienti a ottenere parallasse e moto proprio di una stella. Tuttavia, basandoci su dati raccolti in precedenza, qualche dato buono è possibile ricavarlo fin d’ora. Le osservazioni astrometriche vengono corrette tenendo conto del Basic Angle Monitor montato su Gaia, e c’è ancora molto lavoro da fare in attesa che lo strumento meriti la nostra piena fiducia nei parametri astrometrici forniti. Ma siamo sulla buona strada. L’osservazione e lo studio dell’universo dallo spazio rappresentano una delle attività principali di INAF. Guardare il cielo dallo spazio, operare in orbita terrestre e nello spazio interplanetario consente lo svolgimento di ricerche non praticabili a terra. L’obiettivo principale della missione Gaia è quello di fornire la più vasta e precisa mappa tridimensionale della Via Lattea. Durante i cinque anni della sua attività nominale, che ha avuto inizio alla fine del 2013, la camera da un miliardo di pixel di Gaia osserva e misura con estrema precisione il moto delle stelle e le loro orbite attorno al centro della galassia. Il contributo italiano è tanto significativo da poter considerare l’Italia uno dei capofila della missione.
di Davide Coero Borga (INAF)

 

Fenomeno insolito nella Via Lattea: i dischi che hanno visto l’inferno

Un team di ricerca guidato dagli astronomi dell’università di Bonn ha messo gli occhi su quello che sembra essere un fatto davvero eccezionale. Teatro della scoperta: il cuore della galassia che abitiamo. Protagonisti una ventina di dischi di polvere e gas in rotazione attorno a stelle particolarmente grandi e calde. Il semplice fatto che in presenza di un campo di radiazione ultravioletta di questa portata esista e resista un agglomerato di polveri e gas è un fatto unico. Se poi il fenomeno si ripresenta in una ventina di situazioni analoghe è naturale che gli scienziati ne restino sbalorditi.
I ricercatori dell’Università di Bonn stanno infatti cercando di formulare ipotesi utili a spiegare come dischi con queste caratteristiche possano resistere all’evaporazione in queste condizioni estreme. I primi risultati sono stati pubblicati su Astronomy & Astrophysics.
Il centro della Via Lattea è un vivaio di stelle: nel suo cuore si sono formate più stelle che in qualsiasi altro angolo remoto nella Galassia. Gli ammassi stellari oggetto dello studio hanno a malapena qualche milione di anni e contengono stelle cento volte più massicce del nostro Sole. «Ci saremmo aspettati che la spaventosa energia emessa da queste bestie giganti avrebbe fatto evaporare il materiale intorno a loro in meno di un milione di anni, e invece ecco qui oltre venti dischi di polveri e gas per ciascuno dei cluster presi in analisi», ammette Andrea Stolte del Argelander Institute for Astronomy dell’Università di Bonn.
Insieme al Max-Planck-Institute for Astronomy, l’Astronomical Calculation Institute dell’Università di Heidelberg e con l’aiuto dei gruppi di ricerca di Los Angeles, Honolulu, Dearborn e Baltimora, Stolte e colleghi hanno fra le mani uno studio che, almeno in apparenza, sembra rimettere in discussione le teorie accreditate circa la sopravvivenza di questi dischi all’interno dei bollenti vivai stellari della Via Lattea.
Come possano polveri e gas resistere al fuoco infernale delle stelle vicine è sconcertante. Gli astronomi stanno valutando due possibilità: o gas e dischi di polvere mostrano una resistenza che non ha precedenti al loro ambiente ostile, o deve esistere un meccanismo ancora non evidente che li ricarica continuamente. E una soluzione potrebbe nascondersi nelle stelle binarie: la compagna più grande potrebbe insomma fornire combustibile alla gemella più piccola e rifornire di materiale il disco quanto basta per compensarne le perdite evaporate a causa dalla fortissima radiazione ultravioletta che circonda la coppia.
Qualunque sia lo scenario, queste osservazioni aprono la porta ad un’idea altrettanto estrema ma non del tutto impossibile: se dischi densi di gas e polvere sono in grado di sopravvivere per lunghi periodi di tempo in questo ambiente ostile, allora anche lì potrebbero persino esserci le condizioni per la formazione di pianeti.
di Davide Coero Borga (INAF)

Pasto stellare per il buco nero

Quando una stella arriva a una distanza critica da un buco nero supermassiccio (SMBH) le poderose forze mareali deformano la stella creando un flusso di detriti che cadono all’interno del buco nero illuminando lo spazio circostante con una “fiammata” luminosa. E’ questo lo spettacolo a cui ha assistito un gruppo di ricercatori utilizzando un piccolo telescopio – il ROTSE IIIb – presso McDonald Observatory (negli Stati Uniti) per un’analisi durata ben 5 anni. Pubblicando i dati della ricerca su The Astrophysical Journal, gli scienziati sono riusciti a testimoniare il vorace pasto di un buco nero.
Il 21 gennaio 2009 il telescopio ROTSE IIIb ha catturato un evento estremamente luminoso. L’ampio campo di vista consente al telescopio di scattare immagini di grandi porzioni cielo ogni notte alla ricerca di nuove stelle che esplodono. Con una magnitudo di -22,5, l’evento registrato a inizio 2009 è stato brillante e potente come l’esplosione di una supernova superluminosa (le più brillanti esplosioni stellari finora conosciute) scoperta sempre grazie a questo telescopio. L’evento è stato ribattezzato Dougie (nome familiare per i fan di South Park), anche se il suo nome tecnico è ROTSE3J120847.9+430121. Il team di esperti ha pensato si trattasse di una supernova e per questo hanno cercato per molto tempo la sua galassia ospite, impresa impossibile perché sarebbe stata troppo debole da essere vista da ROTSE. Qualche tempo dopo hanno scoperto che la Sloan Digital Sky Survey aveva già mappato una debole galassia rossa proprio nella zona dell’evento Dougie. Utilizzando poi uno dei giganti telescopi Keck alle Hawaii, il gruppo di scienziati è riuscito a capire la distanza della galassia da noi, circa tre miliardi di anni luce.
Il problema successivo è stato quello di definire e caratterizzare l’evento: una supernova superluminosa oppure la collisione tra due stelle di neutroni? Il team ha anche pensato a un lampo gamma o a un evento ancora più distruttivo, cioè proprio quello che stavano cercando. Una stella è stata smembrata, nel vero senso della parola, man mano che si avvicinava al buco nero al centro della sua galassia ospite. Gli esperti hanno poi ripreso le osservazioni, prima all’ultravioletto con il telescopio orbitante Swift e poi raccogliendo dati con il telescopio ottico Hobby-Eberly. Hanno anche usato dei modelli al computer su come la luce di diversi processi fisici potrebbero spiegare il comportamento di Dougie.
Il principale autore dello studio, Jozsef Vinko dell’Università di Seghedino in Ungheria, ha spiegato che monitorando la variazione di luce «abbiamo capito che si trattava di qualcosa che nessuno aveva mai visto prima». J. Craig Wheeler, dell’Università del Texas, ha aggiunto che «l’immensa forza gravitazionale del buco nero tira la stella da un lato più che da un altro provocando strappi che distruggono la stella», dopo averla deformata fino a darle una forma allungata “a spaghetto”. Il ricercatore ha sottolineato, inoltre, che la stella «non cade direttamente al centro del buco nero, bensì dovrebbe formare prima un disco».  Al temine della ricerca gli esperti hanno affermato che Dougie era una stella dalla massa simile al nostro Sole prima di essere “divorata”. In più hanno scoperto che il buco nero ha una massa pari a un milione di soli.
In realtà non è la prima volta che si parla di questo fenomeno, ma è la prima volta che gli astronomi assistono a un evento così raro: la stella “è dura a morire”, a quanto sembra, insomma, si ribella al buco nero. Alcuni modelli sviluppati dal team di James Guillochon di Harvard e di Enrico Ramirez-Ruiz dell’Università della California, Santa Cruz, hanno dimostrato che la materia stellare stava generando così tanta radiazione che ha spinto indietro la stella: dai dati sembra che il buco nero stesse quasi soffocando durante il lauto spuntino.
di Eleonora Ferroni (INAF)

Il mistero del mezzo interstellare: le nuove mappe della Via Lattea

Della materia che occupa la vasta distesa tra i sistemi di stelle all’interno di una galassia sappiamo ancora pochissimo, ma grazie allo studio appena presentato da un gruppo internazionale di scienziati, tra cui spicca la partecipazione della Johns Hopkins University, potremmo essere a un passo dalla soluzione di quel puzzle noto come ‘polvere di stelle’ che da quasi un secolo ancora resta un mistero. I ricercatori sono convinti che il loro lavoro dimostri, nei fatti, un nuovo modo di ottenere localizzazione e composizione della materia che si nasconde fra le stelle della Via Lattea. Un insieme di materiali che comprende polveri e gas composti da atomi e molecole, residui di stelle che hanno concluso il loro ciclo vitale. Materiale che certo costituisce la base per nuove stelle e pianeti. “Si dice che, in fondo, siamo tutti polvere di stelle, dal momento che tutti gli elementi chimici più pesanti dell’elio sono prodotti nelle stelle”, spiega Rosemary Wyse, docente di fisica e astronomia alla Johns Hopkins e prima autrice della ricerca che ha permesso di disegnare la nuova mappa della Galassia. “Ma quel che non sappiamo ancora è perché le stelle preferiscano alcuni luoghi dello spazio per il loro processo di formazione. Questo lavoro ci fornisce nuovi elementi per comprendere il mezzo interstellare da cui si formano gli astri che punteggiano l’Universo”. In particolare lo studio si concentra su un particolare fenomeno di assorbimento della luce stellare, conosciuto come diffuse interstellar band (DIBS). Noto dagli anni Venti del secolo scorso, consiste nella mancanza di alcune linee nello spettro luminoso di stelle, che, per la loro posizione rispetto a noi, si trovano ‘nascoste’ dietro un mezzo interstellare che per proprietà chimiche ne assorbe parte della luce. Dal 1922, anno della prima scoperta, gli scienziati hanno riscontrato oltre 400 fenomeni di DIBS. La materia che causa le bande nere nello spettro luminoso, come d’altra parte la sua precisa ubicazione, è però rimasta un mistero. Il tipo di assorbimento che si registra indica presenza di grandi molecole complesse. Ma non esistono evidenze scientifiche. Inutile dire che fisica e chimica di queste regioni sono elementi chiave per comprendere i processi di formazione di stelle e galassie. Indizi più concreti ora possono essere dedotti dalle mappe appena pubblicate su Science, e prodotte dai 23 scienziati che hanno partecipato allo studio. Le mappe sono state assemblate grazie ai dati raccolti dal Radial Velocity Experiment – un progetto che coinvolge oltre 20 istituti sparsi per il mondo e coordinato dal Leibniz-Institut für Astrophysik di Potsdam – in 10 anni di attività, utilizzando lo UK Schmidt Telescope in Australia. Dati per 500.000 stelle: un campione significativo che ha permesso ai cartografi di determinare la distanza cui si trova il materiale che provoca i DIBS e di conseguenza come il mezzo interstellare si distribuisca in tutta la Via Lattea. Ma dalle mappe si vede anche di più. Le molecole complesse ritenute responsabili del fenomeno dei DIBS sono infatti distribuite in modo diverso rispetto ad altri componenti conosciuti del mezzo interstellare (le particelle solide che solitamente chiamiamo polveri). “Per capire qualcosa di più sul mezzo interstellare, dobbiamo anzitutto avere un’idea chiara di come sia distribuito all’interno della nostra galassia”, conclude Wyse. “E questo è quanto ha prodotto il nostro lavoro. In futuro potremo raccogliere maggiori dettagli, ora abbiamo un metodo che funziona”.
di Davide Coero Borga (INAF)

Quelle stelle ai confini della Galassia

Sono oggi le due stelle della Via Lattea più lontane che si conoscano, alla distanza record di 775.000 e 900.000 anni luce da noi. ULAS J0744+25 e ULAS J0015+01, entrambe giganti rosse, si trovano nell’alone galattico, la gigantesca bolla di gas e stelle che circonda il disco della nostra Galassia e che si estende per centinaia di migliaia di anni luce. “La distanza di queste stelle è davvero difficile da comprendere” dice John Bochanski dell’Haverford College negli Stati Uniti, che ha guidato la scoperta, pubblicata sulla rivista The Astrophysical Journal Letters . “Per dare un’idea dei valori in gioco, la luce di ULAS J0015+01 che abbiamo osservato con i nostri strumenti ha lasciato la stella quando i nostri progenitori iniziavano timidamente ad accendere i primi fuochi sulla Terra”. In termini meno prosaici, le due stelle sono cinque volte più lontane di quanto non sia la Grande Nube di Magellano e addirittura si trovano più o meno a un terzo dello spazio che separa la nostra Galassia da quella di Andromeda. Il team di Bochanski ha inizialmente selezionato alcuni oggetti contenuti nei cataloghi dell’UKIRT Infrared Deep Sky Survey e della Sloan Digital Sky Survey, alla ricerca di stelle giganti rosse. Questa classe di oggetti celesti è costituita da astri assai brillanti e quindi osservabili a grandi distanze. I ricercatori sono dapprima riusciti, per alcuni di essi, a confermare la natura di giganti rosse per via spettroscopica con il telescopio MMT in Arizona. Successivamente, si sono concentrati con analisi più approfondite su due in particolare, ovvero ULAS J0744+25 e ULAS J0015+01, e sempre con il MMT, per determinare la loro la distanza. Tutti i metodi utilizzati confermano per entrambi i valori record, rispettivamente, di 775.00 e 900.000 anni luce. Ma la scoperta ha delle importanti implicazioni che vanno oltre il semplice primato di distanza e può aiutare gli astronomi a ricostruire le proprietà dell’alone galattico e della storia evolutiva della Galassia. “Le teorie attuali predicono la presenza di un alone stellare così esteso, costituito dai resti di piccole galassie nane che si sono fuse nel corso del tempo per formare la Via Lattea”, dice Beth Willman, sempre dell’Haverford College, che ha partecipato allo studio. “Le proprietà delle stelle giganti rosse dell’alone conservano quindi informazioni sulla storia della formazione della nostra Galassia”.
di Marco Galliani (INAF)

Il disco di materia e stelle della nostra Galassia si ispessisce verso il bordo: effetto della materia oscura?

Sono solo 5, ma le stelle ai confini della nostra Galassia studiate dal team di ricercatori che ha pubblicato un articolosull’ultimo numero della rivista Nature promettono di avere una grande importanza sulla nostra comprensione della struttura della Via Lattea. Queste stelle si trovano acirca 80.000 anni luce da noi, in direzione opposta al centro galattico, ai bordi esterni del disco di stelle della nostra Galassia. La loro proprietà è che si trovano ad una distanza dal piano galattico molto maggiore rispetto a tutte le altre stelle. Questa loro particolare posizione conferma per la prima volta dal punto di vista della distribuzione stellare quello che alcuni anni fa era già stato scoperto dai radioastronomi osservando la configurazione dell’idrogeno neutro e delle nubi molecolari nella Via Lattea: lo spessore della materia che compone il suo disco sembrerebbe crescere in prossimità del bordo.  Una galassia, la nostra, dai fianchi larghi insomma. Il gruppo di ricerca guidato da Michael Feast, dell’Università di Cape Town in Sud Africa è riuscito a determinare con precisione e sicurezza la distanza di cinque stelle variabili, che appartengono alla ben conosciuta tipologia delle cefeidi. Questi oggetti celesti sono un affidabile ‘metro’ per misurare le distanze nel cosmo grazie alla relazione che esiste tra il loro periodo di variabilità e la loro luminosità assoluta. Grazie ad accurate misure nelle bande della radiazione infrarossa, che è meno sensibile rispetto a fenomeni di assorbimento dovuti al gas e alla polvere della Galassia frapposti  lungo la nostra linea di vista, gli astronomi sono riusciti a misurare con precisione la distanza e la posizione di queste stelle cefeidi. A certificare in modo definitivo l’appartenenza di questi astri alla nostra Via Lattea sono arrivate poi le misure delle loro velocità radiali, che hanno permesso di verificare che queste stelle si muovono con un andamento del tutto simile a quelle disposte sul disco galattico a distanze simili dal centro. Il perché la distribuzione di materia ordinaria nella nostra Galassia segua questo andamento è però ancora tutt’altro che chiarito. “Questo ispessimento del bordo del disco potrebbe essere dovuto al fatto che nelle zone periferiche c’è meno materia in grado di confinare il gas e le stelle in una struttura schiacciata, come succede nella regione dove si trova il nostro Sole” dice Patricia Withelock, dell’Osesservatorio Astronomico del Sud Africa, tra gli autori dello studio. La questione è complicata poiché bisogna tenere conto sia del contributo della massa ordinaria dovuto al gas e alle stelle, sia degli effetti dovuti all’alone di materia oscura che circonda la Via Lattea. Ma quest’ultimo potrebbe non essere così decisivo per determinare la struttura periferica del disco galattico, come suggerisce Giuseppe Bono, Astronomo dell’INAF e professore presso l’Università Tor Vergata di Roma: “Il disco potrebbe essere influenzato da galassie che sono state cannibalizzate in passato dalla Via Lattea. Questo si ripercuoterebbe sulla distribuzione delle stelle e in parte anche del gas presenti nel disco esterno della Galassia. Analizzando i dati a nostra disposizione in questo momento tenderei a pensare che ci siano diverse possibilità per spiegare quello che noi osserviamo e non è detto che sia dovuto solo alla presenza dell’alone oscuro che deforma il disco”.
di Marco Galliani (INAF)

Per saperne di più:

  • Ascolta l’approfondimento di Giuseppe Bono sul sito INAF

Lampo di luce dal Buco Nero

Sono miliardi di galassie nel cosmo che ruotano su se stesse in quello che sembra un “sonnacchioso” procedere. Ma l’apparente tranquillità di questo incedere potrebbe essere paragonata a quella del predatore che attende immobile la sua preda. Uno scatto repentino e le fauci che si aprono smentiscono in un istante quella apparente tranquillità. Così ogni tanto un lampo di luce esplode dal centro della galassia. La preda in questo caso è una stella che orbita troppo vicino all’orizzonte degli eventi di un buco nero supermassiccio centrale della galassia e per questo finisce lacerata dall’attrazione gravitazionale, riscaldando il suo gas e emettendo una luce come un faro che invia il suo segnale ai confini dell’universo. Ma in questo cosmo fatto di miliardi di galassie come possiamo cogliere questo improvviso faro? Come possiamo distinguere quel segnale luminoso dai tanti che i turbolenti eventi che caratterizzano l’universo producono? Sono quesiti che hanno un obiettivo. Come è noto i buchi neri di per sé non emettono luce, sono oggetti la cui attrazione gravitazionale è tale da non permettere neanche alla luce di fuggire, così da renderli luminosi ai nostri occhi. L’occasione migliore per scoprirli in galassie lontane è quando e se interagiscono con le stelle e il gas che li circondano. Ma negli ultimi decenni, grazie a migliori telescopi e tecniche di osservazione, gli scienziati hanno notato che alcune galassie, in precedenza apparentemente inattive, si accendevano improvvisamente al loro centro. “Questo bagliore di luce è stato trovato avere un comportamento caratteristico in funzione del tempo”, dice Tamara Bogdanovic, assistente professore di fisica presso il Georgia Institute of Technology. “Inizia molto luminoso e poi la sua luminosità diminuisce in un certo lasso di tempo che ne fa un elemento distintivo”. Utilizzando un insieme di approcci teorici e computazionali, Bogdanovic cerca di prevedere i segnali che caratterizzano eventi come quello sopra descritto e comunemente chiamato della “tidal disruption” (pertubazione mareale). Segnali che se codificati potrebbero essere utili osservando tali eventi con telescopi da Terra. Per capire la sua utilità basti pensare che una galassia come la nostra Via Lattea registra fenomeni di disgrgazione stellare una volta ogni circa 10.000 anni. La luminosa scia di luce che ne deriva, d’altra parte, può svanire nel giro di pochi anni. Questa differenza evidenzia le difficoltà osservative di tali eventi. Lo sviluppo tecnologico e il sempre maggior numero di telescopi che osservano diverse galassie, rende sempre più possibile osservare fenomeni simili e quindi accrescere le conoscenze sui buchi neri e il loro comportamento. In un recente articolo inviato all’Astrophysical Journal, Bogdanovic, con Roseanne Cheng (Centro per l’astrofisica relativistica presso il Georgia Tech) e Pau Amaro – Seoane (Albert Einstein Institute di Potsdam), ipotizzano in un modello al computer, le perturbazioni mareali create da un buco nero supermassiccio in una stella gigante rossa ad esso vicina. La pubblicazione è il frutto dello studio di un evento accaduto a 2,7 miliardi di anni luce e che ipotizzino abbia riguardato una gigante rossa chiamata PS1 – 10jh.
di Francesco Rea (INAF)

Una galassia piccina picciò

E’ un satellite della Via Lattea il nuovo oggetto celeste scoperto dal telescopio VLT Survey Telescope (VST). Si tratta di un pugno di stelle, che molto probabilmente costituiscono una galassia assai piccola, tanto piccola da meritarsi l’appellativo di subnana. La scoperta, resa possibile grazie alle qualità del VST, tra cui il suo grande campo di vista, è apparsa sul Web in un articolo sottomesso per la pubblicazione sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society.  Il lavoro porta la firma di un gruppo di astronomi britannici che lavorano nell’ambito della survey pubblica di ESO denominata ATLAS. “E’ noto da tempo che la Via Lattea è attorniata da galassie satelliti, le più brillanti delle quali sono la Grande e la Piccola Nube di Magellano, visibili magnificamente a occhi nudo dal cielo australe” commenta Massimo Capaccioli, Principal Investigator del progetto VST e membro del Consiglio di Amministrazione dell’INAF. “Solo negli ultimi anni, però, si è capito come utilizzare questi minuscoli gregari per raccogliere informazioni fondamentali sui meccanismi di formazione delle galassie”. Massimo Dall’Ora, ricercatore presso l’INAF-Osservatorio Astronomico di Capodimonte e anche lui impegnato in un progetto per la ricerca di satelliti della Via Lattea nell’altra grande survey pubblica di ESO, la Kilo Degree Survey (KiDS), spiega: “Il trucco è presto detto. La Via Lattea e i suoi gregari gravitazionali sono oggetti vicini. E’ dunque possibile osservare i singoli astri delle popolazioni stellari che li compongono e ricavare dettagli sulle loro età, composizione chimica e stato dinamico. L’insieme di queste informazioni viene poi confrontato con le previsioni dei modelli cosmologici.” Il censimento delle galassie satelliti della Via Lattea è tuttora in corso, poiché nella maggior parte dei casi si tratta di oggetti estremamente deboli e rarefatti, rivelabili solo con i moderni telescopi a grande campo e con raffinate tecniche di analisi dei dati. Ed è proprio grazie a queste nuovefacility che negli ultimi dieci anni sono stati snidati oltre il 50% degli oggetti conosciuti ad oggi, consentendo così un confronto più significativo del loro numero e della loro distribuzione con quanto previsto dai modelli cosmologici. Si è così scoperto che le briciole di materia gravitazionalmente associate alla Galassia paiono disporsi lungo una gigantesca struttura ad anello che circonda il nostro sistema di stelle passando per i suoi poli. La ricerca dei satelliti è però tutt’altro che conclusa. Le strutture deboli scoperte finora sono state per lo più rivelate dalla Sloan Digital Sky Survey (SDSS), una survey statunitense che ha però riguardato solo una parte dell’emisfero settentrionale. Il cielo a Sud è un territorio tuttora inesplorato, ed è ragionevole supporre che nasconda un cospicuo numero di oggetti ancora da scoprire. “Il telescopio ideale per un lavoro del genere”, dice ancora Capaccioli, “è il VST, per via del suo grande campo di vista (un grado quadrato) e della squisita qualità delle sue immagini. Molti sono i progetti scientifici già avviati con questo strumento, e molto ci si attende dall’analisi dei dati che sono già stati raccolti”. E’ stato accolto quindi con grande soddisfazione l’annuncio, da parte di un team della surveypubblica VST-ATLAS, della (prima) scoperta di questo nuovo satellite della Via Lattea, nella costellazione del Cratere, appena a Sud del Leone e della Vergine. L’articolo relativo, firmato da Vassily Belokurov e collaboratori, è stato sottomesso per la pubblicazione alla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, ed è disponibile sul web. La nuova struttura individuata – non è ancora ben chiaro se si tratti di una vera e propria galassia o di un esteso ammasso di stelle – appare costituita da popolazioni stellari di età differente, da quella più antica (10 miliardi di anni) alla più recente (circa 350 milioni di anni), mostrando quindi una complessa storia di formazione stellare. Questo risultato è stato discusso nel corso dello science meeting della survey pubblica ESO KiDS, anch’essa basata sui dati del telescopio VST, che si è svolto all’Osservatorio INAF di Capodimonte il 18 e 19 marzo scorsi.KiDS è un progetto internazionale a guida olandese e italiana, che copre una porzione di cielo pari a circa 1.500 gradi quadrati. L’area osservata è contenuta a sua volta in ATLAS, ma è investigata con una diversa strategia osservativa che, privilegiando la profondità all’estensione spaziale, consente di raggiungere oggetti molto più deboli di quelli osservabili con ATLAS. “L’obiettivo scientifico primario di KiDS”, dice Nicola R. Napolitano, responsabile del progetto KiDS per l’INAF-Osservatorio di Capodimonte “è di rispondere, attraverso l’osservazione di galassie lontane, ad alcune fra le più importanti questioni tuttora aperte in cosmologia. Tuttavia, nelle sue immagini sono contenute anche informazioni sulla nostra stessa Galassia, e molti ricercatori che vi collaborano sono convinti di poter ottenere importanti scoperte sulla struttura dell’alone galattico, che è l’involucro più esterno e antico della Via Lattea”. “Le osservazioni e l’analisi dei dati, sia di KiDS che di ATLAS, sono tuttora in corso, e altri annunci di satelliti scoperti dal VST sono quindi attesi con fiducia”, conclude Aniello Grado, responsabile del software delegato a estrarre i dati dalla miniera delle immagini VST. Il VST, che da tre anni osserva il cielo australe dall’Osservatorio di Cerro Paranal in Cile, è il contributo dell’INAF al programma congiunto con l’European Southern Observatory (ESO) per la realizzazione di facility per survey ottiche e infrarosse nello splendido sito andino. Un telescopio di nuova tecnologia ideato e progettato dall’INAF-Osservatorio di Capodimonte a Napoli e interamente realizzato in Italia; un esploratore dal quale ci aspettiamo conferme di ciò che pensiamo di sapere già ma anche scoperte inaspettate, sorprendenti e, con un pizzico di fortuna, persino rivoluzionarie.
di Marco Galliani (INAF)

Novità sulla nostra Galassia

Un team di scienziati capeggiato da Ivan Minchev del Liebniz Institute for Astrophysics di Posdam (AIP) e al quale hanno partecipato, tra gli altri, Ulisse Munaridell’INAF-Osservatorio Astronomico di Padova e Alessandro Siviero dell’Università di Padova, ha trovato un modo per ricostruire la storia evolutiva della nostra galassia con un livello di dettaglio mai raggiunto prima. Per i risultati ottenuti è stato decisivo lo studio di stelle vicine al Sole condotto dal consorzio RAVE (RAdial Velocity Experiment) a cui partecipano anche l’INAF e il Dipartimento di Fisica e Astronomia di Padova. Gli astronomi si sono concentrati sul comprendere la relazione che c’è tra i moti “verticali” delle stelle, i moti cioè perpendicolari al disco galattico, e la loro età. Siccome però la determinazione diretta dell’età delle stelle è difficile essi hanno analizzato invece la composizione chimica delle stelle dalla quale sappiamo che più alto è il rapporto di magnesio su ferro [Mg/Fe] più la stella è vecchia. Per effettuare questo studio il team  si è avvalso, come detto, dei dati che RAVE ha acquisito per le stelle vicino al Sole. Si è scoperto che la regola empirica “più una stella è vecchia più veloce essa si muove su e giù attraverso il disco” non si applica alle stelle con un rapporto [Mg/Fe] molto alto. Contrariamente quindi a quanto ci si aspettava c’è un brusco calo di velocità “verticale” nelle stelle molto vecchie. Per comprendere questa soprendente osservazione gli astronomi hanno sviluppato un modello per risalire all’origine di questi astri vecchi e lenti. Alla fine hanno trovato che probabilmente all’origine di ciò vi sono delle “piccole” collisioni galattiche. E’ noto che la Via Lattea, nel corso della sua storia, abbia subito centinaia e centinaia di collisioni con galassie più piccole, collisioni che non state efficaci nel mescolare le regioni massiccie vicine al centro galattico. Tuttavia esse possono aver innescato la formazione dei bracci di spirale e di conseguenza una migrazione di stelle dal centro alle parti più esterne dove si trova il Sole. Questo processo di “migrazione radiale” può essere stato in grado di trasportare verso l’esterno le stelle vecchie (che presentano un alto rapporto[Mg/Fe]) mantenendone una bassa velocità “verticale”. Perciò la migliore spiegazione del perchè le stelle più vecchie vicino al Sole abbiano velocità verticali basse è che esse siano state strappate dal centro galattico dalle passate collisoni.  La differenza poi tra le velocità di queste stelle e di quelle originate vicino al Sole svelerebbe quanto massiccie e numerose devono essere state le galassie satellite con cui la Via Lattea si è scontrata e mescolata. E questo ci potrà dare dettagli inediti dell’evoluzione galattica.
di Caterina Boccato (INAF)

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