Scoperta la stella nana bianca più calda

Grazie a osservazioni del telescopio spaziale Hubble, due astronomi delle Università di Tubinga e di Potsdam hanno stabilito un paio di record. Innanzitutto hanno identificatouna stella nana bianca che, sebbene risulti già in fase di raffreddamento, con una temperatura di 250.000 gradi Celsius è risultata la più calda del suo genere mai rilevata nella nostra Galassia. Inoltre, i ricercatori sono stati anche i primi a osservare una nuvola di gas intergalattico catturata dalla Via Lattea, un indizio di come le galassie possano raccogliere materiale “fresco” dallo spazio profondo per formare nuove stelle. I risultati della ricerca sono esposti in uno studio pubblicato sull’ultimo numero della rivista scientifica Astronomy & Astrophysics.

Diagramma della Via Lattea con il Sole, la nana bianca e la nube di gas sulla linea di vista della Grande Nube di Magellano. Crediti: Philipp Richter/University of Potsdam

Diagramma della Via Lattea con il Sole, la nana bianca e la nube di gas sulla linea di vista della Grande Nube di Magellano. Crediti: Philipp Richter/University of Potsdam

Le stelle di massa relativamente piccola verso la fine del loro “ciclo vitale” diventano estremamente calde. Per esempio, il Sole – che appartiene a questa categoria – ha mantenuto una temperatura superficiale piuttosto costante intorno ai 6.000 gradi Celsius fin dalla sua nascita 4,6 miliardi di anni fa. Ma, immediatamente prima di esaurire il combustibile delle reazioni termonucleari, fra altri cinque miliardi di anni, la nostra stella raggiungerà una temperatura trenta volte superiore, riscaldandosi fino a 180.000 gradi, prima di iniziare a raffreddarsi allo stadio di nana bianca. Le simulazioni al computer suggeriscono che le stelle possano diventare ancora più calde; in effetti, la temperatura più alta osservata per una di queste “stelle morenti” è stata misurata attorno ai 200.000 gradi. Dall’interpretazione degli spettri ultravioletti ottenuti dal telescopio spaziale Hubble sulla stella RX J0439.8-6809, gli autori del nuovo studio hanno ottenuto il nuovo record di 250.000 gradi, una temperatura che può essere raggiunta solo da una stella circa cinque volte più massiccia del nostro Sole. Questa nana bianca, ora in fase di raffreddamento, sembra aver raggiunto la sua temperatura massima di 400.000 gradi circa mille anni fa. La composizione chimica di questa rovente piccoletta desta ancora molti dubbi. Le analisi mostrano che sulla sua superficie sono presenti sia carbonio che ossigeno, prodotti della fusione nucleare dell’elio, un processo che avviene normalmente in profondità nel nucleo di una stella. RX J0439.8-6809 era già stata notata più di 20 anni fa come punto molto luminoso nelle immagini a raggi X, a significare un’enorme fonte di calore. Gli scienziati pensarono a una nana bianca che accendeva fuochi nucleari sulla sua superficie con l’idrogeno carpito a una stella compagna. Inoltre, gli astronomi ritenevano che la nana bianca fosse situata nella galassia a noi vicina, la Grande Nube di Magellano. Ora, i nuovi dati di Hubble mostrano invece che la stella si trova all’estrema periferia della Via Lattea, nel cosiddetto alone galattico, allontanandosene a una velocità di 220 chilometri al secondo. Lo spettro ultravioletto della stella conteneva anche un’altra sorpresa, indicando la presenza di gas che non appartiene alla stella, ma facente parte di una “nuvola” giustapposta tra la Via Lattea e RX J0439.8-6809. I ricercatori hanno calcolato che questa nube di gas sta scappando dalla Via Lattea a una velocità attorno ai 150 chilometri al secondo. Gli astronomi conoscevano l’esistenza di gas che viaggiano ad alta velocità in direzione della Grande Nube di Magellano, ma non erano in grado di dire con certezza se si trovassero nella Via Lattea o nella Grande Nube di Magellano. Trovare tale gas nello spettro di RX J0439.8-6809 offre ora la prova che la nube di gas appartiene alla Via Lattea. Tuttavia, e qui sta la vera sorpresa, la sua composizione chimica indica che ha avuto origine dallo spazio intergalattico. Secondo gli autori dello studio, questa è una prova a favore del fatto che le galassie raccolgono nuovo materiale dallo spazio profondo, materiale che possono quindi utilizzare per accendere nuove stelle.

di Stefano Parisini (INAF)

L’addio ai dinosauri, nuova teoria

Estinzione dei dinosauri? Ecco la nuova soluzione al mistero. Voi direte: beh, ma ormai ci sono talmente tante teorie, che non si sa più a chi credere. Ciò su cui, però, gli esperti sono sempre stati d’accordo (almeno finora) è che l’intensa attività vulcanica avrebbe avuto un ruolo decisivo nell’estinzione di buona parte delle specie viventi.

Lava fontana di sopra la fessura vulcanica di eruzione del diluvio Holuhraun di basalto in Islanda nel mese di settembre 2014, che può essere considerato come un analogo su scala ridotta per le eruzioni nelle trappole Deccan, 65 milioni di anni fa. Crediti: Michelle Parks (Università d'Islanda)

Fontane di lava dal vulcano basaltico Holuhraunin, in Islanda nel settembre 2014. L’evento può essere considerato un analogo in miniatura delle eruzioni nei Trappi del Deccan, 65 milioni di anni fa. Crediti: Michelle Parks (Università d’Islanda)

C’è un “però” che cambia tutto, rispetto agli studi precedenti: in una nuova ricerca pubblicata oggi su Nature Geoscience, un gruppo di scienziati dell’Università di Leeds ha affermato che il vulcanismo potrebbe non essere così strettamente legato al repentino cambiamento climatico e quindi alla conseguente destabilizzazione degli ecosistemi di quel periodo. Ci sarebbe dell’altro. Come noto, anche l’impatto di un grande meteorite e la sua coda di ceneri incandescenti potrebbero aver contribuito in maniera significati alla morte dei dinosauri sulla Terra. Eventi di questo genere uniti alle eruzioni di lunga durata sui plateau basaltici, come i Trappi del Deccan in India, avrebbero portato alla fuoriuscita di quantità gigantesche di gas serra e polveri nell’atmosfera alterando il clima per anni e anni. Fino ad ora, però, l’impatto della presenza costante e abbondante di emissioni di anidride solforosa provenienti dai palteau basaltici continentali era sconosciuta: le conseguenze sono state osservate non solo sul clima, ma anche sulla vita negli oceani e sulla vegetazione dell’epoca. Nello specifico, questo studio è stato condotto dal team guidato dalla ricercatrice Anja Schmidt: «Durante il periodo dei dinosauri, nel corso di un milione di anni, numerose sono state le eruzioni di lunga durata. Questi eventi, tipici dei plateau basaltici, non possono essere paragonati alle eruzioni vulcaniche che spesso vediamo oggi, con la lava che sgorga dal terreno come una cortina di fuoco. Perlopiù, le eruzioni a quel tempo duravano decine di anni e ogni eruzione era separata da un lungo periodo di tempo in cui l’attività vulcanica era inesistente». C’è un dato che su tutti è impressionante: la ricercatrice ha stimato che la lava prodotta da un’eruzione di media intensità avrebbe riempito 150 piscine olimpioniche al minuto. Per ottenere i dati, gli esperti di Leeds hanno utilizzato delle simulazioni al computer per studiare la diffusione delle particelle di gas e degli aerosol, dimostrando i reali impatti climatici delle eruzioni: solo se queste fossero durate per centinaia di anni, senza soluzione di continuità, avrebbero potuto portare un effetto grave su piante e animali. Per stimare la portata delle emissioni di anidride solforosa, i ricercatori si sono basati sulle variabili di intensità e durata delle eruzioni sui plateau basaltici, come – appunto – quella l’Altopiano del Deccan (un terzo dell’India) 65 milioni di anni fa, al limite tra il Cretaceo-Terziario. Cosa è venuto fuori? I computer hanno mostrato che le temperature sulla Terra hanno subito effettivamente un raffreddamento di ben 4,5°C a causa delle eruzioni ma che la temperatura sarebbe poi tornata alla normalità nei 50 anni successivi all’eruzione. Schmidt ha affermato: «Abbiamo scoperto che gli effetti delle piogge acide sulla vegetazione erano piuttosto selettivi: la vegetazione in alcune parti del mondo è stata spazzata via, mentre in altre zone gli effetti sarebbero stati minimi». Si può dire lo stesso per le altre specie viventi? È questa la sfida lanciata dai ricercatori: bisogna ridefinire il ruolo del vulcanismo sull’estinzione dei dinosauri
di Eleonora Ferroni (INAF)

Ammassi di galassie in collisione

Questo mese si festeggiano i cento anni dalla pubblicazione da parte di Albert Einstein della teoria della relatività generale, uno dei risultati scientifici più importanti del secolo scorso Una delle implicazioni fondamentali che deriva della teoria di Einstein è che la materia deforma il tessuto dello spazio-tempo, e quindi la presenza di un oggetto massiccio può causare una deflessione osservabile di un raggio di luce. La prima prova osservativa di questo effetto è stata raccolta durante un’eclissi solare, poiché la luce di una stella lontana, prospetticamente vicina al disco del Sole, è stata deviata nel passaggio nei pressi della nostra stella, risultando più lontana dal disco rispetto a quanto ci si aspettava. Gli astronomi hanno poi osservato molte altre volte questo fenomeno, che è stato chiamato “lente gravitazionale” e ha permesso di studiare nel dettaglio galassie e ammassi di galassie molto lontani da noi. Gli ultimi risultati ottenuti per l’ammasso di galassie chiamato “Cheshire Cat” (in italiano “lo stregatto”) mostrano come le teorie di cento anni fa possono dare anche oggi risultati sorprendenti. Gli astronomi hanno dato questo nome all’ammasso a causa della forma, che somiglia a quella del volto sorridente di un felino. Le singole galassie del sistema sono state anche osservate nella banda visibile utilizzando il Telescopio Spaziale Hubble della NASA. Ognuna delle due galassie che fungono da “occhi” è il membro più brillante del proprio gruppo, inoltre i due gruppi di galassie stanno viaggiando uno verso l’altro a quasi 500.000 km/h. I dati raccolti dal telescopio ai raggi X Chandra della NASA (in viola nell’immagine), pubblicati su un articolo apparso suThe Astrophysical Journal, mostrano la presenza di gas caldo (fino a milioni di gradi). I dati estremamente dettagliati di Chandra hanno inoltre permesso di rivelare che l’”occhio” sinistro contiene un buco nero supermassiccio in piena attività. Gli astronomi stimano che i due “occhi” dello stregatto si fonderanno in circa un miliardo di anni, lasciando al loro posto una grande galassia e decine di piccole satelliti. A quel punto forse il nome più appropriato per il gruppo diventerà “Ciclope”.
di Elisa Nichelli (INAF)

La Nebulosa Tulipano

La Nebulosa Tulipano (nota anche come Sh2-101) è una nebulosa a emissione visibile nella costellazione del Cigno. Si individua nella parte centro-meridionale della costellazione, al centro di un tratto della Via Lattea molto luminoso e ricco di campi stellari; si trova circa 45′ a nordest della stella η Cygni e si estende per una ventina di primi in senso NE-SW. Possiede una forma allungata e irregolare; il periodo migliore per la sua osservazione nel cielo serale ricade fra i mesi di giugno e novembre. Si tratta di una grande regione H II situata sul tratto iniziale del Braccio di Orione a circa 2700 parsec (8750 anni luce) di distanza dal sistema solare, al di là del grande complesso nebuloso di Cygnus X, dal quale disterebbe non più di 500 parsec. Tale distanza coincide con quella stimata per l’associazione OB Cygnus OB3, che contiene una trentina di stelle massicce delle prime classi spettrali con un’età di circa 8,3 milioni di anni. Si ritiene che la sorgente della radiazione ionizzante i gas della nebulosa sia la stella HD 227018, una gigante blu di classe O6.5III e una magnitudine apparente pari a 9,01.Secondo il catalogo Avedisova la nebulosa ospiterebbe alcuni fenomeni attivi di formazione stellare, come sarebbe testimoniato dalla presenza di quattro sorgenti di radiazione infrarossa riportate sul catalogo dell’IRAS: IRAS 19581+3504, IRAS 19579+3509, IRAS 19584+3506 e IRAS 19584+3515, oltre ad alcune sorgenti di onde radio.

Il gran ballo della gigante e della nana

Nonostante sia l’ottava stella più luminosa del cielo notturno, rappresentando uno dei tre vertici del triangolo invernale assieme a Sirio e a Betelgeuse, per molto tempo Procione ha mantenuto abbastanza celati i dettagli della sua doppia natura. Situata a soli 11 anni luce di distanza, Procione non è infatti una stella singola ma un sistema binario, costituito da Procione A, una luminosa subgigante che probabilmente ha esaurito l’idrogeno nel nucleo e si sta avviando a divenire una gigante vera e propria, e da Procione B, una debole nana bianca. Ora, grazie a precise misurazioni effettuate dal telescopio spaziale Hubble nell’arco di due decenni, combinate con osservazioni storiche risalenti al 19° secolo, un team di astronomi, guidati da Howard Bond della Pennsylvania State University, ha finalmente rivelato alcuni dei segreti meglio custoditi da queste dirimpettaie. Nonostante Procione sia un sistema relativamente vicino, la determinazione dell’orbita delle due componenti non è stato un compito facile per via della grande differenza di magnitudine apparente tra le due componenti e per la piccola separazione angolare tra di esse. La nana bianca è infatti visivamente più debole di circa 16.000 volte rispetto alla subgigante, apparendo le due stelle dal nostro punto di vista separate solo di 5 secondi d’arco. Senza la possibilità di un’accurata misurazione del loro moto, le masse delle due stelle sono di conseguenza rimaste incerte per gran parte del secolo scorso. Grazie alla costanza e alla potenza del telescopio spaziale Hubble, Bond e colleghi sono riusciti a ricavare con precisione gli elementi orbitali di Procione e ad ottenere le masse dinamiche delle due stelle. Nel nuovo studio, pubblicato su The Astrophysical Journal, il team riporta che questo sistema binario compie un’orbita completa una volta ogni 40,8 anni. Le masse trovate per le due stelle sono equivalenti a 1,48 masse solari per Procione A e 0,59 masse solari per Procione B. Numeri che, secondo i ricercatori, ben si accordano con le previsioni teoriche in base ai parametri di temperatura, luminosità e astrosismologia di Procione A. La soddisfazione degli scienziati va oltre il fatto di avere messo la parola conclusiva a un quesito astronomico iniziato 170 anni prima, nel 1844, quando l’osservazione di perturbazioni nell’orbita di Procione aveva fatto sospettare per la prima volta di trovarsi di fronte un sistema binario, le cui componenti separate sarebbero state viste solo mezzo secolo dopo. La conoscenza dettagliata delle movenze di questa coppia “squilibrata”, sempre secondo gli autori, fornisce la chiave d’accesso a nuove informazioni su come funzioni la fisica stellare per una stella subgigante come Procione A, che dovrebbe avere attorno ai 2,7 miliardi di anni di età. Una stella che nel suo “sviluppo” ha intensamente interagito – in una modalità ancora da chiarire, ma di cui si scorgono le tracce nell’inusuale mescolamento degli strati più esterni – con la progenitrice di Procione B, presumibilmente una stella di taglia media poi collassata in nana bianca. Risolto un arcano, nuove missioni si preparano per gli astronomi.
di Stefano Parisini (INAF)

Il complesso sistema stellare Delta Orionis

Grazie ad una serie di osservazioni realizzate con l’osservatorio spaziale della NASA Chandra, un gruppo di ricercatori ha osservato la componente della binaria ad eclisse del sistema Delta Orionis A(denominata Delta Ori Aa) per un totale di 6 giorni, traendo preziosi indizi sulle stelle massive e in generale su come i loro venti giochino un ruolo importante sia per la loro evoluzione che per l’ambiente circostante. I risultati di questo studio sono riportati in quattro articoli su Astrophysical Journal. Una delle costellazioni che si riconoscono più facilmente nel cielo è Orione, il “Cacciatore”. La sua caratteristica principale è senza dubbio la “cintura”, che consiste di tre stelle brillanti “disposti lungo una linea”, ognuna delle quali può essere osservata anche senza un telescopio. La stella più a destra della cintura d’Orione è nota ufficiliamente come Delta Orionis, ma anche come “Mintaka”, uno dei tanti nomi che le è stato attribuito nel corso dei secoli. Oggi, però, gli astronomi sanno che Delta Orionis non è semplicemente una singola stella piuttosto essa consiste di un sistema stellare multiplo.

dori

Delta Orionis è in realtà un piccolo gruppo di stelle formato da tre componenti per un totale di cinque stelle: Delta Ori A, Delta Ori B e Delta Ori C. Mentre Delta Ori B e Delta Ori C sono stelle singole che emettono piccole quantità di raggi X, Delta Ori A è una forte sorgente X ed è essa stessa un sistema stellare triplo. In tale sistema, due stelle vicine (Aa 1 e Aa 2) orbitano l’una attorno all’altra ogni 5,7 giorni, mentre una terza stella (Ab) orbita attorno a questa coppia con un periodo di circa 350 anni. La stella più massiccia, o principale, della coppia (Aa 1) ha una massa circa 25 volte quella del Sole mentre la componente meno massiva, la secondaria, ha circa 10 volte la massa solare (Aa 2). L’allineamento fortuito di questa coppia di stelle fa sì che una stella passi di fronte all’altra durante ogni orbita, così come osservato da Terra. Questa classe particolare di sistemi stellari è nota come “binaria ad eclisse” e fornisce agli astronomi un metodo diretto per misurare la massa e la dimensione delle stelle. Le stelle massive, anche se relativamente rare, possono avere delle implicazioni profonde per le galassie in cui esse risiedono. Infatti, queste stelle giganti sono così brillanti che la loro radiazione causa potenti venti stellari che ifluenzano le proprietà chimiche e fisiche del gas intergalattico. Inoltre, i venti stellari contribuiscono al destino finale delle stelle che alla fine esplodono come supernovae, lasciando come residuo finale una stella di neutroni o un buco nero. Dato che Delta Ori Aa è il più vicino sistema binario massivo ad eclisse, esso può essere utilizzato come una sorta di “grimaldello” per comprendere la relazione che esiste tra le proprietà stellari derivate dalle osservazioni ottiche e quelle del vento, rivelate dall’emissione X. La stella compagna meno massiva del sistema Delta Ori Aa (Aa 2) possiede un vento molto meno intenso e risulta molto debole in banda X. Gli astronomi possono utilizzare Chandra per osservare come la stella compagna blocchi le varie parti del vento che proviene dalla stella più massiva (Aa 1). Questo permette agli scienziati di “vedere” meglio ciò che succede al gas che circonda la stella primaria: uno degli obiettivi da parte dei ricercatori è proprio quello di capire dove si forma il gas nel vento stellare che emette raggi X. I dati di Chandra suggeriscono non solo che la maggior parte dell’emissione X proviene dal vento associato alla stella gigante ma che è probabilmente prodotta dalle onde d’urto che si generano a causa delle collisioni tra le regioni più dense di gas, presenti nel vento, che si muovono velocemente. I ricercatori hanno inoltre trovato che l’emissione X dovuta a certi atomi presenti nel vento stellare di Delta Ori Aa cambia man mano che le stelle del sistema binario si muovono l’una attorno all’altra. Ciò potrebbe essere causato da una serie di interazioni tra i venti delle due stelle, oppure da una interazione dovuta al vento della stella principale con la superficie della stella secondaria. A sua volta, questa interazione blocca parte del vento che proviene dalla stella più brillante. In parallelo a queste osservazioni eseguite in banda X, altre osservazioni ottiche realizzate con il telescopio dell’Agenzia Spaziale Canadese MOST (Microvariability and Oscillation of Stars Telescope) hanno permesso di rivelare delle oscillazioni associate alla stella primaria, probabilmente dovute alle interazioni mareali tra la stella principale e la compagna durante il loro moto orbitale. I ricercatori hanno poi utilizzato le misure della variazione di luminosità in banda ottica combinate con un’analisi dettagliata degli spettri ottico e ultravioletto per affinare i parametri fisici delle due stelle. Infine, gli autori sono stati in grado di risolvere alcune incosistenze tra i parametri e i modelli stellari che descrivono come le stelle evolvono nel corso del tempo. Nella foto: la costellazione di Orione, ripresa da un telescopio terrestre. Nell’inserto, in alto a destra, l’immagine di Chandra relativa al complesso sistema stellare Delta Orionis, che contiene in totale cinque stelle. Credit: X-ray: NASA/CXC/GSFC/M.Corcoran et al.; Optical: Eckhard Slawik

La prima pulsar extragalattica

Con quasi 200 pulsar rivelati in raggi gamma dalla missione Fermi, la notizia di una nuova stella di neutroni vista pulsare alle alta energie non farebbe notizia se non si trattasse del primo esempio di pulsar gamma rivelata al di fuori della nostra galassia. Stiamo parlando di PSR 0540-69 che si trova nella grande Nube di Magellano a 50 kpc da noi. Nella sua scansione continua del cielo gamma, Fermi ha un’ottima copertura della nube di Magellano. Integrando i primi anni di dati della missione Fermi sembrava proprio che l’emissione della grande nube di Magellano fosse diffusa, con una “macchia” in corrispondenza della regione 30 Doradus, dove le stelle nascono e muoiono ad un ritmo frenetico. La situazione è cambiata di recente con la disponibilità di più anni di dati che sono stati riprocessati con un nuovo software (noto come Pass 8) che permette una migliore ricostruzione degli eventi gamma. Selezionando solo gli eventi di energia superiore a 2 GeV, dove la risoluzione angolare dello strumento è al suo massimo, è stato possibile vedere che la macchia di 30 Doradus contiene due belle sorgenti puntiformi le cui posizioni coincidono con PSR J0540-6919 e PSR J0537-6910. Non sono pulsar banali . Dal punto di vista energetico, PSR J0537-6910 è il campione della famiglia delle stelle di neutroni. La sua energia rotazionale è di poco superiore a quella del pulsar del Granchio. PSR J0537-6910 ruota con un periodo di 16 msec e è immerso in un resto di supernova dall’età stimata di circa 5000 anni. A pochi minuti d’arco troviamo PSR J0540-6919, un pulsar che ruota in 50 msec ed è immerso in un resto di supernova di circa 1000 anni, che fa registrare un terzo dell’energia rotazionale del pulsar del Granchio. Nella regione di 30 Doradus ci sono quindi due pulsar importanti, rispettivamente il primo ed il terzo più energetici della famiglia e i risultati sull’emissione gamma delle stelle di neutroni ci hanno insegnato che l’energia disponibile è un fattore molto importante: quasi tutti i pulsar visti da Fermi sono quelli con la maggiore riserva di energia disponibile. Un esame accurato dell’immagine gamma di 30 Doradus mostra che PSR J0540 (il pulsar meno energetico) è una sorgente più brillante di PSR J0537. Inoltre, le due sorgenti sono decisamente diverse dal punto di vista spettrale. Mentre PSR J0540 ha uno spettro che ricorda quello dei pulsar, con il tipico cambiamento di pendenza alle alte energie, PSR J0537 non mostra alcun cambiamento di pendenza.
Il ripiegamento in fase dei dati di PSR J0540 è stato particolarmente difficile perché le pulsazioni si vedono bene solo nei raggi X mentre l’emissione radio è sporadica e quella ottica, pur presente, è troppo debole. Per poter fare l’analisi temporale in gamma è quindi necessario avere una copertura X della sorgente e l’unico satellite che ha assicurato il monitoraggio di PSR J0540 è stato RXTE (Rossi X-Ray Timing Explorer) che ha cessato la sua attività alla fine del 2011. L’analisi temporale dei dati gamma, seppure limitata al periodo coperto di RXTE, mostra chiaramente la periodicità a 50 msec con una curva di luce che ricorda quella X e ottica (vedi figura). E’ una curva di luce abbastanza peculiare con un largo massimo, molto probabilmente frutto della sovrapposizione di due picchi abbastanza vicini in fase che emergono bene in radio ed in ottico. Per contro, mentre nessuna periodicità viene rivelata di PSR J0537.  Ma non è finita: paragonando l’emissione gamma di PSR J0540 con quella del pulsar del Granchio ci si rende conto che PSR J0540 ha una luminosità gamma pulsata 20 volte superiore a quella del pulsar del Granchio. E’ un dato stupefacente, considerando che PSR J0540 ha emissione radio, ottica e X abbastanza simile a quella del pulsar del Granchio tanto da essere sempre stato considerato il gemello del pulsar del Granchio. In altre parole, PSR J0540 è più efficiente del pulsar del Granchio a convertire la sua energia rotazionale in raggi gamma, mentre sembra che l’emissione X e ottica siano del tutto simili a quelle del Granchio. La situazione si complica ulteriormente quando si consideri che il più energetico PSR J0537 non mostra nessuna modulazione gamma a un livello che è circa 30 volte inferiore all’emissione di PSR J0540. La sorgente gamma che vediamo in figura 1 potrebbe essere dovuta alla nebula di particelle accelerate dal pulsar, cosa che spiegherebbe perché lo spettro della sorgente non ha la forma tipica dei pulsar.
I due pulsar giovani ed energetici della nube di Magellano si fanno notare per il loro comportamento decisamente diverso e la rivelazione di pulsazione da parte di PSR J0540 risulta tanto importante quando la non rivelazione del più energetico PSR J0537, a riprova che la riserva di energia rotazionale non è l’unico parametro in gioco. Vedi anche http://www.media.inaf.it/2015/11/12/fermi-trova-la-prima-pulsar-extragalattica/
di Patrizia Caraveo (INAF)

Svelata l’origine dell’acqua sulla Terra

L’acqua copre più di 2/3 della superficie della Terra ma la sua vera origine rimane tuttora un mistero. Finora, gli scienziati hanno cercato di capire se l’acqua fosse già presente all’epoca in cui si formava il nostro pianeta o se, invece, fosse arrivata più tardi, magari trasportata da comete e meteoriti. Oggi, però, un gruppo di ricercatori dell’Università delle Hawaii (UH) a Manoa, guidati da Lydia Hallis, una cosmochimica presso l’Istituto di Astrobiologia della NASA della UH e Marie Curie Research Fellow all’Università di Glasgow in Scozia, ha esaminato le rocce dell’Isola di Baffin in Canada i cui dati suggeriscono che l’acqua era in parte presente sin dalle fasi primordiali della formazione della Terra. Lo studio, condotto grazie all’utilizzo di una avanzata microsonda ionica, è pubblicato su Science. La microsonda ha permesso ai ricercatori di concentrarsi su piccolissime “tasche” di vetro che si trovano all’interno di queste rocce e di rivelare le minuscole quantità di acqua in esse presenti. Per far questo, gli autori hanno analizzato il rapporto idrogeno/deuterio dell’acqua che ha di fatto fornito preziosi indizi sulla sua origine. Sappiamo che l’idrogeno ha numero di massa atomica pari a uno mentre il deuterio, un isotopo dell’idrogeno che combinato con l’ossigeno dà vita all’“acqua pesante”, ha numero di massa atomica due. Inoltre, è noto che l’acqua presente in diversi corpi celesti di origine planetaria ha rapporti idrogeno/deuterio ben distinti. “Le rocce dell’isola di Baffin sono state raccolte nel 1985 e gli scienziati hanno avuto molto tempo per analizzarle nel corso degli anni”, spiega Hallis. I risultati di queste ricerche indicano che esse contengono una componente della parte profonda del mantello terrestre. Nel corso del loro spostamento verso la superficie, queste rocce non vengono mai influenzate dai processi di sedimentazione causati dalle rocce della crosta terrestre e studi precedenti hanno già dimostrato che la loro regione di provenienza è rimasta “intatta” sin dall’epoca della formazione del pianeta. In altre parole, abbiamo a che fare con alcune delle rocce più antiche che siano mai state trovate sulla superficie della Terra e perciò l’acqua che esse contengono fornisce un indizio di inestimabile valore scientifico che apre una nuova finestra sulla storia primordiale del nostro pianeta e quindi sull’origine dell’acqua. “Abbiamo scoperto che l’acqua contiene pochissimo deuterio”, continua Hallis, “una chiara evidenza che scarta l’ipotesi secondo cui essa venne trasportata dallo spazio sulla Terra. Molto probabilmente, le molecole di acqua furono già presenti nella polvere che costituiva il disco protoplanetario che circondava il Sole prima che si formassero i pianeti. Nel corso del tempo, questa polvere ricca di acqua si aggregò lentamente per formare il nostro pianeta. Anche se una buona parte dell’acqua sarebbe stata successivamente persa per evaporazione a causa del calore generato dal processo di formazione della Terra, ne sopravvisse comunque una quantità sufficiente per dar vita al “mondo d’acqua” che è diventato quello che ora conosciamo. “Si tratta di una scoperta straordinaria”, conlcude Hallis, “una di quelle che non si poteva nemmeno immaginare qualche anno fa perchè non avevamo una tecnologia adeguata. Non vediamo l’ora di proseguire in questo affascinante campo della ricerca”.
di Corrado Ruscica (INAF)

Giganti nuvole di ghiaccio sopra Titano

Non è la prima volta che la sonda Cassini studio le stagioni di Titano, la luna più grande del sistema di Saturno e in particolare del suo Polo Sud particolarmente freddo. E recentemente ha raccolto qualche nuovo dettaglio catturando una nuova gigante nuvola di ghiaccio sorvolare la superficie di Titano a centinaia di chilometri, negli strati medio bassi della stratosfera, appena sopra la troposfera. Già qualche anno fa, nel 2012, Cassini aveva immortalato una nuvola dalle dimensioni impressionanti a 300 chilometri d’altezza sul polo sud di Titano. Dopo altri studi approfonditi, si è scoperto di recente che al di sotto si nascondono altre sue “simili”, altrettanto giganti e altrettanto ghiacciate. Una nuvola molto fredda in particolare si trova a 200 chilometri d’altezza ed è stata rilevata dal Composite Infrared Spectrometer (CIRS), che mappa l’atmosfera degli oggetti celesti nell’infrarosso termico. Gli astronomi hanno visto che la nuvola ha una bassa densità, simile alla nebbia che troviamo sulla Terra. «Quando abbiamo analizzato i dati all’infrarosso, questa nuvola di ghiaccio è saltata in rilievo come mai abbiamo visto prima», ha affermato Carrie Anderson, del Goddard Space Flight Center della NASA. Le nuvole su Titano non seguono lo stesso processo di formazione delle nuvole sulla Terra, che ovviamente portano la pioggia. In questo caso il procedimento lo conosciamo tutti: l’acqua evapora dalla superficie terrestre e si scontra con le fredde temperature man mano che sale verso la troposfera. Ed è proprio qui che si formano le nuvole, essenzialmente accumuli di vapore acqueo condensato dal freddo. Su Titano, invece, le nuvole non sono fatte di acqua, bensì di metano: si formano a un’altitudine più elevata rispetto alla Terra e con un procedimento leggermente differente. La circolazione atmosferica trasporta i gas (una miscela di idrocarburi simili allo smog e prodotti chimici contenenti azoto-chiamati nitrili) dal polo nell’emisfero caldo al polo nell’emisfero freddo, dove l’aria calda scende rapidamente in un processo noto come subsidenza. Nel corso della discesa, i gas incontrano temperature sempre più fredde, così da condensarsi in maniere differenti: da qui le diverse stratificazioni delle nuvole a diverse altitudini. Cassini è arrivato nell’orbita di Saturno nel 2004, quando sul polo nord di Titano imperversava l’inverno. All’arrivo della primavera le nubi ghiacciate hanno cominciato a scomparire, ma adesso si stanno formando al polo sud, per questo Cassini riesce ad osservarle. L’accumulo di queste nubi meridionali indica che la direzione della circolazione dei gas sta cambiando. «E molto emozionante avere l’opportunità di assistere ai primi stadi dell’inverno su Titano», ha spiegato il ricercatore Robert Samuelson. «Tutto ciò che stiamo trovando al polo sud ci dice che l’inizio dell’inverno meridionale è già molto più freddo rispetto alle ultime fasi dell’inverno boreale su Titano». Dalla nuvola di ghiaccio osservata tre anni fa gli scienziati hanno determinato che le temperature al polo sud scenderanno fino ad almeno -150° C. La nuova nuvola è stata trovata nella bassa stratosfera, dove le temperature sono ancora più rigide. E’ stato anche visto che le particelle di ghiaccio sono costituite da idrogeno, carbonio e azoto. Il team di Anderson ha trovato la medesima firma – ma più debole – nei dati raccolti dal CIRS al polo nord. E’ per questo che gli astronomi credono che l’inverno al polo sud sarà più freddo: la firma chimica delle nuvole è decisamente più visibile. Scott Edgington, vice project scientist di Cassini per il JPL, ha detto: «Cassini continuerà a studiare Titano fino al 2017, quando terminerà la missione».
di Eleonora Ferroni (INAF)
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Destinazione Venere…10 anni dopo (missione conclusa a dicembre 2014)

Sono passati 10 anni da quel 9 novembre 2005 quando venne lanciata la sonda dell’ESA Venus Express, missione con una forte partecipazione INAF e il supporto finanziario dell’ASI. La sonda, arrivata su Venere l’11 aprile 2006, è stata per otto anni il nostro “inviato speciale” all’interno del Sistema solare fino a metà del dicembre 2014, quando la missione è stata dichiarata conclusa (pensate che sarebbe dovuta durare solo 500 giorni!). Venus Express è stata una missione di fondamentale importanza perché per prima ha esplorato “in lungo e in largo” il secondo pianeta del Sistema solare. È la seconda missione interplanetaria dell’ESA dopo Mars Express. Il veicolo spaziale ha raccolto negli anni una grande quantità di dati sul pianeta, sull’atmosfera e sulla sua superficie. L’Italia e l’INAF, come detto, sono presenti con gli strumenti VIRTIS (una camera iperspettrale nel visibile e nell’infrarosso ideata dallo IAPS di Roma) e PFS (uno spettrometro), con una importante partecipazione su ASPERA-4 (dedicato allo studio del plasma). Di particolare interesse per gli scienziati proprio l’atmosfera di Venere, la più densa di tutto il Sistema solare e composta per la maggior parte da anidride carbonica. Venere è anche avvolto da uno spesso strato di nuvole composte da acido solforico. Questa combinazione di gas con lo strato di nubi perenne ha portato ad un riscaldamento serra enorme, portando la temperatura superficiale di Venere poco oltre i 450ºC. Ma soprattutto la densità di nuvole e atmosfera ha da sempre nascosto ai nostri occhi il pianeta, impenetrabile dai telescopi a terra. Particolare fenomeno è quello dei venti che soffiano più in alto delle nuvole soffiano a 400 chilometri orari, quindi 60 volte più veloce della rotazione planetaria, con fenomeni quali i famosi vortici polari. Nel corso degli anni la sonda Venus Express ha dimostrato che i vortici polari di Venere sono tra i più variabili del Sistema solare. Questa serie di immagini riprende proprio i venti che soffiano al polo sud del pianeta e sono state scattate da VIRTIS da febbraio 2007 (in alto a sinistra) ad aprile 2008 (in basso a destra). La forma dell’ “occhio” del vortice, che spesso va dai 2000 ai 3000 chilometri, cambia repentinamente per cause ancora non totalmente chiare. Proprio l’anno scorso la sonda è stata spinta fino agli strati più bassi dell’atmosfera, un’operazione molto rischiosa, ma sempre effettuata in sicurezza, con un rischio aggiuntivo dovuto alla ridotta quantità di carburante rimasto disposizione: nel luglio scorso, alla fine, Venus Express nella sua ultima missione estrema ha raggiunto l’altitudine di soli 129,2. Difficile – poi in effetti impossibile – è stata la fase di risalita, perché la sonda non è riuscita a riprendere l’altezza corretta a causa dell’esaurimento del combustibile dei suoi razzi di manovra. Da quel momento l’inizio della fine di una missione straordinaria. Su Media INAF il commento di Giuseppe Piccioni, dell’INAF-IAPS di Roma, principal investigator di VIRTIS. È un giorno da celebrare: «Abbiamo “spremuto” per lungo e per largo la sonda con tutti gli strumenti a bordo per avere veramente il massimo in termini di ritorno scientifico. I tantissimi ed importanti risultati scientifici ottenuti sulla comprensione del pianeta “gemello” sono ormai parte della storia scientifica e dell’esplorazione spaziale. Di sicuro il nostro lavoro non è ancora terminato». Piccioni ha aggiunto: «La missione Venus Express è ormai da tutti considerata a livello internazionale un solido riferimento per la scienza venusiana e da cui partire per le future auspicabili prossime esplorazioni. Non da meno, ha sicuramente contribuito a rinnovare un interesse internazionale per il pianeta “dimenticato” ed un appetibile obiettivo di missione spaziale per vari paesi emergenti».
Redazione Media Inaf

 

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