Luci di Natale per la Piccola Nube di Magellano

Hubble può arrivare dove molti falliscono. La potenza del telescopio spaziale di NASA/ESA/ASI riesce a cogliere la magnificenza di oggetti difficili da osservare come questo che potete ammirare nella foto a sinistra. Si tratta della nebulosa NGC 248, un batuffolo di gas e polvere che colora la Piccola Nube di Magellano (la più piccola delle galassie satellite della Via Lattea) a 200 mila anni luce da noi. La nebulosa è osservabile in direzione della Costellazione del Tucano. HST ha catturato due nebulose a emissione “vestite a festa”, scoperte nel 1834 da John Herschel. Insieme formano NGC 248, lunga 60 anni luce e larga 20 anni luce. L’idrogeno ha questo colore rosa intenso a causa delle radiazioni provenienti dalle brillanti stelle centrale che fanno risplendere il gas. La nebulosa è stata studiata nel 2015 nell’ambito del programma osservativo Small Magellanic cloud Investigation of Dust and Gas Evolution (SMIDGE): i ricercatori cercano di capire perché la polvere della Piccola Nube di Magellano sia così diversa da quella della Via Lattea, nonostante l’estrema vicinanza delle due galassie.
di Eleonora Ferroni (INAF)

Van Gogh e le Nubi di Magellano

No, non è il dettaglio di un Van Gogh. No, non è nemmeno una copia mirabilmente contraffatta di un quadro impressionista. No, non è una rielaborazione a Photoshop. Il nuovo affascinante scatto del satellite europeo Planck è reale.

Le Nubi di Magellano nell'obiettivo del satellite ESA Planck (crediti: ESA e Planck Collaboration), a confronto con uno dei più celebri autoritratti di Van Gogh.

Protagoniste le due Nubi di Magellano: la Grande Nube che si trova a circa 160mila anni luce dal nostro pianeta (la grande macchia scura al centro della fotografia) e la Piccola Nube, poco più distante a 200mila anni luce da noi, (l’oggetto dalle forme vagamente triangolari e che si trova in basso a sinistra). Classificate come galassie nane hanno rispettivamente una massa pari a dieci e sette miliardi di volte quella del nostro Sole. Tanto per farsi un’idea: la Via Lattea e la vicina Andromeda vantano masse di centinaia di miliardi di masse solari ciascuna. Le Nubi di Magellano non sono visibili dalle nostre latitudini e sono state introdotte nell’astronomia europea solo al termine del XV secolo, ma sono da sempre note alle civiltà dell’emisfero Sud, così come agli astronomi mediorientali. Le pennellate di giallo e azzurro, in tipico stile impressionista, sono invece il risultato della somma delle emissioni circostanti, compresa la radiazione cosmica di fondo, che Planck ha rilevato nelle sue frequenze sensibili. Galassie vicine e lontane, materiale interstellare, c’è di tutto. Per accedere ai segnali più antichi contenuti nell’immagine, gli astronomi devono rimuovere buona parte delle informazioni raccolte nel file “grezzo” che si mostra ai nostri occhi in questo affascinante risultato. Balza agli occhi un filamento che si estende nella costellazione del Camaleonte. Un grumo di polvere molto più vicino a noi rispetto alle Nubi di Magellano, ad appena 300 anni luce da qui. Confrontando la struttura del campo magnetico e la distribuzione di polveri interstellari nella Via Lattea, gli scienziati possono ricavare i dati circa la distribuzione relativa delle nubi interstellari. Nel caso della nube filamentosa ritratta in questa immagine, possiamo notare che la struttura è perfettamente allineata con la direzione del campo magnetico della Galassia, cosa che non avviene di frequente: le nubi tendono a disporsi perpendicolarmente rispetto al campo magnetico interstellare. L’emissione della polvere viene calcolata combinando le osservazioni Planck alle frequenze di 353, 545 e 857 GigaHertz. La direzione del campo magnetico viene ricavata dai dati di polarizzazione a 353 Gigahertz. FOTO: le Nubi di Magellano nell’obiettivo del satellite ESA Planck (crediti: ESA e Planck Collaboration), a confronto con uno dei più celebri autoritratti di Van Gogh.
di Davide Coero Borga (INAF)

Hubble studia M 31 e la nostra Galassia

In una survey di immagini del NASA Hubble Space Telescope che comprende 2753 giovani ammassi stellari blu nella vicina galassia di Andromeda (M31), gli astronomi hanno scoperto che la Via Lattea condivide con la sua vicina di casa una percentuale di nuove stelle simile, anche in rapporto alla massa. Raggruppando per massa le stelle che si trovano all’interno di un cluster, i ricercatori sono in grado di interpretare meglio i processi di formazione ed evoluzione delle stelle dell’Universo. Dal collage di 414 scatti del telescopio spaziale Hubble in direzione di M31 (frutto dell’ennesimo ottimo lavoro di  citizen science) gli astronomi hanno potuto scoprire come, per qualche strana ragione, apparentemente la natura “sforni” supergiganti blu e nane rosse in maniera uniforme per tutta la galassia di Andromeda, anche se la loro età oscilla fra i 4 e i 24 milioni di anni. «Abbiamo ricalcolato, per ognuna di esse, la initial mass function», ovvero la distribuzione relativa iniziale fra stelle di grande e piccola massa, spiega Daniel Weisz della University of Washington e primo autore di una ricerca appena pubblicata su The Astrophysical Journal. A sorpresa i dati che riguardano Andromeda sembrano combaciare con quelli rilevati nella nostra galassia, la Via Lattea. Curiosamente, le stelle più luminose e più massicce in questi cluster sono del 25% meno abbondanti di quanto previsto da precedenti ricerche. Un risultato che suggerisce come le stime sulla massa utilizzate nei precedenti lavori fossero evidentemente sbagliate. Le quasi 8000 immagini, per un totale di 117 milioni di stelle, sono state ottenute guardando Andromeda nel vicino ultravioletto, nel visibile e nelle lunghezze d’onda del vicino infrarosso. Il progetto Andromeda è uno delle tante collaborazioni di citizen science organizzate da Zooniverse (vedi mediaINAF). In meno di un mese, i volontari hanno catalogato 1,82 milioni di immagini, un lavoro che altrimenti avrebbe portato via qualcosa come due anni di lavoro per un team di ricerca che avesse voluto occuparsene. Mica male.
di Davide Coero Borga (INAF)

L’alone gigante di Andromeda

Un team di scienziati, utilizzando dati del telescopio spaziale Hubble della NASA, ha scoperto che l’immenso alone di gas che avvolge la galassia di Andromeda è di circa sei volte più esteso e 1.000 volte più massiccio di quanto si era stimato in precedenza. L’alone scuro e quasi invisibile che circonda Andromeda si estende per circa un milione di anni luce dalla sua galassia ospite, a metà strada rispetto alla nostra Via Lattea. Questa scoperta ci fornisce informazioni preziose per saperne di più circa l’evoluzione e la struttura delle maestose spirali giganti, uno dei tipi di galassie più comuni nell’universo.
«Gli aloni sono le atmosfere gassose delle galassie. Stando ai modelli di formazione galattica, le proprietà di questi aloni hanno ricadute sulla velocità con cui si formano le stelle nelle galassie», ha spiegato Nicolas Lehner, responsabile dello studio e ricercatore presso l’Università di Notre Dame in Indiana. Si stima che l’immenso alone contenga luna massa pari a metà delle stelle presenti nella galassia di Andromeda nella forma di un gas caldo. Se si potesse vedere ad occhio nudo, l’alone occuperebbe una porzione di cielo grande 100 volte il diametro della Luna piena, che equivale alla dimensione di due palloni da basket tenuti alla distanza di un braccio teso.
La galassia di Andromeda si trova a 2.5 milioni di anni luce di distanza e si presenta come una debole nuvoletta affusolata, grande circa 6 volte il diametro della Luna piena. È considerata una galassia quasi-gemella della Via Lattea.
Poiché l’alone di gas di Andromeda non emette luce, il team ha studiato gli oggetti luminosi che si trovavano prospetticamente sullo sfondo e ha osservato come si è modificata la loro luce passando attraverso il gas. Un po’ come guardare una luce incandescente sul fondo di una piscina di notte. La fonte ideale di luce per uno studio come questo sono i quasar, nuclei di galassie attive molto luminosi alimentati da buchi neri. Il team ha utilizzato 18 quasar che si trovano dal nostro punto di vista dietro ad Andromeda, e grazie a queste osservazioni ha potuto sondare come sia distribuito il materiale gassoso al di là del disco visibile della galassia. I loro risultati verranno pubblicati il 10 maggio prossimo in un articolo sulla rivista The Astrophysical Journal.
Una ricerca precedente, chiamata Hubble Cosmic Origins Spectrograph (COS) Halos program, aveva studiato 44 galassie lontane trovando aloni come quello di Andromeda, ma mai prima d’ora si era osservato un alone così massiccio in una galassia vicina. Poiché le galassie studiate in precedenza erano molto più lontane, apparivano molto più piccole in cielo. Di conseguenza, dietro ciascuna galassia era possibile osservare un singolo quasar, fornendo un unico punto di ancoraggio per mappare le loro dimensioni e la struttura dell’alone. Con la sua vicinanza alla Terra e la sua conseguente ampiezza in cielo, Andromeda offre una possibilità di campionamento molto più estesa.
«Mentre la luce dei quasar viaggia verso il telescopio Hubble, il gas dell’alone ne assorbe un po’ e rendere il quasar un po’ meno luminoso in un breve intervallo di lunghezze d’onda», spiega J. Christopher Howk, che ha collaborato allo studio e che lavora presso l’Università di Notre Dame . «Misurando il calo di luminosità in quella fascia possiamo stimare quanto alone di gas dalla galassia c’è tra noi e il quasar».
Gli scienziati hanno sfruttato la capacità unica di Hubble di studiare la luce ultravioletta proveniente dai quasar. La luce nella banda ultravioletta viene assorbita dall’atmosfera terrestre, il che rende difficile osservare con un telescopio da terra. Per condurre questa ricerca il team ha utilizzato circa 5 anni di osservazioni raccolte nell’archivio dati di Hubble. Molte campagne osservative precedenti effettuate con Hubble hanno usato i quasar per studiare aloni di gas molto più lontani di Andromeda ma sempre nella sua direzione, perciò esisteva già un ricco set di dati.
Ma qual è l’origine di questo alone gigante? Simulazioni su larga scala suggeriscono che l’alone si sia formato contemporaneamente al resto di Andromeda. Il team ha anche stabilito che l’alone si è arricchito di elementi molto più pesanti dell’idrogeno e dell’elio, e l’unico modo per ottenere la presenza di questi elementi è ipotizzare l’esplosione di supernovae. Le supernovae scoppiano nel disco della galassia e soffiano con violenza gli elementi pesanti nello spazio lontano. Nel corso della vita di Andromeda, quasi la metà di tutti gli elementi pesanti sono stati espulsi dalle sue stelle ben oltre i 200.000 anni luce del suo diametro stellare.
Che cosa significa questo per la nostra galassia? Dal momento che viviamo all’interno della Via Lattea, gli scienziati non sono in grado di determinare se il nostro alone sia altrettanto massiccio ed esteso. Se la Via Lattea fosse circondata da un alone altrettanto grande, gli aloni delle due galassie potrebbero quasi toccarsi e iniziare a fondersi uno nell’altro molto prima che si incontrino le galassie. Osservazioni effettuate con il telescopio Hubble indicano infatti che la galassia di Andromeda e la Via Lattea si fonderanno formando una galassia ellittica gigante tra circa 4 miliardi di anni.
di Elisa Nichelli (INAF)

Il caso degli ammassi delle Nubi di Magellano

Alcuni ammassi delle Nubi di Magellano presentano una distribuzione piuttosto ampia delle loro stelle nel diagramma colore-luminosità. Questo effetto è stato scoperto quasi per caso nel 2003 da Giampaolo Bertelli e al., delINAF- Osservatorio Astronomico di Padova, utilizzando dati dal Very Large Telescope dell’ESO, ed è stato poi confermato dai dati molto più precisi dell’Hubble Space Telescope. Fino a pochi mesi fa, si riteneva che la spiegazione più naturale di questo effetto fosse la presenza di una grande dispersione delle età delle stelle in questi ammassi. Invece di formare tutte le loro stelle in un unico evento principale, alcuni ammassi più massicci proseguirebbero a formare stelle al loro centro per periodi di diverse centinaia di milioni di anni.
Tale teoria è sembrata crollare negli ultimi mesi, quando due articoli – uno di Li et al. su Nature (vedi http://www.media.inaf.it/2014/12/18/stelle-della-stessa-eta-in-compagnia/), l’altro di Bastian & Niederhofer su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society – hanno “dimostrato” che la dispersione delle stelle era limitata alla fase evolutiva della fusione centrale dell’idrogeno, e si annullerebbe per le fasi evolutive successive, quelle per capirci più instabili. Quindi era nato il sospetto che a causare la apparente dispersione di età fosse la più veloce rotazione delle stelle nelle loro fasi evolutive iniziali, quando le stelle sono più dense e compatte. La loro velocità di rotazione diminuisce quando poi si espandono, esattamente per lo stesso principio fisico per cui un pattinatore rallenta la velocità con cui compie le sue piroette semplicemente aprendo le braccia. Questa spiegazione sembrava aver inflitto un colpo decisivo alla teoria della dispersione di età, ed è stata accolta con un sospiro di sollievo anche dagli esperti di modelli di formazione stellare, che infatti avevano parecchie difficoltà a spiegare questi fenomeni di formazione stellare così prolungata all’interno degli ammassi.
Forse però non è detta l’ultima parola sull’argomento, anzi, le prospettive sembrano ribaltarsi completamente un’altra volta. Uno studio pubblicato su Monthly Notices da Paul Goudfrooij dello Space Telescope Science Institute di Baltimora e a cui hanno partecipato Leo Girardi dell’INAF, Paola Marigo e Phil Rosenfield del Dipartimento di Fisica e Astronomia dell’Universita’ di Padova, Alessandro Bressan della SISSA di Trieste, nonché del bolognese Matteo Correnti ora in forza a Baltimora, dimostra che la dispersione nei diagrammi colore-luminosità di questi ammassi c’è sempre stata, in tutte le loro fasi evolutive, e in quantità tale da essere completamente consistente con l’ipotesi della dispersione di età.
In più, il nuovo studio di Goudfrooij analizza diversi ammassi in modo omogeneo, trovando risultati sempre consistenti con l’ipotesi della dispersione di età, compresi negli ammassi in cui questa dispersione sembra modesta.
«A questo punto, la coincidenza diventa troppo forte per lasciare spazio all’ipotesi della rotazione, e tutti i problemi precedenti ritornano con forza» commenta Girardi. «Sarà interessante scoprire, negli anni a venire, se tali ammassi nelle Nubi di Magellano stiano formando stelle allo stesso modo dei loro ‘bisnonni’, i vecchi massicci ammassi globulari della Via Lattea, nei quali la presenza di popolazioni multiple è già assodata».
Redazione Media Inaf

Guardando Andromeda: uno studio su diecimila stelle

Osservare Andromeda per scoprire noi stessi. Quegli aspetti di noi – della nostra galassia – che altrimenti ci sarebbero preclusi. È ciò che ha fatto Claire Dorman, graduate student a UC Santa Cruz, per cercare di chiarire un’incongruenza che sorprende gli astronomi: la Via Lattea è troppo ordinata. Talmente tranquilla e prevedibile da mettere in crisi – nientemeno – lo stesso Lambda-CDM, il modello standard della cosmologia. E grazie anche allo spettacolare ritratto in HD firmato Hubble di cui abbiamo parlato due giorni fa, una risposta convincente è arrivata: il modello va benissimo, è la Via Lattea che costituisce un’eccezione. Andromeda, per dire, si comporta molto “meglio”: caotica e disordinata proprio come previsto. Ma come si stabilisce l’irrequietezza o la tranquillità d’una galassia? E perché è stato necessario osservare Andromeda? Ecco come la stessa Dorman lo ha spiegato a Media INAF: «Poiché ci siamo proprio dentro, guardare verso la Via Lattea è davvero molto difficile. Un po’ come cercare di osservare la propria casa standosene seduti in un armadio: l’armadio lo conosceremo benissimo, ma non il resto della casa. Dunque abbiamo deciso di guardare Andromeda, la nostra vicina, proprio perché è molto simile alla nostra galassia». Tre sono le caratteristiche che rendono Andromeda un buon “modello di Via Lattea”: è vicina, è a spirale ed è relativamente grande. Proprio come la nostra galassia. «Sono tante le galassie come la Via Lattea e Andromeda nell’Universo, ma ce ne sono anche di molto più piccole», continua Dorman. «Stando ai modelli attuali, le galassie più grandi si sono formate cannibalizzando galassie più piccole che vi cadute dentro. Ora, quando una piccola galassia precipita in una più grande, quest’ultima, perturbata dalla collisione, comincia a scaldarsi e a gonfiarsi. Almeno è ciò che dovrebbe accadere. Il problema è che, guardando alla nostra galassia, gli astronomi non hanno riscontrato alcuna prova del fenomeno: la Via Lattea non dà alcun segno di squilibrio, tutte le sue stelle se ne stanno ben disciplinate entro uno strato molto sottile e ordinato. E Andromeda, mi sono chiesta? Per il mio lavoro di tesi, ho deciso d’andare a misurare quanto sia squilibrata». Per quantificare il livello di “disturbo” della nostra vicina, Dorman e il suo relatore Puragra Guhathakurta hanno calcolato la velocità radiale di oltre 10 mila delle sue stelle – avvalendosi, per più della metà del campione, proprio di PHAT, il Panchromatic Hubble Andromeda Treasury. Risultato? Le stelle più giovani ruotano in modo abbastanza ordinato, tutte più o meno alla stessa velocità, attorno al centro di Andromeda, sebbene comunque sempre più inquiete di quelle della Via Lattea. Ma le stelle vecchie sono decisamente più anarchiche. «Se potessimo guardare il disco di profilo, noteremmo che è assai più gonfio, e vedremmo le stelle muoversi in tutte le direzioni. Andromeda è dunque diversa dalla Via Lattea, ma assai più in linea con le nostre previsioni. E il suo aspetto ci racconta che, nel passato recente, è stata protagonista di collisioni con galassie più piccole». Avannotti spaziali che Andromeda, da bravo pesce grosso, non ha ovviamente esitato a trangugiare in un sol boccone. Proprio come hanno fatto almeno una volta negli ultimi 10 mila anni, stimano i cosmologi, 7 grandi galassie su 10. E come non è invece capitato alla nostra impeccabile Via Lattea, troppo immacolata per essere reduce da cotanto atto di cannibalismo.
dall’inviato INAF Marco Malaspina

La galassia Andromeda vista in HD

Mettetevi comodi e godetevi questo spettacolo: la galassia a spirale Andromeda vista in HD. Quella catturata dal telescopio spaziale di NASA/ESA Hubble è l’immagine più grande e nitida mai scattata della nostra vicina di casa, conosciuta tra gli esperti del settore come Messier 31. La foto che vedete qui sopra è anche la più estesa (per numero di pixel) mai scattata da Hubble e mostra oltre 100 milioni di stelle e migliaia di ammassi stellari incorporati in una sezione del disco della galassia che si estende per più di 40 000 anni luce. Questa galassia è la più estesa del Gruppo Locale, di cui fa parte anche la Via Lattea, e dista dalla Terra “solo” 2,5 milioni di anni luce. Il panorama mozzafiato è stato realizzato grazie al programma Panchromatic Hubble Andromeda Treasury (PHAT) analizzando la galassia nel vicino ultravioletto, in luce visibile e nel vicino infrarosso, usando anche l’Advanced Camera for Surveys montata a bordo di Hubble e dei filtri blu e rossi. Ciò che potete vedere nella foto in alto è un terzo della galassia Andromeda nei suoi colori naturali e si tratta di un’immagine di 1,5 miliardi di pixel, il che vuol dire che sarebbero necessari 600 televisori HD per visualizzarla in maniera corretta e nella sua piena nitidezza. L’immagine originale, invece, è di 3,9 miliardi di pixel per una lunghezza di 60 000 anni luce. Guardando la foto gli esperti hanno ipotizzato che la galassia possa essere stata coinvolta in una collisione con un’altra galassia 2 miliardi di anni fa. Benjamin Williams, della University of Washington a Seattle, ha detto che l’immagine si focalizza su un’antica area di formazione stellare precedentemente avvistata solo in una zona della Andromerda. «Nessuno avrebbe immaginato che fosse uguale in tutta la galassia», ha detto, avvalorando l’ipotesi di un drammatico scontro nella storia di Andromeda. Immagini simili aiuteranno gli astronomi a interpretare la luce proveniente da galassie simili alla nostra e alle nostre vicine, ma che si trovano molto più lontano. Andromeda è molto vicina e quindi è un obiettivo molto più grande rispetto agli altri fotografati di solito da Hubble a miliardi di anni luce di distanza. Per catturare la gran parte della sezione della galassia sono stati necessari 411 scatti separati che sono stati poi assemblati in un’immagine a mosaico. Quello che possiamo vedere è parte del nucleo della galassia (colore bianco-giallo a sinistra), dove le stelle sono più agglomerate, e poi gas stellare e vuoti che percorrono tutto il disco esterno andando verso destra. Qui i grandi gruppi di stelle dal colore bluastro indicano i cluster stellari e le regioni di formazione stellare nei bracci della spirale, mentre le “striature” più scure non solo altro che complesse strutture di polvere stellare. Disseminate qui e lì ci sono stelle rosse più fredde che stanno ad indicare l’evoluzione della galassia nel corso di milioni di anni, proprio come come gli anelli che attraversano il tronco di un albero.
Per saperne di più:
Clicca QUI per visionare meglio l’immagine
di Eleonora Ferroni (INAF)

La Via Lattea ha una vicina in più: si chiama KKS3

La famiglia delle galassie vicine alla Via Lattea è ora un po’ più grande: è stata infatti scoperta aquasi sette milioni di anni luce da noi una nuova galassia nana, denominata Kks3. Un pugno di stelle a confronto di quella in Andromeda o della nostra: Kks3 possiede infatti una massa complessiva pari a circa un decimillesimo della Via Lattea. A individuarla, grazie alle riprese effettuale lo scorso agosto con la Advanced Camera for Surveys (ACS) del telescopio spaziale Hubble, è stato  Igor Karachentsev dello Special Astrophysical Observatory a Karachai-Cherkessia, Russia, e il suo team, che riportano la scoperta in un articolo in pubblicazione sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society . Kks3 è una galassia nana sferoidale, del tutto priva dei bracci a spirale presenti nella nostra Galassia e in cui sono praticamente assenti gas e polveri, gli ‘ingredienti’ fondamentali per formare nuove stelle. Senza più possibilità di accendere stelle, a popolare questi oggetti celesti rimangono oggi astri generalmente antichi e deboli. Kks3 e le galassie ad essa simili hanno un forte interesse sugli astronomi, poiché il loro processo evolutivo sarebbe alquanto differente rispetto a quello delle galassie di massa maggiore. Le loro stelle si sarebbero formate ed accese in un lasso di tempo relativamente breve, esaurendo altrettanto rapidamente le limitate riserve di gas disponibile per ‘fabbricarne’ di nuove.  Individuare però galassie così piccole e deboli è un compito arduo, anche per il telescopio spaziale Hubble: a queste caratteristiche si aggiunge infatti anche l’assenza di nubi di idrogeno gassoso al loro interno, il che le rende ancor più elusive. Non a caso, solo un’altra galassia simile a a Kks3 è stata individuata finora nel Gruppo Locale: è KKR 25, scoperta dallo stesso team di ricercatori nel 1999. «La scoperta di una nuova galassia nana sferoidale isolata è di particolare interesse per la nostra comprensione della formazione delle galassie e dei loro meccanismi di evoluzione» commentano Marcella Marconi e Vincenzo Ripepi, dell’INAF-Osservatorio Astronomico di Capodimonte. «Sistemi come Kks3 sono importanti per conoscere l’origine delle stesse galassie nane sferoidali, difficile da spiegare nel contesto dello scenario gerarchico della formazione delle strutture nell’Universo. Per tali motivi simili galassie, anche se così piccole, forniscono nuovi importanti punti di riferimento alle teorie cosmologiche».
di Marco Galliani (INAF)

Un ammasso di stelle di mezza età nella Grande Nube di Magellano:

Se vi piace guardare le stelle avrete sicuramente notato che questi oggetti non amano starsene in cielo da sole, a differenza di asteroidi e comete che, a volte, vagano in solitaria per l’Universo. Come è noto esistono i cosiddetti ammassi stellariagglomerati che contengono diversi milioni di stelle. Fino a poco tempo fa i ricercatori credevano di conoscere bene i più antichi di questi cluster, avendo studiato nel dettaglio stelle trovate in gruppi, che però apparivano formatesi però in tempi diversi. Un team di esperti provenienti da tutto il mondo (Kavli Institute for Astronomy and Astrophysics -Peking University – e Chinese Academy of Science’s National Astronomical Observatories a Beijing) ha portato nel mondo accademico un nuovo studio, pubblicato su Nature, suggerendo che la formazione stellare in questi cluster è più complessa e le stelle vengono fatte risalire, quasi tutte, a una data di origine comune. Questa scoperta è stata effettuata grazie ai dati raccolti dal telescopio spaziale Hubble della NASA che è stato rivolto verso NGC 1651, un cluster scoperto da John Herschel nel 1834, trovando che almeno in grandi ammassi di “mezza età” tutte le stelle non sembrano differire molto in fatto di anni.
Come nascono le stelle? Bella domanda, ma può essere “semplice” rispondere e lo abbiamo fatto in un articolo precedente. Nello spazio ci sono enormi nubi molecolari, composte principalmente da idrogeno (l’elemento più presente nell’Universo), la cui massa può raggiungere anche milioni di volte la massa del nostro Sole. E’ da qui che nascono le stelle, quando le nubi si condensano subendo (come ci accade sulla Terra) la forza gravitazionale: lentamente si fondono in sfere sempre più dense che, crescendo e riscaldandosi, innescano processi di fusione nucleare. Questi portano l’idrogeno a trasformarsi in elio nei loro nuclei. Si tratta di un fenomeno che rilascia un’enorme quantità di energia che porta le stelle a brillare. Ma tutto arriva a una fine e anche le stelle non sono eterne: dopo miliardi di anni la loro fornitura di idrogeno si esaurisce e le stelle iniziano a bruciare le riserve presenti nel guscio esterno provocando variazioni di temperatura notevoli. Altre osservazioni di massicci ammassi avevano rivelato che le differenze di temperatura sono rilevanti nelle stelle arrivate “agli sgoccioli” della loro vita, ipotizzando gap di età tra le stelle anche oltre i 300 milioni di anni.
I ricercatori hanno focalizzato la loro ricerca su questo cluster di due miliardi di anni nella Grande Nube di Magellano, appunto NGC 1651, esaminando sia la variazione di temperatura che si verifica quando le stelle raggiungono la fine della loro “fornitura” di idrogeno nel nucleo, e sia una seconda variazione di temperatura che si verifica quando le stelle bruciano idrogeno del “guscio” che le avvolge. Il gruppo di esperti ha trovato un’ampia variazione di temperatura (come da previsione) nel primo caso, mentre sorprendenti sono stati i dati relativi alla luminosità di stelle a simili temperature ma già nella fase di utilizzo dell’idrogeno dello strato esterno delle stelle. La mancanza di variazione di temperatura tra queste stelle ha portato i ricercatori a concludere che gli oggetti in questo cluster devono trovarsi tutti all’interno della stessa fascia di età (al massimo con variazioni di 80 milioni di anni).
«NGC 1651 è il miglior esempio trovato fino ad oggi di una popolazione stellare di un’unica età», ha dichiarato Richard de Grijs, del KIAA. «Da allora abbiamo individuato una manciata di altri gruppi di mezza età che sembrano mostrare caratteristiche simili». In realtà, fino a un decennio fa gli astronomi ritenevano già che stelle all’interno dei singoli cluster avessero un’età simile, ma l’idea era stata presto abbandonata quando è arrivata la prova evidente della presenza di stelle di età diverse all’interno di un ammasso. Ma lo studio apparso su Nature ribalta tutto. Gli autori suggeriscono che la differenza di luminosità osservata nelle stelle arrivate alla fine della loro vita può essere dovuta alla rotazione stellare. Questo perché due stelle della stessa età possono presentare diversi livelli di temperatura se osservate mentre ruotano a velocità significativamente diverse. La maggior parte dei modelli, però, non prende in considerazione la rotazione stellare, mentre studi futuri potranno offrire una maggiore comprensione dell’età degli ammassi stellari proprio con questa variabile
di Eleonora Ferroni (INAF)

Esploriamo la Galassia di Andromeda

Gabriele Vanin nel suo libro “Cento meraviglie celesti” Quando osservarle e con quali strumenti, inizia la sua rassegna con la splendida M 31, la Galassia di Andromeda (A.R. 00h43,5m; Dec. +41°21’). Questa splendida galassia si può osservare al binocolo o con un telescopio a grande campo. Il  diametro angolare di M 31, circa 2,5°, è tale da riempire quasi completamente il campo di vista. La sua magnitudine totale visuale apparente è 3,44.
La forma della galassia è quella di un disco con un rigonfiamento centrale; essa appare ovale a causa dell’inclinazione rispetto alla linea di vista, circa 13°. Viene classificata comunemente come Sb, anche se recenti indagini sembrano suggerire che il rigonfiamento centrale abbia un aspetto simile a quello delle spirali barrate.
Si tratta del membro più grande del Gruppo Locale: contiene 1000 miliardi di stelle e la sua massa è stimata in 1200 miliardi di volte quella del Sole; la sua magnitudine assoluta è di -21,25 (27 miliardi di volte quella del Sole). M 31 ha un diametro di 140 mila anni luce; nel 2005 riprese effettuate al Keck Telescope delle Hawaii hanno portato le dimensioni di M 31 a 220 mila anni luce. La distanza di M 31 è di circa 2,54 milioni di anni luce.
Il rigonfiamento centrale è largo circa 12 mila anni luce. In esso giace il vero nucleo galattico, che nel 1991 si è scoperto essere doppio. Qui si trovano centinaia di milioni di stelle, separate fra loro da poche decine di Unità Astronomiche (1 UA = distanza media tra la Terra e il Sole). Nella più debole delle due componenti nucleari le misure dell’incremento delle velocità stesse hanno permesso la scoperta di un grande oggetto collassato, un buco nero supermassiccio di massa compresa fra 110 e 230 milioni di volte quella del Sole.
Intorno ad M 31 si trovano 14 galassie satelliti. Dieci di queste sono fuori della portata di telescopi amatoriali; le altre quattro sono : M 32, NGC 205, NGC 147 e NGC 185. Intorno ad M 31 sono stati trovati anche 460 ammassi globulari del tutto simili a quelli che circondano la nostra Galassia. Ma nel 2005 sono stati trovati qui anche degli ammassi stellari di un tipo del tutto nuovo, intermedio fra gli aperti e i globulari. M 31 è anche stata la prima radiosorgente extragalattica scoperta, nel 1950.
Questa galassia ha cominciato a formarsi circa 10 miliardi di anni fa dalla fusione di molte piccole protogalassie. Ciò ha portato alla formazione intermedia di due galassie che infine si sono fuse circa otto miliardi di anni fa. Questo evento, piuttosto violento, condusse ad un tasso di formazione stellare molto alto durante il quale si costituì la maggior parte dell’alone galattico, ricco di metalli e il disco esteso.
Circa 3 miliardi di anni fa M 31 e M 33 ebbero un incontro ravvicinato e anche questo evento scatenò alti tassi di formazione stellare nel disco galattico. Negli ultimi due miliardi di anni la genesi stellare si è mantenuta a livelli molto più modesti, soltanto una massa solare per anno, un quarto della Via Lattea. Fra 3,75 miliardi di anni la nostra Galassia e M 31 si fonderanno per formare probabilmente una galassia ellittica.
Ad esplorare M 31 ancor più a fondo ci aiuta invece l’articolo di Alan Whitman “Esploriamo la grande Galassia di Andromeda” (traduzione di Massimiliano Razzano) apparso nell’ultimo numero di Orione (267 – agosto 2014 pagina 20).
Di magnitudine +13,7, G1 è senza dubbio l’ammasso globulare più brillante in M 31 e sicuramente il più luminoso in tutto il Gruppo Locale. Come per l’ammasso globulare Omega Centauri e altri nella Via Lattea, le stelle di G1 differiscono in età fra di esse e, per questo, molti astronomi sospettano che sia in effetti il nucleo di una galassia nana che è stata catturata da M 31. G1 si trova molto al di fuori del disco visibile di M 31. Non molto lontano da G1 si trova G2 che è più giovane e più debole del compagno di due magnitudini.
Nel disco visibile di M 31 iniziando dall’estremità sud ovest troviamo l’enorme associazione stellare NGC 206, dove si trovano splendide supergiganti blu. Vicino a NGC 206 si trova un asterismo simile a Cassiopea al cui interno è visibile G76 un altro ammasso globulare.
Sul lato della galassia satellite M 32 si trova l’ammasso aperto C107. Da qui, spostandoci a nord est lungo il lato della galassia di Andromeda dove si trova M 32, troviamo l’ammasso aperto e regione HII C179 e due ammassi globulari G96 e G87. Gli ammassi aperti  C202  e C203 si trovano a soli 16” di distanza. L’adiacente G156 è un ammasso globulare che si trova vicino ad una stella di magnitudine +9,3.
Spostandoci 35’a nord est si raggiunge la grande regione HII e ammasso aperto C410 stretto fra due ammassi globulari: G272 e G280.  Con 4,9” di diametro G279 è secondo solo a G1, almeno per dimensioni mentre la magnitudine è +15,4.
L’estremità nord est della galassia mostra un trio di ammassi aperti: C311/C312/C313. Un gruppo di globulari si trova nei pressi del nucleo di M 31: G235 e G222 relativamente facili; G230 abbastanza difficile;  G229, G257, G205 e G217 ancora più difficili.
Ci sono meno oggetti degli di nota sul lato della Galassia di Andromeda dove si trova M 110. G73 è interessante perché potrebbe essere un satellite di M 110 invece che di M 31. G58 è abbastanza piccolo e debole, mentre G 59 è molto più brillante. G78 fa parte di un asterismo che assomiglia alla sigma maiuscola greca.
Una Stella per Amica
Tratto da: Gabriele Vanin “Cento meraviglie celesti” e Alan Whitman “Esploriamo la grande Galassia di Andromeda”

Voci precedenti più vecchie