Uppsala General Catalogue

L’Uppsala General Catalogue of Galaxies (Catalogo Generale di galassie di Uppsala, meglio noto con l’abbreviazione UGC) è un catalogo di oggetti del profondo cielo pubblicato nel 1973 e contenente 12.921 galassie visibili nell’emisfero boreale.
Questo catalogo comprende tutte le galassie a nord della declinazione -02° 30′, con un diametro più grande di 1,0 arcominuti e più luminose della magnitudine apparente 14,5. La principale fonte di dati utilizzata per la sua compilazione fu una copia delle lastre fotografiche in banda blu della Palomar Observatory Sky Survey (POSS), a cui furono aggiunte anche galassie più piccole di 1,0 arcominuti di diametro, ma più brillanti della magnitudine 14,5 prese dal Catalogue of Galaxies and of Clusters of Galaxies (CGCG) compilato da Fritz Zwicky.
Le informazioni contenute nel catalogo UGC comprendono la descrizione delle galassie e dei loro dintorni, la loro classificazione secondo lo schema di classificazione di Hubble e l’angolo di posizione per le galassie piatte o viste di taglio. Altre informazioni che sono state incluse sono il diametro apparente in banda blu e una descrizione delle galassie che tiene conto il più possibile del loro aspetto visibile sulle lastre fotografiche. Gli autori del catalogo svilupparono un complesso sistema di classificazione che comprendesse vari tipi di peculiarità come interazioni con altre galassie, distorsioni della loro forma, presenza di ponti di materia, getti o pennacchi. I diversi sistemi di classificazione sviluppati allo scopo furono utilizzati in modo complementare per poter registrare nel catalogo il maggior numero di informazioni che era possibile estrarre dalle immagini. La precisione delle coordinate del catalogo è sufficiente soltanto all’identificazione dell’oggetto.
Tratto da Wikipedia

La classifica dei mondi abitabili

L’esopianeta Gliese 581g è attualmente il numero 1 dei mondi potenzialmente abitabili al di fuori del Sistema Solare grazie ad una nuova ricerca eseguita dallo stesso team che ne annunciò la scoperta nel 2010. In orbita attorno ad una stella a 20 anni luce di distanza, Gliese 581g è il primo di una lista di esopianeti (comprendente Gliese 667Cc, Kepler 22b, HD85512 e Gliese 581d) “abitabili” ovvero simili alla Terra  … e quindi idonei a ospitare forme di vita. Le misure eseguite su Gliese 581g gli assegnano una massa di circa 2,2 masse terrestri e un’orbita nella zona abitabile della sua stella alla distanza di 0,13 UA dove è possibile la presenza di acqua liquida in superficie. Ricevendo dalla sua stella una quantità di luce simile a quella solare ricevuta dalla Terra Gliese 581g è oggi considerato il maggior candidato al ruolo di mondo simile alla Terra.
Tratto da: Orione ottobre 2012 n. 245 pagina 24 “La classifica dei mondi potenzialmente abitabili”

Il letto di un corso d’acqua su Marte

Questa volta non c’è dubbio. Quello che il rover della NASA “Curiosity” ha fotografato su Marte è proprio ciò che resta del letto di un corso d’acqua, che un tempo scorreva impetuoso sulla superficie del pianeta. Non è la prima dimostrazione in assoluto della presenza di acqua su Marte, ma una struttura di questo tipo non si era mai osservata direttamente.
“Dalla conformazione dell’avvallamento, possiamo ipotizzare che l’acqua scorresse alla velocità di circa un metro al secondo, con una profondità che arriverebbe tra la caviglia e l’anca di una persona” spiega il co-investigator di Curiosity William Dietrich dell’Università della California a Berkeley. “Ci sono decine di studi sui canali scavati dall’acqua su Marte, e molte ipotesi diverse su cosa scorresse al loro intero. Ma questa è la prima volta che si passa dalla speculazione sulle dimensioni di un corso d’acqua alla sua osservazione diretta”.
Il sito della scoperta si trova fra la parte nord del cratere Gale e la base del Monte Sharp, che sorge all’interno del cratere stesso.
Redazione Media Inaf

M 87: zoom sul buco nero

Una rara istantanea della regione che circonda il buco nero supermassiccio al centro di una galassia, dove la materia gira vorticosamente mentre precipita verso il buco nero stesso. L’hanno ottenuta, scrutando con un telescopio virtuale (composto da più telescopi in località diverse) la galassia M87, Shepherd Doeleman e colleghi del Massachusetts Institute of Technology, che pubblicano i loro risultati sull’ultimo numero di Science. In questo modo sono riusciti, forse, a spiegare come si formino quei getti di materia ad altissima energia che si osservano all’interno di alcune galassie.
Mettendo assieme i segnali raccolti da più antenne radio dalle Hawaii alla California, i ricercatori sono riusciti a ottenere la risoluzione necessaria per studiare la parte basale del getto che parte dal centro della galassia M87. In questo modo hanno scoperto che il punto da cui parte il getto è molto piccolo. Attraverso una complicata serie di calcoli, questo permette di convalidare alcune ipotesi sulla formazione del getto ed escluderne altre.
“La novità più grande di questo studio è proprio il fatto di essere riusciti a osservare il punto esatto in cui il buco nero e il suo ambiente circostante producono questa cosa strana e per certi versi inaspettata” commentaMarcello Giroletti dell’Istituto di Radioastronomia dell’INAF di Bologna. “In alcune condizioni il buco nero, anziché mangiarsi tutta la materia che lo circonda, ne accelera una parte e la getta fuori fino a migliaia di anni luce di distanza”. Come avviene questo fenomeno? Lo studio di Doeleman propone una risposta. “Sembra che il ‘trucco’ sia che in questo caso, a differenza di altri, il buco nero gira su stesso e la materia che ci cade dentro gira nello stesso senso. Questo innesca meccanismi molto complicati che fanno sì che parte della materia sfugga e venga accelerata fino a grande distanza”.
A portare a questa conclusione è proprio l’osservazione della regione alla base del getto. C’erano infatti diversi modelli teorici che potevano spiegare la formazione del getto, ma solo quello appena descritto è compatibile con le dimensioni del punto di base osservate dai ricercatori americani.
A Bologna, il gruppo di Giroletti lavora da anni sullo studio della stessa sorgente in M87. “Non è di per sé una sorgente molto particolare o molto luminosa, ma tra le galasse con buco nero attivo e getto con emissione radio è quella più vicina, quindi la migliore da studiare. Tra l’altro con noi lavora un ricercatore giapponese (Kazuhiro Hada) che ha dato un contributo fondamentale allo studio di questa sorgente, tanto è verso che il suo lavoro è citato nell’articolo di Science”. Il gruppo bolognese è ora in attesa di completare una sua osservazione di 25 ore con VLBA (Very Long Baseline Array), con cui conta di di dare un ulteriore contributo allo studio dei meccanismi che producono il getto.
di Nicola Nosengo (INAF)

Il cielo in ottobre: Pegaso, Andromeda, Perseo e Auriga

Il cielo ad ottobre vede in prima serata alcune costellazioni davvero degne di nota, ma è un po’ penalizzato dalla parte bassa del cielo in meridiano e soprattutto da due cieli poco visibili: quello estivo con il famoso Triangolo ormai è quasi un ricordo, sebbene Deneb sia ancora ben alta in cielo, mentre quello di autunno inverno sta ancora sorgendo in tutto il suo splendore.
Un cielo di transizione quindi, che vede come costellazioni principali quelle di Pegaso e Andromeda al meridiano, alte, e Perseo con l’Auriga. Come detto, nella parte di sud est il cielo più basso offre una carrellata di costellazioni molto deboli che nelle città lasciano intravedere a malapena qualche stella.
Il lato nord, invece, presenta sempre le solite costellazioni circumpolari.
ORIZZONTE NORD – ore 23.00
Ma andiamo per gradi, partendo come sempre dal lato nord del cielo.
Il cielo dell’orizzonte nord di prima serata vede l’Orsa Maggiore nel suo punto più basso nel giro intorno alla Polare, contrariamente a Cassiopea che invece si appresta a raggiungere la cima più alta, allo zenit. Le due costellazioni, infatti, sono sempre rintracciabili ai lati opposti rispetto alla Polare, in un inseguimento senza fine.
L’Orsa Maggiore è riconoscibile per la forma a mestolo delle sette stelle principali, mentre cassiopea in questo periodo ha una inconfondibile forma a M, o quasi. Prolungando di tre volte il segmento che unisce Dubhe e Merak è possibile giungere dritti dritti alla Polare, posta ad una altezza pari alla latitudine del luogo di osservazione. Continuando con il nostro segmento si arriva, invece, alla stella Errai, o gamma Cephei, ad indicare il tetto della casetta che caratterizza la forma della costellazione del Cefeo.
Sul versante di nord ovest sta scendendo la debole ed estesa costellazione del Drago, mentre proprio sotto cassiopea sta salendo il triangolo di stelle della debole Giraffa. Vicino alla Polare è possibile scorgere due stelle, una rossa ed una bianca. Si tratta dei cosiddetti Guardiani della Polare, Kochab, la rossa, e  Pherkad, la bianca, ambedue dell’Orsa Minore. Sono le due stelle più brillanti che effettuano il giro curcumpolare più vicino alla Polare, e proprio per questo sembrano effettuare una ronda intorno all’astro del Nord. Proprio per questo sono dette Guardiani della Polare.
Proprio sotto queste due stelle è rintracciabile Thuban, la stella più importante del Drago nonché passata e futura stelle del Nord. Con il passare delle ore, le costellazioni circumpolari continuano il loro viaggio intorno alla Polare in senso antiorario, salendo verso nord-est e scendendo verso nord-ovest senza mai tramontare.
Ore 02.00
In piena notte, l’Orsa Maggiore si mette sulla coda durante la risalita verso nord-est, mentre Cassiopea, raggiunto l’apice dell’orbita, inizia la discesa verso nord-ovest preceduta dal Cefeo. Le costellazioni sono sempre le stesse, ma cambiano la posizione, quindi ora la zona più bassa del cielo è occupata dal debole Drago mentre la Giraffa occupa lo zenit in condivisione con Cassiopea.
Al centro, come sempre, la Polare.
Ore 05.00
Prima dell’alba ci si presenta un cielo di fine inverno-inizio primavera, con L’Orsa Maggiore e cassiopea quasi alla stessa altezza dall’orizzonte ed alla stessa distanza dalla Polare, mentre la zona più alta del cielo è occupata dalla Giraffa e dalla Lince posta sopra l’Orsa Maggiore, e la zona più bassa è occupata sempre dal Drago. Proprio sotto il Cefeo sta tramontando Deneb nel Cigno..
LE STELLE DI PRIMA SERATA – Ore 23.00
Il passaggio in meridiano di prima serata è occupato quasi esclusivamente, nella zona alta del cielo, dal grande quadrato di Pegaso-
Occasione ancora valida per l’osservazione, anche al binocolo, dell’ammasso globulare M 15, nella costellazione di Pegaso, mentre poco più ad Est una coppia di galassie sarà sicuramente una grande attrazione: M 31, la famosa Galassia di Andromeda, e M 33, la Galassia del Triangolo nell’omonima costellazione.
Il resto del cielo vede costellazioni molto deboli e vaste, come quella zodiacale dei Pesci preceduta da Acquario e Capricorno.. La zona di cielo è illuminata quasi esclusivamente da due stelle brillanti: la prima è Fomalhaut, ne Pesce Australe , mentre la seconda è Diphda, nella Balena.
Nel frattempo, verso Ovest stiamo perdendo alcune delle costellazioni che ci hanno accompagnato per tutto il periodo estivo. Ercole è ridotto al lumicino nell’orizzonte basso di nord ovest, mentre il Triangolo Estivo vede Vega nella Lira e Altair nell’Aquila ancora presenti ma molto basse, al contrario di Deneb nel Cigno che si presenta ancora ad una altezza buona, tanto che come abbiamo visto tramonterà poco prima dell’alba.
Il cielo dell’orizzonte est invece riserva le sorprese stagionali, una anteprima di ciò che apparirà nei mesi a venire. Il Perseo è molto alto all’orizzonte, ottima occasione per non mancare l’appuntamento con il Doppio Ammasso, uno dei gioielli più belli di tutto il cielo. Più in basso, scampoli di autunno vengono dati dalle Pleiadi nella costellazione del Toro e dalle brillanti stelle Aldebaran, nel Toro, dall’accentuato colore arancione, e Capella nell’Auriga, tra le stelle più brillanti di tutto il cielo. Ancora è presto per guardare più in basso, ma basta aspettare un po’ per veder sorgere lo spettacolo invernale. Alle due di notte il Perseo ha raggiunto la massima altezza.
La vera novità, tuttavia, è data dalla presenza in cielo, a mezza altezza, della costellazione di Orione, vera guida per tutte le altre costellazioni del cielo di autunno inverno. Una serie numerosa di stelle brillanti per la costellazione di Orione, nella quale spiccano la rossa Betelgeuse e la azzurra Rigel, molto riconoscibili. Al loro centro, una serie di tre stelle in verticale a rappresentare la cintura del cacciatore Orione. Queste stelle  forniscono la chiave di lettura di tutto il cielo del periodo. Prolungando verso l’alto il loro segmento, infatti, arriviamo prima ad Aldebaran e poi alle Pleiadi, mentre prolungandolo verso il basso giungiamo a Sirio nel Cane Maggiore, la stella più brillante del cielo. La sua costellazione a quest’ora è ancora nascosta dietro l’orizzonte. E’ ancora molto bassa Sirio, e data la sua enorme brillantezza la vedrete scintillare in un arcobaleno di colori.
L’unione di Rigel con Betelgeuse, invece, ci porta dritti alla costellazione dei Gemelli, con Castore e Polluce,  stelle più brillanti. Tra i Gemelli e Sirio sarà evidentissima un’altra stella molto brillante, Procione, nella costellazione del  Cane Minore. In piena notte l’orizzonte sud è solo in attesa del cielo invernale, dal momento che oltre alle costellazioni transitate in prima serata, talmente grandi da ingombrare ancora l’orizzonte, si aggiunge il grande fiume dell’Eridano, che a parte la stella Cursa posta proprio al fianco di Rigel non fa altro che arricchire il cielo di zone apparentemente buie.
PRIMA DELL’ALBA
Giusto uno sguardo prima dell’alba, per veder riapparire verso est le costellazioni primaverili di Cancro e Leone.  L’elevata inclinazione dell’eclittica offre margini per una osservazione di qualche oggetto di profondo cielo, ma è effettivamente troppo presto per osservare questi oggetti, quindi rimanderemo il tutto al periodo giusto.
a cura di Stefano Capretti (Skylive)

In arrivo una nuova cometa

Nei forum di astronomia si parla insistentemente di questa nuova cometa denominata C/2012 S1 (ISON), attualmente (25-9-2012) ubicata oltre l’orbita di Giove. La cometa ha in programma un incontro estremamente avvicinato con la nostra stella che avverrà nel prossimo anno; nel novembre 2013 passerà a meno di 1.8 milioni di km (0.012 UA) dalla superficie solare. L’intenso calore cui verrà sottoposta potrebbe farla diventare un oggetto molto brillante, con magnitudo negativa (addirittura sino a -12, secondo alcune stime!) e dovrebbe restare visibile a occhio nudo per almeno un paio di mesi. Tuttavia non è uno scenario scontato: come già avvenuto per la cometa Elenin — che ha avuto un passaggio ravvicinato con nostro pianeta a metà ottobre dello scorso anno — potrebbe invece spezzettarsi in piccoli frammenti, vanificando così lo spettacolo. Ma è proprio in questo sta il fascino delle comete, ossia nella loro imprevedibilità. Avremo comunque modo di riparlarne. Per saperne di più potete consultare l’articolo de il Galassiere.

Regioni H I e nubi ad alta velocità

La locuzione regione H I (regione acca primo) identifica una classe di nubi interstellari costituita da idrogeno neutro monoatomico (H I). Queste regioni emettono un quantitativo estremamente basso di radiazione elettromagnetica, eccezion fatta per le emissioni nella banda dei 21 cm (1420 MHz), propria dell’idrogeno neutro monoatomico; dal momento che tale banda ha una probabilità di transizione molto bassa, sono necessarie enormi quantità di idrogeno per rendere visibili queste nubi.
Il grado di ionizzazione di una regione H I è molto basso e corrisponde a circa 10−4, ovvero una particella ionizzata su 10.000.
La temperatura di una regione H I è di circa 100 K, ed è solitamente considerata isotermica, tranne qualora sia associata a una regione H II in espansione; in questo caso, la regione H II è circondata da una regione H I più densa, separata dal restante gas neutro “indisturbato” da un’onda d’urto e dalla regione H II vera e propria da un fronte di ionizzazione.
La mappatura delle emissioni alle lunghezze d’onda dell’H I con un radiotelescopio è una tecnica largamente utilizzata per determinare la struttura di una galassia spirale. Tale tecnica trova impiego anche per definire le perturbazioni gravitazionali tra galassie interagenti; infatti, quando due galassie si urtano, la materia viene trascinata via in delle strisce, che consentono agli astronomi di comprendere in che direzione e in che modo le galassie si stanno muovendo.
Nella nostra galassia, la Via Lattea, sono state scoperte una particolare classe di nubi di H I, le così dette nubi ad alta velocità (HVC, acronimo di High Velocity Cloud), che possiedono velocità superiori a quelle esplicabili tenendo in considerazione solamente la velocità di rotazione della Via Lattea.  Per definizione, tali nubi devono possedere una vlsr (ovvero la velocità standard locale di riposo, local standard rest velocity) superiore a 90 km s-1. La loro composizione ricalca quella delle regioni H I.
Le teorie formulate per esplicare questo fenomeno considerano la materia residuata dal processo di formazione della nostra Galassia, oppure la materia strappata dalle interazioni mareali intercorse con altri membri del Gruppo Locale, come la così detta Corrente Magellanica. Per poter far chiarezza tuttavia sull’origine di queste nubi, è necessaria una migliore comprensione della loro distanza e della loro metallicità.
Le regioni H I si formano per addensamento del mezzo interstellare.
Il mezzo interstellare è inizialmente molto rarefatto, con una densità compresa tra 0,1 e 1 particella per cm3. La dispersione di energia, che si traduce in un’emissione di radiazione nell’infrarosso lontano (meccanismo questo assai efficiente) e dunque in un raffreddamento della nube, fa sì che la materia del mezzo si addensi nelle regioni H I; man mano che il raffreddamento prosegue, le nubi divengono sempre più dense. Quando la densità raggiunge le 1000 particelle al cm3, la nube diviene opaca alla radiazione ultravioletta galattica; tali condizioni permettono agli atomi di idrogeno di combinarsi in molecole biatomiche (H2), tramite meccanismi che vedono coinvolte le polveri in qualità di catalizzatori;[6] tali regioni prendono il nome di nubi molecolari, che possono contenere al loro interno anche complesse molecole organiche.
All’interno delle nubi molecolari avvengono fenomeni di formazione stellare; le stelle che si formano al loro interno contribuiscono, al termine della loro esistenza, ad arricchire il mezzo, e di conseguenza le nubi, di nuova materia (per lo più metalli), che si è prodotta al loro interno tramite processi di nucleosintesi. Pertanto si ritiene che le nubi facciano parte del ciclo del mezzo interstellare, secondo cui i gas e le polveri, materia prima per la formazione di nuove stelle, passano dalle nubi ad esse e, al termine della loro esistenza, tornino nuovamente a costituire nubi, costituendo il materiale di partenza per una successiva generazione di stelle.
tratto da Wikipedia
16 – fine

Un gabbiano cosmico

Le nebulose sono tra gli oggetti più appariscenti nel cielo notturno: sono nubi interstellari di polvere, di molecole, di idrogeno, elio e altri gas ionizzati in cui nascono le nuove stelle. Anche se hanno forme diverse e colori diversi, hanno quasi tutte una caratteristica comune: quando vengono osservate per la prima volta, le loro forme strane e suggestive scatenano la fantasia degli astronomi che produce quindi nomi curiosi. Questa drammatica zona di formazione stellare, che ha acquisito il soprannome di Nebulosa Gabbiano, non fa eccezione.
Questa nuova immagine del WFI (Wide Field Imager), montato sul telescopio da 2,2 metri dell’MPG/ESO all’Osservatorio di La Silla dell’ESO in Cile, mostra la zona della “testa” della Nebulosa Gabbiano,  parte della nebulosa più grande nota più formalmente con il nome di IC 2177, che distende le sue ali per circa 100 anni luce e assomiglia a un gabbiano in volo. Questa nube di gas e polveri si trova a circa 3700 anni luce dalla Terra. L’intero corpo del gabbiano è visibile meglio nelle immagini a grande campo (Questo oggetto è stato chiamato in molti altri modi nel corso degli anni: è noto come Sh2-292, RCW 2 e Gum 1. Il nome Sh 2-292 significa che questo è il 292esimo oggetto del secondo catalogo di Sharpless di regioni HII, pubblicato nel 1959. Il numero RCW si riferisce al catalogo compilato da Rodgers, Campbell e Whiteoak, pubblicato nel 1960. Questo è stato anche il primo di una lista di nebulose del cielo australe compilato da Colin Gum e pubblicato nel 1955.
La Nebulosa Gabbiano si trova proprio al confine tra le costellazioni dell’Unicorno e del Cane Maggiore ed è vicina a Sirio, la stella più luminosa del cielo notturno. La nebulosa è lontana più di quattrocento volte rispetto alla famosa stella.
Il complesso di gas e polveri che forma la testa del gabbiano risplende luminoso in cielo a causa della radiazione ultravioletta molto forte che proviene principalmente da una giovane stella brillante – HD 53367 visibile nel centro dell’immagine, che può essere presa per l’occhio del gabbiano (HD 53367 è una giovane stella con una massa venti volte quella del Sole. È classificata come stella Be, cioè una stella di tipo B con importanti righe di emissione dell’idrogeno nello spettro. Questa stella ha una compagna di circa 5 volte la massa del Sole, su un’orbita molto ellittica)
La radiazione prodotta dalle stelle giovani fa risplendere l’idrogeno gassoso circostante di un rosso intenso e la trasforma in una regione HII (Le regioni HII vengono così chiamate perchè sono costituite da idrogeno (H) ionizzato, con elettroni non più legati ai protoni. HI è il termine usato per indicare l’idrogeno neutro, o non-ionizzato. Il colore rossastro delle regioni HII dipende dal fatto che protoni ed elettroni si ricombinano e, nel processo, emettono energia ad una lunghezza, o colore, ben definita. Una di queste transizioni così evidenti (detta idrogeno alfa, o H-alfa) produce il colore rossastro). La luce delle stelle calde bianco-azzurre viene diffusa dalle minuscole particelle di polvere nella nebulosa a creare un alone bluastro diffuso in alcune zone dell’immagine.
Anche se una piccola regione brillante del complesso della Nebulosa Gabbiano fu osservata per la prima volta dall’astronomo anglo-tedesco Sir William Herschel nel lontano 1785, la zona qui mostrata ha dovuto attendere la fotografia, circa un secolo dopo, per essere scoperta.
Per caso questa nebulosa si trova vicina nel cielo alla Nebulosa “Elmetto di Thor” (NGC 2359), che è risultata vincitrice del recente concorso “Scegli cosa far osservare al VLT” (ann12060). Questa nebulosa, dalla forma caratteristica e dal nome insolito, è stata scelta come il primo oggetto in assoluto selezionato dai membri di una giuria pubblica per essere osservato dal VLT (Very Large Telescope) dell’ESO. Queste osservazioni faranno parte delle celebrazioni del 50esimo anniversario dell’ESO, il 5 ottobre 2012. Le osservazioni verranno trasmesse in diretta (live streaming) dal VLT al Paranal. Restate sintonizzati!
Fonte ESO

L’Universo di Hubble è sempre più profondo

Siete pronti a viaggiare nel tempo? L’Universo così non l’avete mai visto. È la prima volta, infatti, che gli astronomi riescono ad assemblare, grazie al telescopio orbitale NASA/ESA Hubble, un’immagine così lontana e definita dell’Universo profondo, quello più antico.
L’Hubble Deep Field, fotografata tra il 2003 e il 2004, e l’Hubble Ultra Deep Field, ripresa nel 2009, erano già delle straordinarie foto, ritenute le più “profonde” mai scattate, ma non comparabili a quella recentemente ottenuta, battezzata Hubble Extreme Deep Field (XDF).
Il team di Hubble ha assemblato questa nuova immagine, “incollando” alcune fotografie che Hubble ha collezionato nell’arco degli ultimi in 10 anni:  in una regione al centro dell’Hubble Ultra Deep Field, che corrisponde alla costellazione della Fornace, gli astronomi sono stati riusciti a tornare indietro nel tempo di miliardi di anni e osservare l’Universo poco dopo la sua nascita, quando era solo al 5% della sua formazione.
Ottenere l’Hubble eXtreme Deep Field non è stato un lavoro semplice, a causa della debole luce proveniente da queste galassie antichissime. XDF è, invece, una foto ad alta risoluzione e dai colori vividi e accesi, che mostra più circa 5500 galassie. Hubble ha osservato questa regione per 50 giorni e con un’esposizione di 2 milioni di secondi. Hubble ha osservato questa particolare regione, che in paragone corrisponde a una piccola sezione della Luna, per 50 giorni e con un’esposizione di 2 milioni di secondi. Per realizzare l’immagine finale  ci sono volute più di 2000 immagini realizzate dalla Advanced Camera for Surveys e dalla Wide Field Camera 3 a bordo del telescopio spaziale.
Nella foto si notano galassie a spirale simili alla nostra Via Lattea o alla vicina di casa Andromeda, altre dai toni più rossi, che, in realtà sono galassie morte con un basso tasso di formazione stellare. I puntini che si vedono sono altre piccole galassie che sembrano essere più lontane, dalla luce debole.
Questa regione verrà esplorata di nuovo con il James Webb Space Telescope, che verrà lanciato nel 2018 e userà le sue lenti sensibili alle lunghezze d’onda dell’infrarosso.
«L’XDF è l’immagine più profonda del cielo mai ottenuta e rivela le galassie meno luminose e più lontane mai osservate» ha detto Garth Illingworth dell’Università di California a Santa Cruz.
L’età dell’Universo è stimata attorno ai 13,7 miliardi di anni, e l’immagine ottenuta da Hubble mostra galassie formatesi 500 milioni di anni dopo il Big Bang, quando l’Universo aveva poco più del 5% della sua età attuale. Insomma, guardare questa immagine è come fare un viaggio nel tempo e vedere come era l’Universo al momento della sua nascita. Con Hubble gli astronomi posso studiare ciò che un tempo non potevano neanche immaginare.
di Eleonora Ferroni (INAF)

Due nane bianche per una supernova

Per molti giorni, circa un millennio fa, è stato l’astro più luminoso del cielo. Solo ora però arriva una risposta definitiva sull’origine dell’esplosione di supernova avvenuta nel 1006. Secondo lo studio guidato da Jonay Gonzalez Hernandez dell’Instituto de Astrofisica de Canarias (IAC) , a cui ha anche collaborato l’astronomoLuigi Bedin dell’INAF-Osservatorio Astronomico di Padova, l’evento stellare sarebbe stato prodotto dalla collisione e dalla relativa fusione di due nane bianche.
Gli astronomi sono andati alla ricerca di resti stellari nella zona della deflagrazione, senza però trovare nulla. Inizialmente, infatti, si pensava che la stella esplosa dando luogo alla supernova facesse parte di un sistema binario, ma della compagna non c’era traccia.
“Abbiamo condotto una scansione approfondita, attorno al luogo in cui è avvenuta l’esplosione della supernova del 1006, con uno dei quattro telescopi da 8 metri che compongono il VLT dell’ESO in Cile” dice Bedin. “Dalle indagini non è stato individuato alcun resto di tipo stellare. Questo implica che l’evento sia stato causato da una collisione e quindi da una fusione di due nane bianche di massa simile. La loro fusione ha portato alla formazione di un oggetto degenere che è esploso senza lasciare residui al di fuori della debole nebulosa di forma rotondeggiate che ha un’estensione di circa 60 ani luce”.
Le nane bianche sono stelle di massa inferiore a 1,4 volte quella del Sole e si trovano nell’ultima fase del loro ciclo evolutivo. Questi resti stellari hanno esaurito il loro combustibile e, di conseguenza, si trovano in una fase di lento raffreddamento. Le stelle di meno di 8-10 masse del Sole, e quindi la maggior parte degli astri nella Via Lattea, termineranno la loro esistenza come nane bianche.
Quando la loro massa inizia ad aumentare fino a raggiungere il punto limite (cioè 1,4 volte quella del Sole, la cosiddetta “massa di Chandrasekhar”) esplode come una supernova ed espelle tutto il materiale nello spazio interstellare senza lasciare residui. Per decenni gli studiosi non sono riusciti a trovar nessun resto stellare e quindi sono giunti alla conclusione che solo la presenza di due nane bianche vicine poteva spiegare l’esplosione della supernova del 1006.
“Abbiamo studiato diversi tipi di stelle: giganti, subgiganti e nane. Solo quattro stelle giganti sono ad una distanza compatibile con il resto di supernova del 1006, circa 7.000 anni luce, ma le simulazioni numeriche non prevedono compagni del progenitore della supernova con queste caratteristiche” spiega Bedin. “Questi nuovi risultati, insieme a quelli precedenti, suggeriscono che la fusione di nane bianche possa essere il canale preferenziale che porta alla produzione di queste violente esplosioni termonucleari”.
di Silvia Dragone (INAF)

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