Deep impact

Un urto di proporzioni inimmaginabili, che avrebbe innescato terremoti e tsunami di enormi dimensioni. Questo il risultato dell’impatto di un gigantesco asteroide che avrebbe colpito la Terra agli albori della sua esistenza. Era da più di 20 anni che Andrew Glikson, in forze al Planetary Science Institute dell’Australian National University, cercava le prove di uno di quegli antichi impatti di cui il nostro pianeta fu oggetto in epoche remotissime. Ora, grazie al lavoro svolto in squadra anche con Arthur Hickman del Geological Survey of Western Australia, sembra proprio che quelle prove siano state trovate. Sotto forma di reperti geologici microscopici: frammenti del diametro compreso tra 1 e 2 millimetri, simili a perline di vetro, che prendono il nome di sferule. Secondo Glikson, infatti, queste sferule sarebbero state originate da materiale vaporizzato al momento dell’impatto dell’asteroide, impatto che avrebbe provocato terremoti di magnitudo enormemente superiore a quelle degli eventi sismici con i quali ci confrontiamo oggi. E altrettanto catastrofici tsunami, tali da cambiare i connotati della giovane Terra. Si stima che il diametro dell’asteroide “incriminato” avesse un diametro compreso fra i 20 e i 30 chilometri, e che abbia dato origine a un cratere da impatto del diametro di diverse centinaia di chilometri. Ma dove? Questo rimane ancora un mistero: le tracce dei crateri risalenti a epoche tanto remote sono state rese irriconoscibili dall’attività vulcanica e dai movimenti tettonici che si sono susseguiti nel corso dell’evoluzione del nostro pianeta. Ma l’impatto avrebbe sparso materiale più o meno ovunque: le sferule rinvenute da Glikson e Hickman, in particolare, si trovavano incastonate in uno strato sedimentario, inizialmente sul fondale oceanico, fra i più antichi della Terra: risale infatti a 3,46 miliardi di anni fa. Datazione, questa, la cui precisione è resa possibile grazie al fatto che lo strato si trova, a sua volta, conservato fra due strati vulcanici. Microscopiche le prove, gigantesco l’impatto: l’asteroide responsabile della dispersione del materiale e della formazione delle sferule sarebbe uno fra i più grandi mai caduti sulla Terra, e il secondo più antico, in ordine cronologico, fra quelli dei quali si abbia conoscenza. Le sferule di vetro oggetto dello studio sono state rinvenute in un campione estratto dal sito di Marble Bar, nel nord ovest dell’Australia, sito che contiene sedimenti tra i più antichi a oggi conosciuti. Test successivi hanno dimostrato che la presenza in tali campioni di elementi come platino, nickel e cromo mostra livelli assimilabili a quelli che si riscontrano negli asteroidi. Insomma, il “colpevole” è certo. Ma secondo Glikson, cacciatore di crateri di cui avevamo già parlato qui su Media INAF, mentre a oggi sono solo 17 gli impatti da asteroide più antichi di 2,5 miliardi di anni per i quali sia stato possibile trovare prove, in realtà questi eventi potrebbero essere stati nell’ordine delle centinaia, e aver giocato un ruolo significativo nel modo in cui la Terra si è evoluta.
di Francesca Aloisio (INAF)

Vita sulla Terra grazie a Giove? È possibile

Pensate che sia Giove a farci da scudo proteggendoci dalle comete provenienti dai confini del Sistema solare? Finora questo è stato il pensiero comune a quasi la totalità della comunità scientifica. Un recente studio comparso su Astrobiology e firmato da Kevin Grazier, PhD presso il Jet Propulsion Laboratory della NASA, conferma però una teoria che già una decina di anni fa circolava fra gli esperti: non solo Giove non ci fa da scudo (concetto sovrastimato), ma sarebbe da rivalutare il ruolo che avrebbe avuto nello sviluppo della vita sulla Terra. Considerando il ruolo di Saturno sull’evoluzione della vita -precedentemente sottovalutato – con la nuova simulazione, Grazier descrive l’evoluzione di decine di migliaia di particelle negli spazi vuoti tra i pianeti gioviani per un massimo di 100 milioni di anni. Sulla base dei suoi risultati, il ricercatore ha concluso che Giove non è esattamente uno scudo per la Terra. Anzi il contrario: Giove e Saturno contribuiscono ad attirare un grandissimo numero di particelle verso il Sistema solare interno (Mercurio, Venere, Terra e Marte) e verso le orbite che incrociano il percorso della Terra. A cosa è arrivato Grazier? Nello studio ha proposto che, se esistesse un altro sistema solare con uno o più pianeti simili a Giove oltre la regione dei potenziali pianeti terrestri, questo potrebbe essere vantaggioso per un eventuale sviluppo della vita. Sherry L. Cady, caporedattrice di Astrobiology, ha detto: «In questo lavoro capiamo che “Giove come scudo” è un concetto del passato, e la ricerca futura in questo settore richiederà l’uso continuato di simulazioni come quelle effettuate da Grazier».
di Eleonora Ferroni (INAF)

L’addio ai dinosauri, nuova teoria

Estinzione dei dinosauri? Ecco la nuova soluzione al mistero. Voi direte: beh, ma ormai ci sono talmente tante teorie, che non si sa più a chi credere. Ciò su cui, però, gli esperti sono sempre stati d’accordo (almeno finora) è che l’intensa attività vulcanica avrebbe avuto un ruolo decisivo nell’estinzione di buona parte delle specie viventi.

Lava fontana di sopra la fessura vulcanica di eruzione del diluvio Holuhraun di basalto in Islanda nel mese di settembre 2014, che può essere considerato come un analogo su scala ridotta per le eruzioni nelle trappole Deccan, 65 milioni di anni fa. Crediti: Michelle Parks (Università d'Islanda)

Fontane di lava dal vulcano basaltico Holuhraunin, in Islanda nel settembre 2014. L’evento può essere considerato un analogo in miniatura delle eruzioni nei Trappi del Deccan, 65 milioni di anni fa. Crediti: Michelle Parks (Università d’Islanda)

C’è un “però” che cambia tutto, rispetto agli studi precedenti: in una nuova ricerca pubblicata oggi su Nature Geoscience, un gruppo di scienziati dell’Università di Leeds ha affermato che il vulcanismo potrebbe non essere così strettamente legato al repentino cambiamento climatico e quindi alla conseguente destabilizzazione degli ecosistemi di quel periodo. Ci sarebbe dell’altro. Come noto, anche l’impatto di un grande meteorite e la sua coda di ceneri incandescenti potrebbero aver contribuito in maniera significati alla morte dei dinosauri sulla Terra. Eventi di questo genere uniti alle eruzioni di lunga durata sui plateau basaltici, come i Trappi del Deccan in India, avrebbero portato alla fuoriuscita di quantità gigantesche di gas serra e polveri nell’atmosfera alterando il clima per anni e anni. Fino ad ora, però, l’impatto della presenza costante e abbondante di emissioni di anidride solforosa provenienti dai palteau basaltici continentali era sconosciuta: le conseguenze sono state osservate non solo sul clima, ma anche sulla vita negli oceani e sulla vegetazione dell’epoca. Nello specifico, questo studio è stato condotto dal team guidato dalla ricercatrice Anja Schmidt: «Durante il periodo dei dinosauri, nel corso di un milione di anni, numerose sono state le eruzioni di lunga durata. Questi eventi, tipici dei plateau basaltici, non possono essere paragonati alle eruzioni vulcaniche che spesso vediamo oggi, con la lava che sgorga dal terreno come una cortina di fuoco. Perlopiù, le eruzioni a quel tempo duravano decine di anni e ogni eruzione era separata da un lungo periodo di tempo in cui l’attività vulcanica era inesistente». C’è un dato che su tutti è impressionante: la ricercatrice ha stimato che la lava prodotta da un’eruzione di media intensità avrebbe riempito 150 piscine olimpioniche al minuto. Per ottenere i dati, gli esperti di Leeds hanno utilizzato delle simulazioni al computer per studiare la diffusione delle particelle di gas e degli aerosol, dimostrando i reali impatti climatici delle eruzioni: solo se queste fossero durate per centinaia di anni, senza soluzione di continuità, avrebbero potuto portare un effetto grave su piante e animali. Per stimare la portata delle emissioni di anidride solforosa, i ricercatori si sono basati sulle variabili di intensità e durata delle eruzioni sui plateau basaltici, come – appunto – quella l’Altopiano del Deccan (un terzo dell’India) 65 milioni di anni fa, al limite tra il Cretaceo-Terziario. Cosa è venuto fuori? I computer hanno mostrato che le temperature sulla Terra hanno subito effettivamente un raffreddamento di ben 4,5°C a causa delle eruzioni ma che la temperatura sarebbe poi tornata alla normalità nei 50 anni successivi all’eruzione. Schmidt ha affermato: «Abbiamo scoperto che gli effetti delle piogge acide sulla vegetazione erano piuttosto selettivi: la vegetazione in alcune parti del mondo è stata spazzata via, mentre in altre zone gli effetti sarebbero stati minimi». Si può dire lo stesso per le altre specie viventi? È questa la sfida lanciata dai ricercatori: bisogna ridefinire il ruolo del vulcanismo sull’estinzione dei dinosauri
di Eleonora Ferroni (INAF)

Svelata l’origine dell’acqua sulla Terra

L’acqua copre più di 2/3 della superficie della Terra ma la sua vera origine rimane tuttora un mistero. Finora, gli scienziati hanno cercato di capire se l’acqua fosse già presente all’epoca in cui si formava il nostro pianeta o se, invece, fosse arrivata più tardi, magari trasportata da comete e meteoriti. Oggi, però, un gruppo di ricercatori dell’Università delle Hawaii (UH) a Manoa, guidati da Lydia Hallis, una cosmochimica presso l’Istituto di Astrobiologia della NASA della UH e Marie Curie Research Fellow all’Università di Glasgow in Scozia, ha esaminato le rocce dell’Isola di Baffin in Canada i cui dati suggeriscono che l’acqua era in parte presente sin dalle fasi primordiali della formazione della Terra. Lo studio, condotto grazie all’utilizzo di una avanzata microsonda ionica, è pubblicato su Science. La microsonda ha permesso ai ricercatori di concentrarsi su piccolissime “tasche” di vetro che si trovano all’interno di queste rocce e di rivelare le minuscole quantità di acqua in esse presenti. Per far questo, gli autori hanno analizzato il rapporto idrogeno/deuterio dell’acqua che ha di fatto fornito preziosi indizi sulla sua origine. Sappiamo che l’idrogeno ha numero di massa atomica pari a uno mentre il deuterio, un isotopo dell’idrogeno che combinato con l’ossigeno dà vita all’“acqua pesante”, ha numero di massa atomica due. Inoltre, è noto che l’acqua presente in diversi corpi celesti di origine planetaria ha rapporti idrogeno/deuterio ben distinti. “Le rocce dell’isola di Baffin sono state raccolte nel 1985 e gli scienziati hanno avuto molto tempo per analizzarle nel corso degli anni”, spiega Hallis. I risultati di queste ricerche indicano che esse contengono una componente della parte profonda del mantello terrestre. Nel corso del loro spostamento verso la superficie, queste rocce non vengono mai influenzate dai processi di sedimentazione causati dalle rocce della crosta terrestre e studi precedenti hanno già dimostrato che la loro regione di provenienza è rimasta “intatta” sin dall’epoca della formazione del pianeta. In altre parole, abbiamo a che fare con alcune delle rocce più antiche che siano mai state trovate sulla superficie della Terra e perciò l’acqua che esse contengono fornisce un indizio di inestimabile valore scientifico che apre una nuova finestra sulla storia primordiale del nostro pianeta e quindi sull’origine dell’acqua. “Abbiamo scoperto che l’acqua contiene pochissimo deuterio”, continua Hallis, “una chiara evidenza che scarta l’ipotesi secondo cui essa venne trasportata dallo spazio sulla Terra. Molto probabilmente, le molecole di acqua furono già presenti nella polvere che costituiva il disco protoplanetario che circondava il Sole prima che si formassero i pianeti. Nel corso del tempo, questa polvere ricca di acqua si aggregò lentamente per formare il nostro pianeta. Anche se una buona parte dell’acqua sarebbe stata successivamente persa per evaporazione a causa del calore generato dal processo di formazione della Terra, ne sopravvisse comunque una quantità sufficiente per dar vita al “mondo d’acqua” che è diventato quello che ora conosciamo. “Si tratta di una scoperta straordinaria”, conlcude Hallis, “una di quelle che non si poteva nemmeno immaginare qualche anno fa perchè non avevamo una tecnologia adeguata. Non vediamo l’ora di proseguire in questo affascinante campo della ricerca”.
di Corrado Ruscica (INAF)

Un’eruzione vulcanica dietro la grande estinzione (tra il Permiano e il Triassico)

Un recente studio, a firma di Seth D. Burgess e altri ricercatori, in uscita su Science Advances, ha utilizzato misure ad alta precisione sull’età delle rocce vulcaniche per dimostrare che un’intensa attività vulcanica precedette l’estinzione di massa del Permiano, quello che per molti esperti è il più grave evento estintivo mai verificatosi sulla Terra. Basti pensare che circa 251,4 milioni di anni fa (molto prima che dinosauri e mammiferi facessero la loro vera e propria apparizione) sparirono dal pianeta il 90% delle specie marine, il 75% delle specie terrestri (più che altro rettili) e degli alberi ne rimase una piccola traccia. L’evento distruttivo diede inizio al periodo del Triassico. I risultati ottenuti dai ricercatori offrono oggi le prove a sostegno di una teoria appoggiata dalla comunità scientifica: l’evento causò la rapida fuoriuscita di quantità gigantesche di gas serra nell’atmosfera portando a un repentino cambiamento climatico e alla conseguente destabilizzazione degli ecosistemi. È stata ipotizzata quindi una connessione tra una delle più grandi eruzioni vulcaniche continentali mai registrate e questa particolare estinzione, anche se per stabilire un nesso di causalità è necessaria una precisa comprensione delle tempistiche dei due eventi. E oggi si brancola ancora nel buio, come si suol dire. Per confermare la possibilità di una connessione casuale, Seth Burgess e i suoi colleghi hanno delineato una successione cronologica degli eventi che precedettero e seguirono l’estinzione di massa, individuando le età di alcune rocce vulcaniche tramite tecniche di datazione uranio-piombo. I campioni di roccia vulcanica sono stati prelevati da una vasta piattaforma lavica chiamata “trappola siberiana”, 2,6 milioni di chilometri quadrati in Russia dove sotto la città di Norilsk è stato trovato uno strato di lava con uno spessore di 4 chilometri. Da questo enorme giacimento di gas si pensa sia partita la miccia dell’eruzione vulcanica e quindi poi dell’estinzione che ha messo fine al Permiano. Gli esperti affermano che il magmatismo vulcanico iniziò 300 mila anni prima dell’evento distruttivo e continuò anche dopo. Insomma, un’eruzione al momento e al posto giusto (per così dire) ha portato alla più grave estinzione sulla Terra.
di Eleonora Ferroni (INAF)

Terra: c’era vita già 3,2 miliardi di anni fa

Riuscite a immaginare la Terra come un luogo inospitale e senza vita? Ebbene, 3,2 miliardi di annifa era proprio così. Poi all’improvviso qualcosa e cambiato e la vita è cominciata a sbocciare. Gli esperti si stanno avvicinando alla soluzione del mistero: per adesso hanno già contraddetto la teoria precedente, che affermava che la vita sul nostro pianeta si sarebbe formata 2 miliardi di anni fa. La vita, almeno per alcuni microbi, può esistere anche senza ossigeno, ma senza la presenza abbondante di azoto necessaria per costruire i geni – essenziali per i virus, batteri e tutti gli altri organismi – la vita sulla Terra primordiale sarebbe stata scarsa se non impossibile. Finora, come detto, si è pensato che l’azoto abbia potuto sostenere la vita terrestre solo a partire da 2 miliardi di anni fa, ma di recente un gruppo di ricercatori dell’Università di Washington ha analizzato 52 campioni di roccia raccolti nel deserto del Nothwestern Australia e del Sudafrica risalenti a un periodo che va, appunto, da 2,75 miliardi a 3,2 miliardi di anni fa e ha scoperto che l’azoto e il processo che lo rende più facile da usare per gli organismi, chiamato azotofissazione, è emerso primaSi tratta di rocce tra le più antiche sul nostro pianeta e che quindi custodiscono le origini della nostra esistenza. L’azotofissazione è uno dei processi fondamentali per la vita sulla Terra: in poche parole si tratta della riduzione, dell’azoto molecolare (N2) in azoto ammonico (NH3), che poi è il principale responsabile della formazione dei mattoni della vita, amminoacidi, proteine, vitamine. Le rocce si sono formate da sedimenti depositati sui margini continentali, quindi sono libere di irregolarità chimiche che si verificherebbero in prossimità di un vulcano sottomarino. Gli esperti hanno inoltre scoperto che le rocce in questione si sono formate prima che l’ossigeno arricchisse l’atmosfera, quindi circa 2,3-2,4 miliardi di anni fa, ed è per questo che molti elementi chimici si sono preservati. «Gli scienziati hanno trovato che in queste rocce (sedimentarie e di basso grado metamorfico) la presenza di componente nitrogena che sembra non essere spiegabile attraverso reazioni chimiche in assenza di vita. inoltre predatano la presenza di molibdeno come catalizzatore di reazioni biotiche a prima del great oxidation event», ha spiegato a Media INAF Costanzo Federico, delDipartimento di Fisica e Geologia dell’Università di Perugia. I ricercatori «hanno fatto uno studio isotopico dell’azoto d15N e della materia organica presenti nei sedimenti. I valori isotopici sono compatibili con un’origine biogenica e non possono essere spiegati da processi abiotici come processi idrotermali o reazioni fotochimiche», ha aggiunto. Nei campioni più antichi (risalenti, cioè, a quando la Terra aveva 1,34 miliardi di anni) c’è la prova chimica che i primi esseri viventi (microbi e simili) stessero assorbendo azoto dall’atmosfera per vivere. Gli esperti hanno analizzato il rapporto tra gli atomi di azoto più pesanti e quelli più leggeri presenti in queste antichissime rocce, scoprendo che l’azoto conservato in esse come una preziosa reliquia non può che essere il prodotto del metabolismo di organismi viventi, perché non corrisponde alle reazioni chimiche che si verificano in assenza di vita. Si tratta di un processo antichissimo che va avanti inalterato da oltre 3 miliardi anni. «E’ affascinante», ha commentato Eva Stüeken, prima firma dell’articolo pubblicato sulla prestigiosa rivista Nature. «Questo ci dice che enzimi molto complessi si sono formati presto», per i ricercatori tra 1,5 e 2,2 miliardi di anni fa. E nello studio in particolare si parla di un enzima basato sul molibdeno, un elemento chimico che oggi è abbondante sulla Terra perché l’ossigeno reagisce con le rocce portandolo negli oceani. In realtà, però, la sua presenza sulla Terra primordiale, prima della comparsa dell’ossigeno, è ancora un mistero. Nei prossimi studi si cercherà di capire cosa abbia potuto limitare la vita sulla Terra primordiale, analizzando metalli come zinco, rame e cobalto. Roger Buick, co-autore della ricerca, ha detto: «Non troveremo mai alcuna prova diretta degli organismi unicellualri che popolavano la Terra, ma una prova indiretta sì. I microbi potrebbero aver strisciato fuori dell’oceano e vissuto in uno strato di melma sulle rocce a terra anche prima di 3,2 miliardi anni fa».
Eleonora Ferroni (INAF)

Oceani: progressiva acidificazione delle acque

Lo studio è appena stato pubblicato su Environmental Science and Technology, porta la firma di un team internazionale di ricercatori – Università di Exeter, Plymouth Marine Laboratory, Institut français de recherche pour l’exploitation de la mer (Ifremer) e Agenzia Spaziale Europea – e promette dirivoluzionare il modo in cui biologi marini e climatologi studiano la salute dei nostri oceani. Per garantire un monitoraggio a distanza di masse d’acqua tanto gigantesche quanto inaccessibili esiste una soluzione: possiamo affidarci agli occhi tecnologici che scrutano il pianeta dall’orbita terrestre, a 700 chilometri sopra le nostre teste. «I satelliti sono destinati a occupare un posto sempre più importante nel monitoraggio dell’acidificazione delle distese d’acqua che ricoprono il nostro pianeta», spiega Jamie Shutler, ricercatore dell’Università di Exeter e fra i firmatari dell’articolo.

Una mappatura completa del grado di alcalinità degli oceani, ottenuta grazie ai dati raccolti dai satelliti nell’orbita terrestre. Crediti: Ifremer / ESA / CNES.

Una mappatura completa del grado di alcalinità degli oceani, ottenuta grazie ai dati raccolti dai satelliti nell’orbita terrestre. Crediti: Ifremer / ESA / CNES.

«Soprattutto per ciò che riguarda quelle regioni remote e complicate da raggiunge come l’Artide. Con i satelliti è tutto più semplice, veloce, e possiamo individuare le aree a rischio in tempo reale». Ogni anno più di un quarto delle emissioni globali di anidride carbonica finisce negli oceani terrestri. Con il risultato di una progressiva acidificazione delle acque, che spesso ha conseguenze tragiche per più di una specie marina. Attualmente la misurazione di temperatura e salinità degli oceani, per determinare l’acidità delle acque marine, è limitata a strumenti in situ e dati raccolti da imbarcazioni che ospitano strumenti scientifici e ricercatori all’opera. Un approccio che di fatto confina i prelievi a piccole aree, senza parlare dei costi di gestione che necessita una nave da ricerca per essere gestita e utilizzata. Termocamere e sensori a microonde montati sui satelliti di ultima generazione possono invece essere utilizzati con facilità per misurare temperatura e salinità ovunque con un abbattimento della spesa significativo. Tecnologia che aiuta. E sono tanti i satelliti che già possono fornire informazioni utili: è il caso del Soil Moisture and Ocean Salinity (SMOS), la sentinella ambientale lanciata da ESA nel 2009 e che analizza salinità degli oceani e umidità del suolo. Ma anche NASA ha il suo occhio ecologico sul sistema Terra: si chiama Aquarius ed è in orbita dal 2011.
Davide Coero Borga (INAF)

Una cometa alle origini del cratere Sudbury

Risale all’era Paleo-proterozioca il Cratere terrestre di Sudbury, tra i più noti sul nostro pianeta. I numeri parlano da soli: ha 1,849 miliardi di anni e un diametro di 250 chilometri (è il secondo più grande al mondo dopo il Cratere Vredefort in Sudafrica). È proprio quello che si può chiamare un bel “buco” nel mezzo dell’Ontario, Canada. Finora i ricercatori, geologi e astronomi, sono stati sempre concordi nel dire che il responsabile di questo imponente impatto fosse stato un asteroide (dal diametro dai 10 ai 15 chilometri). Secondo un recente studio, però, si tratterebbe di una cometa, magari simile a quella che il lander Philae e la sonda Rosetta dell’ESA hanno cominciato a studiare. Le ultime analisi sono state pubblicate sul giornale scientifico Terra Nova. I dati rivelano «la presenza di un particolare elemento del gruppo del platino nei depositi trovati. La distribuzione di questi elementi (siderofili e litofili, ndr) all’interno della struttura del cratere e altri dati suggeriscono che l’oggetto fosse una cometa. Così, sembra che una cometa con una componente condritica refrattaria possa aver creato il bacino di Sudbury», ha spiegato Joe Petrus, a capo del team che ha firmato il paper. «I nostri risultati sottolineano l’importanza di integrare gli studi sugli elementi siderofili e lavorare su un ampio set di dati», si legge nello studio. Secondo quanto studiato in precedenza  i detriti di questo spettacolare impatto sono stati sparsi fino a 800 km di distanza, ricoprendo una superficie di 1,6 milioni di chilometri quadrati. Il bacino, situato nei pressi della città di Greater Sudbury sullo scudo canadese, è lungo 62 chilometri, largo 30 chilometri e profondo più di 15 chilometri. Analisi future saranno in grado di rivelare la vera natura e le fattezze del bolide che colpì la Terra. Magari qualche indizio in più potrebbe arrivare proprio da Churimov-Gerasimenko.
di Eleonora Ferroni (INAF)

La Terra è nata bagnata

La Terra è nata bagnata: a raccontarlo sono antichi frammenti dell’asteroide Vesta e che confutano la tesi secondo cui l’acqua sul nostro pianeta sarebbe arrivata solo più tardi con impatti cometari. A ipotizzarlo è uno studio coordinato da Adam Sarafian dell’Istituto Oceanografico Woods Hole, negli Usa, e pubblicato su Science. “Da anni ci si interroga sul come si sia formata l’acqua sulla Terra”, spiega Maria Cristina De Sanctis, dell’Istituto di Astrofisica e Planetologia Spaziale dell’INAF. “Il nostro pianeta – prosegue – si è infatti formato in una zona in cui l’acqua non poteva essere abbondante, deve essere quindi stata portata dall’esterno: secondo alcuni studi a farlo sono stati una serie di impatti di comete secondo altri sono state invece bombardamenti di condriti carbonacee, una particolare tipologia di meteoriti, oggetti molto antichi e che contengono acqua”. Quella che contengono non è però acqua come la conosciamo, bensì impasti di materiali di vario tipo in cui sono presenti gli ingredienti dell’acqua. La stessa tipologia di proto-acqua che si intende quando si analizzano le prime fasi di formazione del sistema solare. Analizzando alcuni meteoriti chiamati Eucriti, che si ritiene provengano dall’asteroide Vesta, un relittodel sistema solare ancora in formazione (prima della nascita del nostro pianeta), i ricercatori avrebbero trovato la firma di questa proto acqua. Secondo lo studio l’acqua di Vesta sarebbe la stessa di quella terrestre e la loro fonte comune sarebbero state le condriti e non le comete. “Questo vorrebbe dire quindi – conclude De Sanctis – che la Terra fu sin dall’inizio un corpo idrato, ossia umido e già dotato di acqua, e non, come sostengono altre teorie, un un pianeta secco”.
Leonardo De Cosmo (INAF)

Si fa presto a dire equinozio

Dal punto di vista astronomico l’autunno è iniziato alle 2.29 a.m. del 23 settembre sul meridiano di Greenwich, cioè alle 4.29 in Italia, e contestualmente, con l’equinozio di domani, nell’emisfero Sud comincerà la nuova primavera. Ma siamo proprio sicuri che la notte e il giorno abbiano la stessa durata come ci hanno insegnato a scuola? Joe Rao, insegnante e conferenziere presso il New York’s Hayden Planetariu, oltre ad essere tra i più noti presentatori del meteo negli U.S.A., nella sezione Skywatching della testata online Space.com si è divertito ad abbattere questo mito. In effetti la parola equinozio deriva dal latino æquinoctium, ovvero “notte uguale”, pensare ad esso però come ad una giornata in cui la durata della notte e quella del giorno siano esattamente identici è una grande semplificazione. Sarebbe così nel caso in cui la luce del Sole sparisse dal cielo una volta che esso sia calato dietro l’orizzonte, e quindi se la Terra non avesse un’atmosfera e non esistesse il crepuscolo. In tal caso in effetti il Sole sparirebbe e apparirebbe, passando la metà del tempo al di sopra e l’altra metà al di sotto dell’orizzonte. La luce del Sole viaggia in linea retta nello spazio, ma quando attraversa l’atmosfera terrestre la sua traiettoria viene incurvata a causa del fenomeno della rifrazione. La rifrazione atmosferica svolge dunque un ruolo fondamentale in questo processo, aumentando il diametro apparente del disco solare, sia quando esso sorge che quando tramonta. Avete presente quando il Sole ci appare come un’enorme pallone arancione sull’orizzonte? Si tratta di un’illusione ottica dovuta proprio al fenomeno della rifrazione, perché in realtà il Sole si trova già completamente sotto la linea dell’orizzonte. Oltre al fatto che la rifrazione anticipa di fatto l’alba e ritarda il momento del tramonto c’è un altro fattore che rende il giorno più lungo della notte durante l’equinozio: vengono infatti definiti alba e tramonto i momenti in cui il primo e l’ultimo pezzetto di Sole sono visibili sull’orizzonte, non quando lo sia il centro esatto del disco solare. È questa la ragione per cui se vi capitasse di consultare un almanacco o un giornale per controllare l’orario previsto per il sorgere ed il tramontare del Sole vi renderete conto che il periodo è un po’ più lungo di 12 ore.  A New York City, ad esempio, domani l’alba è prevista alle 6:43 a.m., mentre il tramonto alle 6:54 p.m., quindi la luce durerà non 12 ore esatte, ma 12 ore e 11 minuti. Per avere la stessa quantità di luce e di buio dovremo aspettare il 26 settembre, quando in effetti il Sole sorgerà alle 6:47 a.m. e l’ultimo raggio di luce sparirà esattamente 12 ore dopo. Al Polo Nord il Sole in questo momento sta tracciando un cerchio a 360° intorno al cielo, sfiorando l’orizzonte. Teoricamente allo scoccare dell’equinozio d’autunno dovrebbe scomparire completamente, ma l’ultimo pezzetto di Sole visibile sparirà dalla vista soltanto 52 ore e 10 minuti dopo. Il fenomeno della rifrazione è anche alla base dell’effetto ottico che fa apparire il disco solare ovale quando si trova vicino alla linea dell’orizzonte. La quantità di rifrazione, infatti, cresce così rapidamente con l’avvicinarsi del sole all’orizzonte che l’estremità inferiore viene sollevata maggiormente di quella superiore, distorcendo in modo evidente il disco solare. Ma certi miti astronomici sono duri a morire. Tra questi, ad esempio, la convinzione che nell’Artico si avvicendino 6 mesi di luce e 6 mesi di buio. Spesso si tende a definire la notte a partire dal momento in cui il Sole è sotto l’orizzonte, come se il crepuscolo di fatto non esistesse. Questo errore che viene ripetuto di continuo, non soltanto nei libri di testo, ma anche negli articoli di viaggio e nelle guide. Il crepuscolo illumina il cielo per un certo periodo ed una certa estensione finché il margine superiore del Sole si trova a 18° al di sotto della linea dell’orizzonte. Il crepuscolo, ovvero quel periodo che precede il sorgere del Sole o che segue il suo tramonto, si distingue infatti in differenti categorie. Il cosiddetto crepuscolo Civile, che comprende il periodo che intercorre tra il tramonto del Sole e l’istante in cui esso raggiunge la distanza zenitale di 96°, ovvero 6° sotto l’orizzonte, è genericamente definito come quel periodo nel quale si possono continuare le normali attività all’aperto. Alcuni giornali indicano il momento in cui occorre accendere i fari delle auto: ecco, quell’orario in genere corrisponde al crepuscolo Civile. Quindi anche al Polo Nord, mentre il Sole scomparirà dalla vista per 6 mesi a partire dal 25 settembre, il crepuscolo Civile si protrarrà fino all’8 ottobre. Il periodo che intercorre tra la fine del crepuscolo civile e l’istante in cui il Sole raggiunge la distanza zenitale di 102° (12° sotto l’orizzonte) viene invece definito crepuscolo Nautico, periodo al termine del quale risulta difficile distinguere la linea dell’orizzonte. Al termine del crepuscolo Nautico la maggior parte delle persone direbbe che la notte ha avuto inizio. Al Polo Nord si potrà parlare di fine del crepuscolo nautico il 25 ottobre. Rimane il crepuscolo Astronomico – al termine del quale il cielo diventa completamente oscuro – che al Polo Nord terminerà il 13 novembre. Da quel momento l’oscurità sarà totale fino al 29 gennaio, quando il ciclo crepuscolare ricomincerà di nuovo. In fine dei conti quindi al Polo Nord il buio completo non durerà affatto 6 mesi, bensì solo 11 settimane. Insomma, c’è crepuscolo e crepuscolo, quello che è certo e che a qualunque ora il Sole tramonti stasera con l’estate l’appuntamento è per l’anno prossimo.
di Francesca Aloisio (INAF)

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