Mondi rocciosi, forse abitabili

Un team internazionale di scienziati ha annunciato solo pochi mesi fa la scoperta diTRAPPIST-1, un sistema planetario a soli 40 anni luce dalla Terra. La caratteristica interessante di questo sistema è che ospita tre pianeti potenzialmente abitabili, mondi di dimensioni terrestri e con temperature che lasciano ben sperare circa la possibilità di ospitare la vita.
In un articolo appena pubblicato sull’ultimo numero della rivista Nature lo stesso gruppo di ricercatori riferisce che i due pianeti più interni del sistema mostrano caratteristiche compatibili con quelle di un oggetto roccioso, con atmosfere compatte, simili a quelle presenti nel Sistema solare interno. I risultati rafforzano l’ipotesi che questi pianeti possano essere effettivamente abitabili.
Lo studio, guidato da Julien de Wit, ricercatore post-doc presso il Massachussets Institute of Technology, è basato su un’analisi preliminare delle atmosfere planetarie, effettuata pochi giorni dopo l’annuncio della scoperta. Il 4 maggio scorso, il team ha fatto richiesta affinché il telescopio spaziale Hubble fosse puntato su TRAPPIST.1, poiché a distanza di pochi giorni sarebbe avvenuto un evento estremamente raro: un doppio transito, ovvero il passaggio in contemporanea di due pianeti davanti al disco stellare. La previsione è stata possibile grazie alle stime orbitali ottenute con i dati del telescopio spaziale Spitzer, con cui gli scienziati avevano già osservato il sistema.
«Abbiamo pensato che il team di Hubble avrebbe potuto accogliere la nostra richiesta, perciò abbiamo scritto la proposta in meno di 24 ore, l’abbiamo inviata, ed è stata esaminata immediatamente», racconta de Wit. «Ora abbiamo, per la prima volta, osservazioni spettroscopiche di un doppio transito, e questo ci permette di ottenere informazioni sulle atmosfere di entrambi i pianeti nello stesso momento».
Grazie ai dati forniti da Hubble, il team ha registrato infatti le variazioni di luce provenienti dalla stella dovute ai passaggi distinti di TRAPPIST-1b e c, due dei tre pianeti che – per quanto ne sappiamo – la circondano. «I dati erano assolutamente perfetti, le osservazioni sono andate meglio di quanto avessimo sperato», dice de Wit.
Le diminuzioni di intensità della luce della stella sono state osservate su una stretta gamma di lunghezze d’onda, mostrando di non variare molto nell’arco dell’intervallo investigato. Se ci fossero state variazioni significative, sarebbe stata un’indicazione a favore di atmosfere estese, simili a quelle di un gigante gassoso. I dati, invece, suggeriscono che entrambi i pianeti in transito abbiano atmosfere compatte e sottili, più simili a quelle che circondano i pianeti rocciosi.
«Ora possiamo dire che questi pianeti sono rocciosi», spiega de Wit. «La domanda quindi diventa: che tipo di atmosfera hanno?. Gli scenari possibili ci indirizzano verso qualcosa di simile a Venere, dove l’atmosfera è dominata dall’anidride carbonica, oppure un ambiente simile alla Terra, con nuvole pesanti di vapore acqueo, o ancora qualcosa di simile a Marte, con un’atmosfera che si è in gran parte consumata. Il passo successivo sarà cercare di capire quale di questi scenari si applica ai pianeti di TRAPPIST-1».
Il team di scienziati ha scoperto il sistema planetario utilizzando TRAPPIST (TRAnsiting Planets and PlanetesImals Small Telescope), un telescopio da Terra di ultima generazione, realizzato dall’Università di Liegi, Belgio, e progettato per studiare il cielo nella banda degli infrarossi. TRAPPIST è stato costruito come prototipo per lo studio di circa un centinaio di stelle nane brillanti del cielo australe, inoltre è impegnato nell’osservazione di comete e altri corpi minori del Sistema solare. Ora i ricercatori hanno costituito un consorzio, chiamatoSPECULOOS (Search for habitable Planets Eclipsing ULtra-cOOl Stars), e hanno avviato la costruzione di quattro telescopi simili, ma di taglia più grande. Questo nuovo progetto permetterebbe agli scienziati di concentrarsi sulle stelle nane ultra fredde nel cielo australe. Inoltre è in fase di valutazione e raccolta fondi un’estensione del progetto anche all’emisfero boreale.
Le stelle nane ultra fredde sono stelle con temperature molto inferiori a quella del Sole, ed emettono radiazioni più intense nell’infrarosso che nel visibile. L’idea di andare a cercare pianeti in orbita attorno a stelle di questo tipo nasce dal fatto che la loro emissione è molto più debole rispetto ad altre stelle, e questo fa sì che il segnale luminoso non sia saturato dall’emissione stellare quanto lo è in altri sistemi.
Telescopi simili a TRAPPIST funzionano come un primo strumento di selezione. Avendone a disposizione un numero maggiore, gli scienziati potranno usarli per identificare sistemi simili a TRAPPIST-1, che ospitano pianeti potenzialmente abitabili, per poi eseguire osservazioni più dettagliate con strumenti come il telescopio spaziale Hubble o il James Webb Telescope, il cui lancio è previsto nell’ottobre 2018.
«Con osservazioni da parte di Hubble, o in futuro del James Webb, siamo in grado di sapere non solo che tipo di atmosfera hanno pianeti come quelli trovati nel sistema di TRAPPIST-1, ma anche come sono composte queste atmosfere», aggiunge de Wit. «E questo è molto eccitante».
«Le osservazioni dei transiti di TRAPPIST-1 sono molto interessanti perché ci dicono che i pianeti hanno un’atmosfera compatta come quella dei pianeti rocciosi del nostro Sistema solare, anche se non possiamo sapere se assomiglia di più a quella della Terra, di Marte o di Venere o se ha caratteristiche ancora diverse», spiega ai microfoni di Media INAF Giusi Micela, dell’INAF-Osservatorio Astronomico di Palermo. «Ormai il numero di annunci di scoperte di sistemi abitabili o potenzialmente tali va aumentando rapidamente, anche se ancora non abbiamo trovato un pianeta identico alla Terra. D’altra parte un pianeta può essere abitabile anche se in condizioni molto diverse da quelle del nostro pianeta. Tutto sta nella definizione di abitabilità, e se esistono forme di vita che non conosciamo che possano esistere in condizioni che non possiamo neanche immaginare».
«Già sappiamo che sulla Terra esistono organismi, gli estremofili, che vivono in condizioni estreme», prosegue Micela. «Cosa possa succedere in un mondo completamente diverso è una domanda a cui oggi non siamo in grado di rispondere. Trovare forme di vita diverse può essere altrettanto interessante, se non di più, che trovare la vita come noi la conosciamo in altri pianeti. Prevedere fra quanto tempo saremo in grado di trovare la vita nei mondi alieni è difficile. Stiamo costruendo nuovi strumenti sempre più sofisticati per l’osservazione di atmosfere planetarie e in particolare per identificare indicatori della presenza di forme di vita. I tempi dipenderanno da quanto la vita è diffusa e anche, come in ogni cosa, dalla fortuna».
di Elisa Nichelli (INAF)

La “fontana” che mette a nudo Venere

La spessa coltre di nuvole che circonda Venere impedisce di vedere la superficie del cosiddetto “gemello bollente” della Terra. Fortunatamente, sembra che le stesse nubi permettano di ricreare una mappa di ciò che rimane celato sotto di loro. Utilizzando le osservazioni raccolte dal 2006 al 2012 dal satellite dell’ESA Venus Express, un gruppo di scienziati ha dimostrato per la prima volta come alcuni schemi meteorologici osservati negli strati di nubi venusiane siano direttamente collegati alla topografia della superficie sottostante. La scoperta è statarecentemente pubblicata sulla rivista Journal of Geophysical Research: Planets. Venere è un pianeta particolarmente caldo, a causa di un estremo effetto serra che riscalda la superficie a temperature fino a 450 gradi Celsius. Oltre ad essere rovente, la superficie è buia, sempre a causa del manto di nubi che avvolge completamente il pianeta. Inoltre, i venti a livello del suolo non contribuiscono a mitigare la calura, soffiando alla modesta velocità di circa 1 metro al secondo. Le nubi venusiane formano uno strato spesso 20 km, situato tra i 50 e i 70 km al di sopra del suolo, con temperature tipiche attorno ai -70 gradi Celsius, simili a quelle riscontrabili nelle formazioni nuvolose più esterne dell’atmosfera terrestre. Nello strato superiore delle nubi soffiano venti centinaia di volte più veloci rispetto a quelli sulla superficie, addirittura più rapidi della rotazione stessa di Venere (un fenomeno chiamato super-rotazione). Ora, grazie ai dati ottenuti sonda Venus Express, un gruppo internazionale di scienziati, guidati daJean-Loup Bertaux del francese LATMOS (Laboratoire Atmosphères, Milieux, Observations Spatiales), è riuscito a migliorare notevolmente la conoscenza della mappa climatica di Venere, esplorandone tre aspetti principali: quanto velocemente circolano i venti su Venere; quanta acqua è contenuta all’interno delle nubi; quanto brillanti risultano le nuvole, in particolare nella luce ultravioletta (UV).«I nostri risultati hanno mostrato che tutti questi aspetti – i venti, il contenuto di acqua e la composizione della nube – sono in qualche modo collegati alle proprietà della superficie di Venere stessa», spiega Bertaux. «Avendo la possibilità di utilizzare osservazioni di Venus Express che abbracciano un periodo di sei anni, abbiamo potuto studiare i modelli climatici a lungo termine del pianeta». Anche se Venere risulta assai secca per gli standard terrestri, la sua atmosfera contiene vapore d’acqua, in particolare al di sotto dello strato di nuvole. I ricercatori hanno calcolato quanta acqua è presente e dove è localizzata, trovando un punto di maggiore accumulo nei pressi dell’equatore venusiano. Questa zona “umida” si trova esattamente sopra una catena montuosa alta fino a 4 mila metri, denominata Aphrodite Terra. Siccome il fenomeno è presumibilmente causato da una colonna d’aria ricca di acqua, spinta dalle zone basse dell’atmosfera verso l’alto in corrispondenza dei rilievi montuosi, i ricercatori lo hanno soprannominato “fontana di Afrodite”. «Questa “fontana” rimane fissa all’interno di un vortice di nubi che scorrono da est a ovest nell’atmosfera venusiana», dice uno degli autori, Markiewicz Wojciech dell’Istituto Max-Planck per la ricerca sul sistema solare, a Gottinga, in Germania. «La prima domanda a cui abbiamo cercato di rispondere è come mai tutta quest’acqua resti bloccata proprio in quel punto». I ricercatori hanno anche trovato che le nuvole attorno alla “fontana” riflettono meno luce ultravioletta che altrove e che i venti sopra la regione montuosa di Aphrodite Terra sono circa il 18 percento più lenti rispetto alle regioni circostanti. Secondo Bertaux e colleghi, questi tre fattori possono essere spiegati contemporaneamente da un singolo meccanismo: le onde di gravità atmosferiche. «Quando i venti s’inoltrano lentamente attraverso le pendici montuose sulla superficie, generano qualcosa di noto come onde di gravità», aggiunge Bertaux. «Naturalmente non hanno nulla a che fare con le onde gravitazionali, che sono increspature nello spazio-tempo. Le onde di gravità sono invece un fenomeno atmosferico che possiamo vedere normalmente in zone montuose della superficie terrestre. In breve, si formano quando l’aria in movimento incontra dei rilievi, propagandosi in verticale e crescendo progressivamente di ampiezza, fino a rompersi appena sotto la cima delle nubi, come onde del mare su un litorale». La presenza di rilievi sulla superficie innesca dunque queste pompe d’aria i cui effetti sono misurabili dall’esterno del pianeta, sulla superficie delle nuvole. Oltre ad aiutarci a “intravedere” la superficie di Venere, la constatazione che la topografia superficiale può significativamente influenzare la circolazione atmosferica ha conseguenze anche per la comprensione del fenomeno di super-rotazione planetaria e del clima in generale. «Questa scoperta mette certamente alla prova i nostri attuali modelli di circolazione atmosferica globale», dice Håkan Svedhem dell’ESA, responsabile scientifico di Venus Express. «Mentre i nostri modelli riconoscono una connessione tra topografia e clima, solitamente essi non producono schemi meteorologici persistenti connessi a caratteristiche della superficie topografiche. Questa è la prima volta che questa connessione è stato chiaramente individuata su Venere: un risultato importante». Venus Express è stata operativa attorno a Venere dal 2006 fino al 2014, quando ha concluso la propria missione calandosi nella stessa mortifera coltre di nubi che la sonda ha studiato per anni. Mentre i dati ottenuti da Venus Express continuano a riservare sorprese, con la recente entrata in orbita della missione giapponese Akatsuki – che aveva mancato il bersaglio 5 anni prima –  gli autori dello studio si augurano che i propri risultati possano essere confermati e ampliati da questa nuova arrivata. «Questo studio, come anche molti altri che verranno ancora, dimostra l’enorme ricchezza scientifica che ci ha lasciato Venus Express come eredità alla fine della sua vita operativa», commenta a Media INAF Giuseppe Piccioni dell’INAF-IAPS di Roma, principal investigator dello spettrometro VIRTIS a bordo di Venus Express. «Questa eredità è destinata a durare ancora per molti anni, in quanto solo parzialmente intaccata dalla missione giapponese Akatsuki, l’unica al momento operativa a Venere ma con strumentazione limitata alle sole camere. In realtà un vero successore di Venus Express non è ancora nato, sebbene ci siano in studio varie proposte di missione con lancio previsto nel corso del prossimo decennio, ma niente ancora di definitivo. I dati prodotti da Venus Express resteranno quindi, ancora per molto, un punto di riferimento importante per tutta la scienza di Venere».
di Stefano Parisini (INAF)

Titano, un tesoro prebiotico anche senza acqua

Titano, la più grande luna di Saturno, è il corpo tra tutti quelli nel Sistema solare più promettente per ospitare la vita (anche più di Marte dove però ci sono tracce di acqua). Da anni la comunità scientifica cerca di provare che su questo satellite (fuori dalla fascia di abitabilità del Sistema solare) si possono sviluppare forme di vita magari microbiche tra i gelidi idrocarburi che compongono la sua superficie. Studiando le informazioni sulla chimica di Titano raccolte dalla missione NASA/ESA/ASI Cassini-Huygens, un gruppo di ricercatori della Cornell University ha suggerito infatti che potrebbero esserci condizioni chimiche prebiotiche (che in parole povere vuol dire: c’è una speranza di vita anche lì!). Titano è un corpo “simile” alla Terra, perché presenta laghi, fiumi, mari e terreni che – in teoria – possono essere paragonati a quelli a cui noi siamo abituati. Un piccola (siamo ironici) differenza è che lì – a circa 1,4 miliardi di chilometri di distanza da noi – si raggiungono i -180 gradi centigradi e che i suoi oceani sono composti da metano liquido (non c’è infatti traccia di acqua neanche a pagarla oro!). Titano presenta, inoltre, una spessa e tossica atmosfera (che appare gialla) composta da azoto e metano. Di certo l’aria non è respirabile (almeno per noi terrestri), ma quando la luce solare colpisce l’atmosfera la reazione produce acido cianidrico (HCN), che è una delle chiavi chimiche prebiotiche. Martin Rahm, il primo autore dello studio, ha spiegato che questo «è solo il punto di inizio nella ricerca di chimica prebiotica al di fuori della Terra», ma bisogna cercare di estraniarsi dal concetto di vita terrestre e ampliare le nostre vedute perché «Titano è una “bestia” completamente differente». L’acido cianidrico è una sostanza chimica ritenuta cruciale anche per lo sviluppo della vita sulla Terra e quindi all’origine degli aminoacidi e degli acidi nucleici. Le molecole di HCN reagiscono tra di loro o con altre molecole formando dei polimeri (lunghe catene di molecole) uno dei quali è noto come polimina (polyimine) che potrebbe resistere alle estreme temperature di Titano e permettere la creazione della vita. «La polimina può esistere come strutture diverse, e può essere in grado di fare cose notevoli alle basse temperature, soprattutto nelle condizioni che ci sono su Titano», ha aggiunto Rahm. «Dobbiamo continuare a studiarlo per capire come la chimica evolve nel tempo. Se osservazioni future mostrassero condizioni prebiotiche in un posto come Titano, sarebbe un importante risultato scientifico. Questo studio indica che potrebbero esistere i presupposti per l’esistenza di processi che portano a un diverso tipo di vita sul pianeta, ma è solo il primo passo».

Cosa rende un pianeta abitabile?

Con la scoperta negli ultimi anni di migliaia di sistemi planetari si sono aperte numerose frontiere nello studio dell’abitabilità di pianeti diversi dal nostro. Secondo uno studio pubblicato di recente sulla rivista Astrobiology, condotto da ricercatori statunitensi e canadesi, se le condizioni iniziali nel sistema solare fossero state di poco differenti, Venere potrebbe essere lussureggiante e piena di vita, mentre la Terra potrebbe risultare totalmente inospitale. I ricercatori sostengono che una serie dipiccoli cambiamenti evolutivi, avvenuti nelle prime fasi di vita del Sistema solare, potrebbero aver alterato per sempre il destino della Terra e di Venere. Queste alterazioni sarebbero modellabili e studiabili attraverso l’osservazione di altri sistemi planetari, in particolare quelli in fase di formazione, stando a quanto dice Adrian Lenardic, ricercatore della Rice University a Huston. «Il nostro articolo include un po’ di filosofia della scienza e un po’ di scienza», dice Lenardic. «È un ambito estremamente pionieristico, perché per ora non abbiamo fatto ricerca in termini di segni di vita al di fuori del Sistema solare. Il nostro studio suggerisce come muoversi per fare studi di questo tipo». Lenardic e i suoi colleghi suggeriscono che i pianeti abitabili potrebbero anche trovarsi al di fuori di quella che comunemente chiamiamo la “zona di abitabilità” dei sistemi planetari. La zona di abitabilità è definita come quella regione di spazio non troppo vicina (e quindi calda) né troppo lontana (e fredda) da permettere a un pianeta roccioso di ospitare acqua liquida sulla sua superficie e un’atmosfera adatta a sostenere la vita. I ricercatori ritengono che questa descrizione potrebbe essere troppo limitante. «Per molto tempo abbiamo vissuto in un unico esperimento: il nostro Sistema solare», continua Lenardic. «Sebbene l’articolo parli di pianeti, riguarda vecchie questioni su cui gli scienziati ragionano da tempo: l’equilibrio tra caso e necessità, le leggi fisiche e le contingenze, il rigoroso determinismo e le probabilità. Ma in un certo senso è come domandarsi: se potessimo eseguire nuovamente l’esperimento che ha dato luogo al mondo in cui viviamo, il risultato sarebbe questo stesso Sistema solare oppure no? Per molto tempo questa è rimasta una questione puramente filosofica, ma ora che abbiamo a disposizione osservazioni di altri sistemi planetari, possiamo cominciare a porci questa domanda in termini scientifici. Se troviamo un pianeta extrasolare che si trova dove è collocato Venere nel Sistema solare e che mostra segni di vita, allora sapremo che ciò che vediamo attorno a noi non è universale». Ampliando il concetto di zona abitabile, i ricercatori hanno evidenziato che anche la vita sulla Terra non è necessariamente legata alla distanza dal Sole. Un pizzico di differenza nei parametri che definivano le prime fasi di vita del Sistema solare e il nostro pianeta sarebbe potuto diventare del tutto invivibile. Analogamente, una differenza altrettanto piccola avrebbe potuto cambiare in maniera sostanziale le sorti di Venere, impedendogli di diventare quel deserto caldissimo circondato da un’atmosfera velenosa per la vita come la concepiamo.
L’articolo mette in discussione anche l’idea che la tettonica a placche sia una delle condizioni necessarie per avere la vita sulla Terra. «C’è un dibattito in corso su questo, ma ciò che sappiamo è che nelle sue prime fasi di vita, diciamo 2-3 miliardi di anni fa, la Terra assomigliava a un pianeta alieno e inospitale», spiega Lenardic. «Sappiamo che l’atmosfera era completamente diversa, priva di ossigeno, e si discute del fatto che la tettonica a placche fosse o meno attiva. Ma non c’è alcun dibattito circa la presenza di vita in quell’epoca remota, dunque anche il nostro pianeta potrebbe aver attraversato stati molto diversi tra loro durante la sua evoluzione. Dovremmo quindi escludere dai nostri studi un pianeta extrasolare privo di ossigeno e di attività tettonica?
«L’abitabilità è una variabile evolutiva», aggiunge Lenardic. «Dovremmo iniziare a ragionare in termini di come co-evolvono la vita e il pianeta che la ospita».
Le possibilità di studiare in dettaglio i pianeti al di fuori del Sistema solare sta migliorando di anno in anno, grazie alle aumentate capacità di analisi degli strumenti a nostra disposizione. Nei prossimi anni saremo certamente in grado di scoprire e caratterizzare i sistemi planetari e i pianeti che li compongono, e forse anche di scovare segni di vita.
«Ci sono ambiti di ricerca che spostano ogni giorno i confini delle nostre conoscenze, con scoperte che fino a pochi anni fa era pazzesco anche solo immaginare», conclude Lenardic. «Il nostro studio riguarda più che altro ciò che possiamo immaginare, basandoci sulle leggi della fisica, della chimica e della biologia, di come potrebbero essere fatti i pianeti, non solo quelli che conosciamo attualmente. Quando avremo accesso a un numero molto maggiore di osservazioni, effettuate con miglior dettaglio rispetto a quelle che abbiamo a disposizione oggi, non dovremo più limitare la nostra immaginazione». «Il concetto di abitabilità di un corpo celeste, ovvero la sua capacità naturale di mantenere delle condizioni ottimali per ospitare, almeno potenzialmente, la vita, è spesso usato in modo fin troppo semplificato» commenta Giuseppe Piccioni, planetologo dell’INAF-IAPS di Roma. «Il concetto di zona abitabile, ad esempio, ovvero la zona “ottimale” in termini di distanza di un pianeta dal proprio sole, è frequentemente utilizzata per identificare potenziali pianeti abitabili in altri sistemi planetari al di fuori del Sistema solare. Ciò da spesso origine ad ambiguità e conclusioni che hanno poco a che fare con un metodo scientifico. In termini generali, sappiamo che per l’abitabilità di un pianeta, che non necessariamente significa la presenza di vita presente o passata, sono necessari degli ingredienti che devono convivere per tempi sufficientemente lunghi e non in modo episodico. E’ importante la chimica, ovvero la presenza di elementi essenziali oltre alla presenza di acqua liquida, come ad esempio ossigeno, carbonio, idrogeno, azoto, ecc…; è importante la fisica, ovvero le condizioni ambientali che non siano ostili e quindi è importante anche l’energia ed il bilancio energetico. Il punto fondamentale sintetizzato in questo articolo è che questi ingredienti non sono una conseguenza logica ovvia indotta da uno stato di partenza con parametri “buoni”, ovvero la giusta distanza dalla stella centrale, la giusta massa, la presenza di tettonica a zolle, ecc… In realtà ci possono essere (o meglio dire ci sono) delle criticità nel corso della storia evolutiva di un pianeta/satellite, identificabili come biforcazioni che possono portarlo ad uno stato molto diverso da quello apparentemente previsto dai modelli e quindi trovarsi in una situazione più simil-Venere che simil-Terra, pur partendo dallo stesso punto di partenza della sua storia evolutiva. Il problema di queste criticità è che per un pianeta possono crearsi condizioni di stati bistabili la cui soluzione è determinata da parametri di ampiezza molto limitata al di sotto del rumore. Quello che si può apprendere da questo studio è che l’applicazione di modelli evolutivi al caso degli esopianeti per determinarne l’abitabilità va fatta sempre in modo non eccessivamente semplificato, evidenziando i limiti delle possibili soluzioni e costringendone i parametri quanto più possibile. Inutile dire che il paradigma del nostro Sistema solare resta sempre il banco di prova più efficace per tracciare nei modelli i processi evolutivi in maniera più netta, ampliando la speranza di successo nella loro applicazione ai mondi alieni».
di Elisa Nichelli (INAF)

Mercurio e i suoi segreti

Avevamo osservato il suo transito visibile dalla Terra solo qualche mese fa e pensavamo di conoscere quasi tutto di lui. Invece durante la conferenza di Goldschmidt, recentemente tenutasi a Yokohama, in Giappone, alcuni ricercatori della Nasa hanno presentato i risultati di alcune simulazioni realizzate per spiegare quello che con la missione MESSENGER era stato riscontrato nell’osservazione di Mercurio. E cioè una inspiegabile eterogeneità della superficie del pianeta, unica nel suo genere. Due le principali tipologie di superficie: una relativamente giovane è la Northern Volcanic Plains (NVP), con un’età stimata tra i 3.7 e i 3.8 miliardi di anni. Quella più antica, segnata da una marcata presenza di crateri da impatto, si attesta tra 4 e 4.2 miliardi di anni. Inoltre, questa regione mostra una larga chiazza ricca di magnesio, ma anche questa proprietà non spiega come mai la composizione della superficie del Pianeta sia così variegata, lasciando molti dubbi. Per questa ragione il team di ricercatori Nasa del Johnson Space Centre di Houston ha messo a punto una serie di esperimenti per capire l’eterogeneità e indagare sulla composizione chimica della superficie di Mercurio. Le simulazioni dei ricercatori si sono orientate nel cercare di ricostruire le condizioni di formazione delle rocce sotto condizioni simili a quelle che dovevano essere presenti nelle zone interne di un “giovane” Mercurio, ovvero oltre quattro miliardi di anni fa. Un dato certo è che Mercurio sia caratterizzato un’alta densità. Un altro dato certo è che le meteoriti di tipo condrite enstatite rinvenute sulla Terra presentano livelli di composizione chimica molto simili a quelli riscontrati sulle rocce mercuriane. Quindi partendo da queste ipotesi, le simulazioni effettuate hanno utilizzato campioni di polveri simili a queste meteoriti e graduato la pressione e temperatura alla quale questi matariali sono stati sottoposti. Il livello della pressione utilizzata è stata oltre i 5 GigaPascal, pari a 50mila volte la pressione dell’atmosfera terrestre, quella alla quale si formano i diamanti e lo stesso valore riscontrato su Mercurio nella zona di confine tra il mantello e il nucleo. Variando la pressione e la temperatura a cui sono stati sottoposti questi campioni, i ricercatori sono riusciti a riprodurre le differenti caratteristiche delle rocce riscontrate sulla superficie del pianeta, concludendo che le aree più antiche si siano formate con materiale fuso dall’alta pressione più o meno all’altezza della zona di separazione tra nucleo e mantello, posizionata a circa 400 km sotto la la superficie, mentre le aree più giovani si sono formate a minori profondità. Le simulazioni avvalorano quindi l’ipotesi che il materiale primitivo che componeva il pianeta sia stato simile a quello delle meteoriti Enstatiti condriti, che sono anche ricche di zolfo. Percentuali simili si riscontrano infatti anche sulla crosta di Mercurio, ma non su altri pianeti rocciosi del Sistema solare, come la Terra o Marte, dove le concentrazioni superficiali di questo elemento chimico sono assai più basse. In buona sintesi l’eterogeneità delle aree di superficie mercuriane unita a un’alta percentuale di zolfo nella crosta possono svelare segreti finora inesplorati: «La ricerca presentata su Mercurio e sulla ipotesi di un ‘alta concentrazione di zolfo sulla superficie, e probabilmente all’interno del nucleo, non è stata supportata dalle osservazioni in quanto MESSENGER non l’ha potuto rilevare, ma rappresenta uno degli obiettivi dello strumento italiano SIMBIO-SYS a bordo della missione Bepi Colombo» afferma Gabriele Cremonese dell’INAF di Padova.
di Giuseppina Pulcrano (INAF)

Ci siamo ecco il “caldo” cielo estivo

L’estate è iniziata ufficialmente lo scorso 21 Giugno e procede a pieno ritmo. Una bella passeggiata serale in cerca di refrigerio potrebbe essere accompagnata da uno sguardo alla volta celeste: quale migliore accoppiata? Alla metà del mese il cielo della sera è completamente buio solo dopo le ore 22:00. Verso occidente, nella prima parte della notte, calano le costellazioni primaverili, ogni giorno più basse fino a tramontare immerse nella luce del crepuscolo. Tra queste spiccano il Leone e la Vergine. Osservando verso il basso Sud troviamo le stelle che compongono lo Scorpione, molto facili da individuare: sono di seconda e terza magnitudine e fra esse spicca Antares, stella di prima magnitudine, posizionata in corrispondenza del cuore dello Scorpione.

Deneb

Deneb

Antares significa “rivale di Marte” perché con il suo colore arancione, questa gigante rossa sembra proprio voler gareggiare con il pianeta rosso. Poco più a sinistra rispetto allo Scorpione, ma più in basso, possiamo riconoscere il Sagittario, la cui posizione ci indica la direzione del centro della Via Lattea, la nostra galassia. Ricordiamo l’Ofiuco, la “13ma” costellazione zodiacale, molto estesa ma priva di stelle particolarmente luminose. Allontanandoci dall’eclittica, alta nel cielo notiamo la stella che rivaleggia in luminosità con Vega: si tratta di Arturo, nella costellazione del Bootes. Volgendo lo sguardo a Sud-Est, e alzandolo verso lo zenit, non potremo fare a meno di notare 3 stelle particolarmente brillanti. Abbiamo trovato il cosiddetto “Triangolo Estivo“, le cui stelle che ne formano i vertici appartengono a 3 distinte costellazioni: Altair nell’Aquila, Vega nella Lira e Deneb nel Cigno. Deneb, con i suoi 1600 anni luce di distanza, è la stella più lontana osservabile ad occhio nudo. La luce che raggiunge ora i nostri occhi è partita dalla stella ben 16 secoli fa, prima del crollo dell’Impero romano! Per confronto, Altair dista solo 16 anni luce (100 volte meno di Deneb) e Vega circa 27 anni luce. Questi ultimi due astri sono quindi luminosi principalmente per effetto della loro distanza relativamente piccola. Deneb è invece una cosiddetta “supergigante azzurra”, con un diametro pari a oltre150 volte quello del Sole ed una luminosità di decine di migliaia di volte superiore. Chiudiamo la panoramica del cielo dirigendo lo sguardo verso Nord, dove come sempre troviamo le due Orse e le altre costellazioni circumpolari. Se in tarda ora, in questo mese o nei mesi successivi, volessimo individuare la stella polare con il metodo classico, potrebbe risultare ostico riconoscere il Grande Carro, sempre più basso sull’orizzonte e spesso celato tra le luci urbane. In questo caso, ora che Cassiopea è sempre più alta, possiamo usarla come riferimento. Vediamo come: Per prima cosa troviamo Cassiopea e individuiamo la stella luminosa che si trova all’estremità della “V” più stretta, si tratta della stella Beta. Sopra Cassiopea (in questo periodo dell’anno), è facile osservare il pentagono irregolare del Cefeo, dalla forma simile ad una casetta stilizzata. Il vertice del pentagono è occupato dalla stella Gamma. Uniamo ora la Beta di Cassiopea e la Gamma del Cefeo con una linea immaginaria, prolungandola di una quantità “quasi” pari alla distanza tra queste due stelle. Siamo arrivati in prossimità della Polare, senza possibilità di errore.
Il cielo del mese le costellazioni di Stefano Simoni (Astronomia.com)

Il cielo del mese: tutti gli occhi puntati su Giove

Avete voglia di ammirare con i vostri occhi Giove, il più grande pianeta del Sistema solare prima che, per un po’ di tempo, si vada a nascondere nel bagliore del Sole? In questo mese di luglio, specie nella prima parte, vi sarà ancora facile farlo, guardando già a prima sera verso ovest. Lo troverete basso sull’orizzonte, e con il passare dei giorni la sua altezza continuerà a scendere, lasciandoci sempre meno tempo per osservarlo. Chi invece non avrà proprio di questi problemi è la sonda Juno della NASA, che il quattro luglio si inserirà in un’orbita polare attorno a Giove. Dopo cinque anni di viaggio, Juno inizierà la sua esplorazione di Giove grazie al suo equipaggiamento di prim’ordine, composto da ben 10 strumenti scientifici. Il nostro Paese è protagonista con due degli strumenti a bordo: JIRAM , ovvero Jupiter InfraRed Auroral Mapper, per lo studio delle aurore e dell’atmosfera e un transponder in banda Ka per studi gravitazionali. JIRAM è stato fornito dall’Agenzia spaziale Italiana e sviluppato con il supporto scientifico dell’Istituto Nazionale di Astrofisica. Seguiteci su Media INAF, vi terremo aggiornati anche su questa nuova e affascinante missione! E se volete conoscere le costellazioni, i pianeti e gli eventi principali che caratterizzeranno il cielo di questo mese, non vi resta che guardare, come al solito, il video su Media Inaf.
di Marco Galliani (INAF)

Acqua liquida nel passato di Cerere

La zona più brillante del pianeta nano Cerere, situata all’interno del cratere Occator, presenta la più elevata concentrazione di carbonati mai registrata in ambienti al di fuori di quello terrestre. La tipologia e l’abbondanza di questi minerali suggerisce che ci sia stata presenza di acqua liquida al di sotto della superficie di Cerere in epoche geologiche recenti. La scoperta è stata ottenuta da un team di ricercatori coordinati dalla ricercatrice INAF Maria Cristina De Sanctis grazie alle osservazioni dello spettrometro italiano VIR a bordo della missione Dawn della NASA, fornito dall’Agenzia Spaziale Italiana (ASI) sotto la guida scientifica dell’Istituto Nazionale di Astrofisica.
«È la prima volta che vediamo una quantità così alta di questo materiale in altre zone del Sistema solare», dice Maria Cristina De Sanctis, principal investigator di VIR e prima autrice dell’articolo che descrive la scoperta, pubblicato sull’ultimo numero della rivista Nature.
Occator è un cratere giovane dal punto di vista geologico, che si è formato circa 80 milioni di anni fa. Con una larghezza di 92 chilometri e una depressione centrale di circa 10 chilometri di diametro, il cratere mostra proprio nella zona centrale un largo picco ricoperto di materiale altamente riflettente che presenta fratture concentriche e radiali sopra e attorno ad essa.
Il team di De Sanctis ha scoperto che il più abbondante minerale presente in questa zona assai brillante è il carbonato di sodio, un sale che sulla Terra è tipico degli ambienti idrotermali. Questo materiale sarebbe fuoriuscito dall’interno di Cerere, poiché non potrebbe essere stato depositato dall’impatto di un asteroide. Dunque la risalita di questo materiale dagli strati più profondi del corpo celeste suggerisce che le temperature all’interno di Cerere siano più elevate di quanto si ritenesse finora. Potrebbe verosimilmente essere stato un impatto con l’asteroide che ha formato il cratere Occator a favorire l’esposizione in superficie il carbonato osservato oggi, ma i ricercatori pensano che un ruolo in questa emersione lo abbiano avuto anche processi interni a Cerere stesso.
I risultati dell’indagine fanno ipotizzare che sotto la superficie di Cerere può essere stata presente acqua allo stato liquido in epoche geologiche recenti. I sali potrebbero essere ciò che resta di un antico oceano, o di accumuli d’acqua risaliti in superficie e poi solidificati  milioni di anni fa.
«I minerali che abbiamo individuato nella zona centrale brillante del cratere Occator devono necessariamente essere stati formati dall’interazione con l’acqua», aggiunge De Sanctis. «La presenza di carbonati rafforza l’idea che Cerere abbia avuto attività idrotermale interna, che ha spinto questi materiali fino in superficie, all’interno di Occator».
Lo scorso anno, in un altro lavoro presentato sempre su Nature, il team guidato da De Sanctis ha scoperto che la superficie di Cerere contiene argille contenenti ammoniaca. Poiché  l’ammoniaca è una sostanza piuttosto abbondante nel Sistema solare esterno, questo risultato ha suggerito l’idea che Cerere potrebbe essersi formato in prossimità dell’orbita di Nettuno e successivamente migrato verso le zone interne del nostro sistema planetario. Un altro scenario propone che il corpo celeste si sia formato nella zona in cui si trova oggi, ma con materiale proveniente dal Sistema solare esterno.
Le nuove indagini condotte all’interno del cratere Occator indicano la presenza in quelle regioni anche di sali di ammoniaca nella forma di cloruro di ammonio e bicarbonato di ammonio. Il rinvenimento di quest’ultimi composti rafforza ulteriormente il legame tra Cerere e i mondi ghiacciati presenti ai confini del Sistema solare. L’ammoniaca, insieme al carbonato di sodio e bicarbonato di sodio è stata infatti rinvenuta anche nei pennacchi che si stagliano da Encelado, una luna ghiacciata di Saturno nota per i suoi geyser che eruttano da fratture nella sua superficie.
«Il prossimo passo sarà studiare anche le altre macchie chiare presenti sulla superficie di Cerere, per capire se anche esse contengono questi carbonati» conclude De Sanctis.
«Da sottolineare l’importanza del ruolo dell’Agenzia Spaziale Italiana» – evidenzia Raffaele Mugnuolo, responsabile di programma per la partecipazione alla missione Dawn – «nel garantire la partecipazione italiana alla missione attraverso un accordo con NASA e DLR, e successivamente per la realizzazione dello strumento VIS-MS, e per il pieno supporto al team scientifico italiano che, messo nelle giuste condizioni, riesce a raggiungere eccellenti traguardi come questo».
Nel team che ha condotto lo studio, pubblicato online sul sito web della rivista Nature nell’articoloBright carbonate deposits as evidence of aqueous alteration on (1) Ceres hanno partecipato, oltre a Maria Cristina De Sanctis, anche i ricercatori INAF Andrea Raponi, Eleonora Ammannito (University of California Los Angels e associata INAF), Mauro Ciarniello, Filippo Giacomo Carrozzo, Federico Tosi, Francesca Zambon, Fabrizio Capaccioni, Maria Teresa Capria, Sergio Fonte, Michelangelo Formisano, Alessandro Frigeri, Marco Giardino, Andrea  Longobardo, Gianfranco Magni, Ernesto Palomba, Simone Marchi (Southwest Research Institute e associato INAF) e Raffaele Mugnuolo (Agenzia Spaziale Italiana).
Redazione Media Inaf

Oceani ovunque, persino su Plutone

Un oceano sotterraneo, ormai, non si nega più a nessuno. Persino là dalle parti della fascia di Kuiper. L’ultimo in ordine di apparizione si troverebbe – forse ancora oggi allo stato liquido – nel sottosuolo di Plutone. Già, quello stesso Plutone che, da quando gli è stato sottratto il titolo di pianeta, sta perfidamente facendo sfoggio d’una varietà geologica che mondi assai più blasonati si sognano. A rivelarne gli indizi, i dati inviati a Terra dalla sonda New Horizons della NASA. Dati dai quali emergono segni inequivocabili di attività geologica. In particolare, sottolinea ora uno studio in uscita su Geophysical Research Letters, attività tettonica, difficilmente spiegabile in altro modo.
«Quelle mostrate da New Horizons sono caratteristiche tettoniche estensionali, segno dunque che Plutone ha attraversato un periodo di espansione globale», spiega il primo autore dello studio, Noah Hammond, graduate student alla Brown University, negli Stati Uniti. «Un tipo d’espansione che potrebbe essere spiegato dalla presenza di un oceano sotterraneo che si stava lentamente ghiacciando».
Insomma, che l’oceano ci fosse è molto probabile, vista l’assenza di altre spiegazioni per i movimenti tettonici. Ma la domanda cruciale è: c’è ancora? Ed è su questo, sulla possibilità che sia tutt’ora lì sotto allo stato liquido, che si concentra lo studio di Hammond e colleghi. L’argomentazione che li porta a essere ottimisti – e a concludere che sì, ci sono buone probabilità che sia in parte ancora lì – si basa principalmente su un modello d’evoluzione termica. Modello che tenta di ricostruire i possibili movimenti di contrazione ed espansione del volume del pianeta nano indotti dai cambiamenti di fase del ghiaccio. Se l’oceano sotterraneo di Plutone si fosse congelato per sempre milioni – se non addirittura miliardi – di anni fa, ragionano gli scienziati, il volume dell’intero pianeta si sarebbe dovuto contrarre. Una contrazione globale della quale, però, la superficie di Plutone non mostra alcun segno, anzi: i dati di New Horizons suggeriscono, piuttosto, che si stia espandendo.
Un ragionamento che potrebbe suonare strano, questo della contrazione legata al ghiaccio: non dovrebbe avvenire il contrario, e cioè che quando l’acqua si congela il volume aumenta? Il segreto sta nel tipo di ghiaccio e nel tempo trascorso. Non tutto il ghiaccio è uguale: in presenza di temperature basse e pressione elevata, come all’interno di Plutone, un oceano che si fosse completamente ghiacciato si sarebbe dovuto trasformare rapidamente dal ghiaccio normale che tutti conosciamo a una forma particolare nota come ghiaccio II. Un ghiaccio dalla struttura cristallina più compatta, circa il 25 percento più densa, rispetto a quella del ghiaccio standard: ecco dunque che un oceano di ghiaccio normale, trasformandosi in un oceano di ghiaccio II, sarebbe venuto a occupare un volume più ridotto, producendo così quella contrazione globale della quale Plutone sembra non mostrare traccia.
Viceversa, se l’oceano si stesse ghiacciando solo ora (tenuto caldo, si suppone, da elementi radioattivi nel cuore del pianeta), trasformandosi dunque da acqua allo stato liquido a normale ghiaccio, come quando mettiamo una bottiglia in freezer, in questo caso sì che dovremmo assistere a un’espansione, come in effetti sembrano suggerire le caratteristiche geologiche della superficie di Plutone.
Intanto, per un oceano remoto che si aggiunge alla lista di quelli possibili, un altro non solo riceve una conferma ma “sale” anche un poco verso la superficie. È di qualche giorno fa, infatti, uno studio – sempre su Geophysical Research Letters – sul mare salato sotterraneo di Encelado, una delle lune di Saturno. La novità, in questo caso, sta nella profondità alla quale si troverebbe: non più dai 30-40 km delle regioni polari ai 60 km di quelle equatoriali, come si era dedotto dai primi dati inviati dalla sonda Cassini, bensì in media 20 km, e in particolare appena 5 km al di sotto del polo sud. Una novità importante per almeno tre motivi: indicherebbe la presenza di sorgenti di calore endogene, aumenterebbe la possibilità per eventuali missioni future di studiarne la morfologia via radar e, come non mancano d’osservare gli autori dello studio, presenterebbe condizioni più favorevoli di quanto si pensasse allo sviluppo della vita.
Tornando a Plutone, l’ipotesi dell’oceano liquido sotto la crosta dell’ex-nono pianeta lascia a bocca aperta non solo noi ma anche gli addetti ai lavori. «Per me è sorprendente. La possibilità che possano esserci vasti oceani d’acqua liquida su Plutone, così lontano dal Sole, e che questo possa accadere anche su altri oggetti della fascia di Kuiper, be’», ammette Hammond, «è assolutamente incredibile».
di Marco Malaspina (INAF)

JUNO, alla scoperta dei segreti di Giove

Lanciata nell’agosto del 2011 dalla base militare di Cape Canaveral, in Florida, la sonda Juno è arrivata in vista della sua meta: Giove, il pianeta più grande del nostro sistema solare, di cui ci aiuterà a capire origine ed evoluzione. La missione si inserisce nel Programma New Frontiers della NASA, costituito da una serie di missioni spaziali altamente specializzate e a medio costo, non superiore a 700 milioni di dollari. Juno, grazie alla sequenza programmata di accensione dei razzi, andrà a inserirsi in un’orbita polare, con un periodo di 11 giorni, rispetto al pianeta gigante. È la sonda alimentata a energia solare ad essersi spinta più lontano dalla nostra stella madre, anzi è la prima sonda a energia solare specificamente progettata per operare a queste distanze grazie a grandi pannelli solari: ognuno lungo 9 metri e con ben 18.698 celle solari.
Le osservazioni andranno dalla magnetosfera all’interno del pianeta stesso. Proprio da questo il nome della  missione: la mitica Giunone (Juno, appunto), moglie di Giove, fu infatti in grado di scoprire i segreti del marito riuscendo a dissipare la fitta coltre di nubi in cui si celava. La missione prevede il completamento di oltre trenta orbite attorno a Giove prima della sua conclusione, prevista per il 2017. L’inserimento nell’orbita polare è in calendario per il prossimo 4 luglio. E anche attorno a Giove l’Italia c’è.
Juno ci offrirà una visione dettagliata del pianeta e dell’ambiente a esso circostante. E questo grazie al suo straordinario equipaggiamento, composto da ben 10 strumenti scientifici. Il nostro paese è protagonista con due degli strumenti a bordo: JIRAM (Jupiter InfraRed Auroral Mapper) per le studio delle aurore e dell’atmosfera e un transponder in banda Ka per studi gravitazionali. JIRAM è stato fornito dall’Agenzia spaziale Italianasviluppato con il supporto scientifico dell’INAFprincipal investigator dello strumento è Alberto Adrianidell’Istituto di Astrofisica e Planetologia Spaziali dell’INAF di Roma. JIRAM appartiene a una famiglia di strumenti che stanno attualmente volando a bordo di diverse missioni spaziali: VIRTIS su Rosetta e Venus Express, VIR a bordo di Dawn della NASA e VIMS, il primogenito della famiglia, sulla missione Cassini NASA-ESA-ASI, in orbita attorno a Saturno. Tutti strumenti ideati dal gruppo di ricerca guidato dalla compianta Angioletta Coradini, planetologa INAF scomparsa cinque anni fa.
JIRAM, che è in grado di produrre sia spettri sia immagini, ha lo scopo primario di esaminare gli strati più esterni dell’atmosfera gioviana nell’infrarosso (nella banda tra 2 e 5 μm), spingendosi fino a livelli di profondità di circa mille chilometri. KaT (Ka-Band Translator), realizzato da Thales Alenia Space Italia con il supporto del team scientifico dell’Università di Roma “La Sapienza”, sarà invece dedicato allo studio della composizione interna del pianeta e sul suo campo gravitazionale.
Determinare, ad esempio, quanta acqua sia presente nell’atmosfera gioviana ci permetterà di capire quale sia la teoria più corretta riguardo la formazione del pianeta fra quelle ad oggi ancora dibattute, o se sia piuttosto necessario formularne di nuove. Comprendere i segreti di Giove ci aiuterà a fare chiarezza sulle origini del nostro Sistema solare. Juno cercherà di determinare la struttura interna del pianeta per comprendere se sia presente una componente solida, esplorerà la magnetosfera polare e ricercherà l’origine del campo magnetico, misurerà l’abbondanza di acqua, caratterizzerà i venti nella bassa atmosfera e le abbondanze relative di ossigeno e azoto, oltre le variazioni dovute a fenomeni atmosferici. Insomma dovrà aiutarci a capire davvero chi è Giove. Un altro obiettivo della missione sarà studiarne le aurore boreali, già osservate dalla Terra, comprendendone i meccanismi, al fine di studiare il campo magnetico del pianeta e la sua interazione con l’atmosfera.
La sonda porta con sé anche una placca dedicata a Galileo Galilei, fornita dall’Agenzia Spaziale Italiana: una copia in alluminio dell’originale manoscritto in cui Galileo ha descritto per la prima volta le 4 lune di Giove, note infatti come lune galileiane. A bordo anche 3 figurine LEGO, che rappresentano Galileo, Giove e sua moglie Giunone.
Appuntamento per il 4 luglio quindi, e speriamo che Juno, al pari dell’eroeMicromega – filosofo proveniente dalla stella Sirio protagonista dell’omonima opera di Voltaire, che per un anno si fermò su Giove – alla fine della missione abbia «imparato alcuni segreti veramente degni di nota», per poter accrescere la nostra comprensione dei misteri del cosmo.
di Francesca Aloisio (INAF)