Magnetar a 6.6 miliardi di anni luce

L’11 aprile 2019, un team internazionale di scienziati guidato da Xue Yongquan dell’University of Science and Technology( Ustc) ha annunciato di aver osservato un segnale a raggi X molto probabilmente generato da una magnetar, una stella di neutroni caratterizzata da un enorme campo magnetico. Gli scienziati del team ritengono che il segnale osservato sia stato generato dalla fusione di due stelle di neutroni distanti da noi 6.6 miliardi di anni luce. Il segnale è stato catturato nel corso della 7-Ms Chandra Deep Field-South, la survey X più profonda e sensibile mai realizzata. La scoperta è stata pubblicata su Nature. Le stelle di neutroni sono sicuramente tra gli oggetti più affascinanti dell’universo. Immaginate di avere una massa pari a quella del nostro Sole concentrata in un oggetto il cui raggio è di soli 10 chilometri, invece dei 700mila chilometri della nostra stella. Nonostante siano chiare alcune caratteristiche di queste stelle, la comprensione della fisica che le governa è ancora abbastanza confusa. Una delle domande alle quali gli astronomi hanno sempre cercato di dare una risposta è quale sia la fine di un sistema binario di stelle di neutroni. Molti ricercatori ritengono che dalla fusione di due stelle di neutroni si generi un buco nero. Altri credono invece che si formi una magnetar: una stella di neutroni che ruota molto velocemente, con un campo magnetico estremamente forte, la cui intensità è cento milioni di volte superiore a quella che possiamo ottenere in laboratorio. Secondo questi scienziati, la magnetar formata in seguito al processo di fusione sarebbe in grado di sopravvivere alla propria gravità, grazie alla sua potente forza centrifuga. Dopo anni di discussioni su quale teoria fosse la più convincente, finalmente l’universo ha svelato la sua risposta, permettendoci di rivelare la prova dell’esistenza di una magnetar. Quando due stelle di neutroni “si abbracciano”, vengono emesse onde gravitazionali e una massiccia nube di detriti che si generano dalla collisione. Sotto la spinta gravitazionale della magnetar, parte dei detriti cade verso l’interno provocando scosse, che causano a loro volta getti di particelle ad alta energia e radiazioni molto intense. Se il getto è orientato nella nostra direzione, si osserveranno esplosioni energetiche note come lampi di raggi gamma corti, con una durata tipica inferiore ai 2 secondi, assunte per decenni come evidenza dell’avvenuta fusione di stelle di neutroni. Nel frattempo, ha fatto il suo esordio un transiente a raggi X isotropo. Ora, se dal processo di fusione di due stelle di neutroni si formasse una magnetar, questo transiente durerebbe diverse ore e potrebbe essere visto fuori dall’asse del getto. Pertanto, anche senza la presenza di alcun lampo di raggi gamma, un transiente X potrebbe darci preziose informazioni sul sistema di fusione di stelle di neutroni. Al contrario, se il transitorio X fosse alimentato da un buco nero, brillerebbe solo per pochi secondi. Un tale transitorio a raggi X, auspicato per lungo tempo dai teorici, non è mai stato rilevato… fino ad oggi. Il segnale scoperto si trova in una galassia distante 6.6 miliardi di anni luce dalla Terra, è durato ben 7 ore e parrebbe indicare che dalla fusione di due stelle di neutroni potrebbe essersi formata, appunto, una magnetar. È interessante notare che il transiente a raggi X osservato si trova nella periferia della sua galassia ospite, come di solito fanno i sistemi binari di stelle di neutroni, che solitamente vengono allontanati dalle zone centrali in seguito a esplosioni di supernova. Questa potrebbe costituire una prova a sostegno del fatto che il transiente a raggi X sia effettivamente alimentato dalla fusione di stelle di neutroni. Nel frattempo, i ricercatori hanno anche calcolato la densità di frequenza di simili eventi transienti e il risultato è coerente con la densità di frequenza degli eventi di fusione delle stelle di neutroni, dedotta dal rilevamento delle onde gravitazionali dalla fusione di stelle di neutroni nel 2017. Questa scoperta ha profonde implicazioni per l’equazione di stato della materia nucleare estremamente densa: l’equazione di stato delle stelle di neutroni potrebbe essere sufficientemente forte – con la pressione che aumenta bruscamente all’aumentare della densità della materia – da far sì che una magnetar supermassiccia o ancora stabile sia in grado di sopravvivere alla fusione delle due stelle di neutroni. La scoperta aiuta inoltre a escludere una serie di modelli teorici di materia nucleare che risultano incoerenti con le osservazioni, fornendo così nuove informazioni sulla fisica delle stelle di neutroni. (INAF)

Ecco il catalogo dei super lampi gamma di Fermi

186 lampi gamma di alta energia registrati dal telescopio satellitare per raggi gamma Fermi in dieci anni di osservazione: sono questi i protagonisti del catalogo pubblicato oggi, 13 giugno, su The Astrophysical Journal. Questi lampi gamma, anche noti come Gamma Ray Burst (Grb), sono stati rivelati dal Large Area Telescope (Lat), strumento di Fermi progettato e realizzato con un contributo decisivo dell’Italia, grazie all’Agenzia Spaziale Italiana Asi, all’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare Infn e l’Istituto Nazionale di Astrofisica Inaf. «Ogni Gamma Ray Burst è in qualche modo unico. È solo quando siamo in grado di studiarne tanti, come abbiamo fatto in questo catalogo, che iniziamo a comprenderne le caratteristiche comuni» racconta Elisabetta Bissaldi, ricercatrice dell’Infn e del Politecnico di Bari. «Il primo catalogo LAT, pubblicato nel 2013, comprendeva solo 35 GRB. Grazie a un netto miglioramento delle tecniche di analisi dati, abbiamo identificato un numero di GRB cinque volte maggiore in questo nuovo catalogo, imparando così a conoscere meglio i meccanismi fisici all’opera. Ad esempio, abbiamo confermato che l’emissione di raggi gamma ad alta energia dura più a lungo rispetto all’emissione a bassa energia e che la succede», conclude Bissaldi.Il catalogo che fornisce nuove indicazioni su origine ed evoluzione dei lampi gamma è il frutto del lavoro di 120 scienziate e scienziati della collaborazione Fermi coordinati da Bissaldi, da Magnus Axelsson dell’Università di Stoccolma e dagli italiani Nicola Omodei e Giacomo Vianello dell’Università di Stanford. La maggior parte dei lampi gamma nasce quando alcuni tipi di stelle massive esauriscono il proprio combustibile e collassano generando buchi neri. Altri invece hanno origine dalla collisione di due stelle di neutroni, oggetti densissimi residuo di esplosioni stellari. Sia il collasso di una stella sia la collisione di due stelle di neutroni danno, infatti, origine a jet relativistici di particelle che si muovono a una velocità prossima a quella della luce. Quando le particelle all’interno dei jet si scontrano tra di loro o interagiscono con l’ambiente intorno alle stelle, nascono i raggi gamma che sono poi rivelati da Fermi grazie ai suoi strumenti principali: il Lat e il Gbm. Il Large Area Telescope, Lat, registra raggi gamma con energie tra 20 MeV e 300 GeV (milioni di volte più energetici della luce visibile) e lavora a stretto contatto con il Gbm, il Glast Burst Monitor, che osserva, invece, raggi gamma meno energetici (tra gli 8 keV e i 40 MeV) provenienti dall’intero cielo. «Con il suo grande campo di vista, unito alla capacità di localizzazione dei singoli fotoni gamma, il LAT è uno strumento ottimale per la rivelazione e lo studio dei lampi gamma. Negli ultimi anni, abbiamo ottimizzato i criteri per rivelare fotoni di bassa energia che sono prodotti in gran numero nel corso dei lampi gamma, e quindi il numero dei lampi visti dal Lat è aumentato. Grazie ai lampi descritti nel catalogo, si è aperto un nuovo spazio di scoperta per questi eventi estremi che adesso cominciano a essere rivelati anche a energia altissima dai telescopi Cherenkov», racconta Patrizia Caraveo, responsabile Inaf per Fermi-Lat.Tra i Grb presentati in questo catalogo si trovano anche Grb 081102B, Grb 160623A, Grb 130427A e Grb 080916C, che sono rispettivamente i lampi gamma più breve, più lungo, più energetico e più lontano mai osservati dal Lat di Fermi.

Origine degli elementi pesanti, nuova teoria

La proprietà meno nobile della pietra filosofale, secondo gli alchimisti, era la trasmutazione del “vile metallo” in oro. Oggi, gli astrofisici vanno alla ricerca di quale fenomeno (o insieme di fenomeni) abbia prodotto tutto l’oro presente nel cosmo, così come l’origine di tutti gli elementi chimici più pesanti del ferro. Quegli elementi, cioè, che non vengono creati dalle normali reazioni termonucleari che fanno brillare una stella, bensì da processi più violenti, come varie tipologie di esplosioni stellari. Solo un paio di anni fa è stato provato sperimentalmente l’assunto teorico che la fusione di due stelle di neutroni porta alla creazione di diversi elementi più pesanti del ferro, atomi formati attraverso la nucleosintesi da processo r e dispersi nello spazio dall’esplosione detta di kilonova. Ora un nuovo studio pubblicato su Nature a firma di un terzetto di fisici della Columbia University di New York suggerisce che la maggior parte degli elementi più pesanti del ferro possano venire generati da una tipologia di esplosione stellare finora trascurata, le cosiddette collapsar (collapsing-star). Si tratta di vecchie stelle massicce – tipicamente 30 volte la massa del Sole – in rapida rotazione che arrivano a collassare sotto la loro stessa gravità, dando origine a un buco nero, esplodendo come supernove e sprigionando una quantità enorme di energia. Secondo le simulazioni effettuate dal gruppo di ricerca al super-computer del centro di ricerca Ames della Nasa, fino all’80 per cento degli elementi pesanti presenti nell’universo potrebbe essere formato dalle collapsar. Pur essendo molto rare, spiegano gli autori, sono molto ricche di elementi più pesanti del ferro; elementi che vengono lanciati a grande velocità nello spazio, raggiungendo regioni anche molto distanti dal punto dell’esplosione. Inoltre, le simulazioni restituiscono quantità e distribuzione di elementi chimici straordinariamente simili a quelle riscontrabili nel Sistema solare. Il prossimo passo sarà confermare il modello teorico con le osservazioni, come quelle che saranno possibili grazie il telescopio spaziale James Webb della Nasa, il cui lancio è attualmente previsto nel 2021. I suoi strumenti a infrarossi sarebbero infatti in grado di rilevare le radiazioni emesse dagli elementi pesanti provenienti dall’esplosione delle supernove. «Quella sarebbe una “firma” chiara», spiega Daniel Siegel, primo autore del nuovo studio, aggiungendo che gli astronomi potrebbero rilevare ulteriori prove di collapsar anche misurando la quantità e la distribuzione di elementi pesanti in altre stelle della nostra galassia, la Via Lattea. «Questa predizione è in linea di principio estremamente importante», commenta a Media Inaf Elena Pian dell’Inaf di Bologna, che guidò lo studio sugli elementi prodotti dalla kilonova, «ma richiede di essere verificata mediante spettroscopia infrarossa sufficientemente sensibile e accurata di un collasso vicino, possibilmente più vicino di qualche centinaio di megaparsec. Queste osservazioni sono rese particolarmente difficili dalla rarità di collapsar vicine, ma racchiudono la chiave per la comprensione della nucleosintesi degli elementi pesanti nell’universo». «Questa ipotesi è supportata principalmente dalle simulazioni che gli autori hanno effettuato, fornendo delle predizioni abbastanza chiare da un punto di vista osservativo», commenta ulteriormente Paolo D’Avanzo dell’Inaf di Milano. «Il passo successivo è dunque di cercare nelle curve di luce e, soprattutto, negli spettri delle collapsar conferme (o smentite) delle predizioni osservative che vengono fuori dalle simulazioni presentate in questo articolo. Insomma, si vedrà. Il lavoro fatto dagli autori sarà estremamente utile, dato che in questi casi sapere cosa cercare è sempre di grande aiuto».

Strutture gigantesche intorno ai laghi di Titano

L’eredità della missione Cassini-Huygens di Nasa, Esa e Asi continua a fornire agli scienziati preziosi spunti di ricerca. Disintegratasi il 15 settembre 2017 nell’atmosfera di Saturno durante il ‘gran finale’, la sonda ha raccolto importanti dati dalle regioni polari di Titano. Un gruppo internazionale di ricercatori ha utilizzato queste osservazioni per individuare i cosiddetti bastioni: strutture gigantesche che circondano alcuni laghi sulla luna saturniana e si estendono nell’entroterra per decine di chilometri. Questi bastioni sono morfologicamente diversi dalle sponde che normalmente si trovano in prossimità dei laghi: esse, infatti, si ergono ripide sopra la superficie del lago, al massimo sono larghe un chilometro e non lo circondano mai completamente. Per comprendere l’origine e i meccanismi della loro formazione, gli studiosi hanno analizzato le immagini fornite dalla sonda Cassini e provenienti da due strumenti: il Vims (Visual Infrared Mapping Spectometer) per i dati spettroscopici della superficie di Titano, e il Sar (Synthetic Aperture Radar) per quelli morfologici. «La formazione dei laghi di Titano e delle strutture che li circondano rimane una questione aperta», riferisce Anezina Solomonidou, ricercatrice all’Esac di Madrid e autrice principale dello studio, i cui risultati sono stati pubblicati su Icarus. «I bastioni possono custodire importanti indizi su come le regioni polari di Titano ricoperte da laghi siano diventate quelle che vediamo oggi.» Per la prima volta i ricercatori hanno sovrapposto le immagini fornite da Vims a quelle elaborate da Sar. In questo modo hanno potuto determinare le caratteristiche fisiche dei bastioni e ricavare nuove ipotesi circa la loro struttura. In totale l’analisi è stata condotta su otto laghi, tre di essi asciutti e cinque riempiti da un liquido che si ritiene essere composto da una mistura di metano liquido ed etano con un contributo di azoto. La superficie dei laghi varia da 30 a 670 chilometri quadrati e i bastioni, la cui larghezza varia da 3 a 30 chilometri, si innalzano per 200-300 metri sul terreno circostante. I risultati delle analisi spettrali mostrano che l’emissività dei bastioni è relativamente alta per gli standard di Titano ed è molto simile a quella dei fondali dei laghi vuoti e ai labirinti di terreno di origine fluviale. Questo suggerisce che i bastioni condividono con i fondali dei laghi lo stesso meccanismo di formazione, mentre hanno la medesima composizione organica dei labirinti fluviali. Un’altra caratteristica che rende unici i bastioni è quella di circondare completamente i laghi, una differenza fondamentale con i più comuni bordi ripidi. «Mentre i bordi e altre strutture sono stati logorati e si sono rotti nel corso del tempo, i bastioni circondano completamente i loro laghi. Questo ci aiuta a vincolare gli scenari in cui essi si sono formati», commenta Alice Le Galle dei laboratori Latmos di Parigi, co-autrice della ricerca. Sebbene non si conosca l’esatto meccanismo di formazione di bastioni e sponde, il lavoro di Solomonidou e colleghi suggerisce almeno due diversi scenari. Nella prima ipotesi si ritiene che, dopo la formazione del lago, un meccanismo geofisico posizioni il bastione attorno al perimetro del lago. Successivamente, lo stesso meccanismo innalza un bordo sopra il bastione. Poiché il bordo è più giovane del bastione, il materiale di cui è composto non ha avuto modo di diventare più resistente e quindi viene eroso dagli agenti atmosferici. Nel secondo scenario si ipotizza che, dopo la formazione e la crescita del bacino lacustre, il materiale residuo vada a formare dapprima le sponde del lago e poi, attraverso la sedimentazione, anche i bastioni. Ciò significherebbe che i laghi circondati da tali strutture sarebbero tra i più giovani di Titano, perché non ci sarebbe stato il tempo sufficiente affinché i bastioni venissero erosi. «È difficile stabilire quale sia l’esatto meccanismo attraverso cui i bastioni si formano», ammette Solomonidou. Tuttavia, grazie all’analisi combinata di più strumenti, questo lavoro è di grande aiuto per le future missioni spaziali che mirano all’esplorazione di mondi ghiacciati come Titano. Una di queste – Juice (Jupiter Icy moons Explorer) dell’Esa, il cui lancio è previsto per il 2022 – visiterà le tre lune più grandi di Giove: Ganimede, Callisto ed Europa. Anche se strutture come laghi e bastioni non sono stati osservati nei satelliti gioviani, saperne di più a proposito di Titano aggiunge un ulteriore mattoncino alla conoscenza delle lune ghiacciate del Sistema solare. di Marco Dian (INAF)

Mai viste due nane bianche danzare così veloci

È una scoperta da record, quella di Ztf J1530+5027. È la binaria a eclisse con il più breve periodo orbitale osservato finora: una coppia di nane bianche che girano attorno al condiviso centro di massa in soli 6.91 minuti. Queste due stelle orbitano l’una attorno all’altra talmente vicine che potrebbero essere contenute entrambe entro il diametro di Saturno. La scoperta è frutto di una sinergia tra il Palomar Observatory del California Institute of Technology (Caltech) e il Kitt Peak National Observatory nei pressi di Tucson, Arizona, della National Science Foundation (Nsf). Ogni notte la Zwicky Transient Facility (Ztf) usa il telescopio da 1.2 metri del Palomar Observatory per compiere una scansione del cielo e notare ogni piccola variazione nella posizione o nella luminosità degli oggetti osservati. Se si scopre una sorgente interessante, la si riosserva con lo strumento Kitt Peak Electron Multiplying Demonstrator (Kped), usato con il telescopio da 2.1 metri del Kitt Peak National Observatory. Kped è stato studiato per misurare con alte velocità e sensibilità le variazioni di luminosità delle sorgenti celesti. Strumento ideale, dunque, per osservare le binarie a eclisse, una coppia di oggetti che ruotano uno attorno all’altro e che si eclissano a vicenda. La loro luminosità diminuisce ogni volta che una della due compagne passa davanti all’altra lungo la linea di vista. «Quando la stella più debole passa davanti a quella più luminosa, blocca la maggior parte della luce, dando luogo a quella variazione di luminosità periodica di circa sette minuti che vediamo nei dati Ztf», spiega Kevin Burdge, del Caltech, primo autore dell’articolo che riporta la scoperta oggi sulla rivista Nature. Due stelle compatte che girano una attorno all’altra così strettamente e velocemente sono destinate a spiraleggiare fino alla fusione, perdendo energia nel processo, sotto forma di onde gravitazionali, così come previsto dalla relatività generale. J1539 è una binaria talmente stretta che si riesce a misurare una sensibile diminuzione del periodo orbitale in pochi anni. Il team di Burdge è stato in grado di confermare la riduzione dell’orbita prevista dalla teoria, confrontando i loro nuovi risultati con i dati di archiviazione acquisiti negli ultimi dieci anni. L’interesse per J1539 è particolarmente acceso in vista della futura missione Esa-Nasa Laser interferometer space antenna (Lisa), il primo osservatorio spaziale per la rivelazione delle onde gravitazionali. Lisa sarà in grado di rivelare onde gravitazionali a frequenze più basse di quanto facciano gli interferometri terrestri, come quelli della collaborazione Ligo-Virgo. Questo significa che potrà rivelare onde gravitazionali generate da coppie di nane bianche, come appunto J1539 , e non solo da coppie di oggetti massicci – buchi neri e stelle di neutroni – come avvenuto finora. La frequenza di 4.8 mHz di J1539 è anzi proprio vicina al picco di sensibilità di Lisa, rendendola dunque il candidato ideale per le future osservazioni. Per quanto sensazionale, la binaria scoperta è solo una delle attuali 10 milioni di sorgenti della survey Ztf, progetto destinato a ottenere dati probabilmente per miliardi di oggetti. «Solo pochi mesi dopo la sua attivazione, gli astronomi Ztf hanno rilevato nane bianche che si orbitano a vicenda a un ritmo record», ricorda Anne Kinney, vicedirettrice della Nsf per le scienze matematiche e fisiche. «È una scoperta che migliorerà notevolmente la nostra comprensione di questi sistemi, ed è un assaggio di sorprese a venire». (INAF)