Pioggerella di ferro dalle supernovae

C’era una volta un pianeta blu dove, all’improvviso, cominciò a calare per tanti anni un’impercettibile pioggerellina di ferro, che pian piano raggiunse le sue terre e i suoi mari, scendendo fino ai fondali più profondi e lì rimanere per milioni di anni. Non pensate che questo sia l’inizio di una favola per bambini: ne sono fermamente convinti i ricercatori che hanno firmato due lavori presentati nell’ultimo numero della rivistaNature. In entrambi il protagonista è il Ferro-60, o più formalmente 60Fe, un isotopo del più diffuso Ferro-56. Nel primo lavoro, gli scienziati guidati da Anton Wallner dell’Australian National University hanno individuato tracce di questo isotopo in diversi campioni dei sedimenti e delle rocce presi da fondali degli oceani Atlantico, Pacifico e Indiano, indicando che il periodo più probabile in cui si sarebbe depositato è compreso tra 3,2 e 1,7 milioni di anni fa. Il Ferro, così come altri elementi pesanti, viene prodotto durante gli eventi di supernova, ovvero esplosioni di stelle massicce giunte al termine del loro ciclo evolutivo. I resti della stella espulsi a grande velocità in gigantesche nubi di gas e polveri vanno così ad arricchire lo spazio circostante con elementi chimici non presenti nella  materia che costituiva l’universo primordiale. Naturale dunque pensare che più o meno in quel periodo, in vicinanza del nostro pianeta, possa essere esplosa una o più supernovae i cui resti, espandendosi sempre più, abbiano poi incrociato la Terra e depositato su di essa una piccola frazione dei suoi costituenti.
Il non facile compito di risalire ai possibili tempi, posizioni e intensità di queste esplosioni è stato portato avanti nel secondo lavoro pubblicato, sempre nell’ultimo numero di Nature, da Dieter Breitschwerdt dell’Istituto di Tecnologia di Berlino e dal suo team.
Ricostruendo con l’ausilio dei computer le traiettorie più probabili del materiale espulso durante le esplosioni di supernova, i ricercatori sono riusciti a stimare che le “fabbriche” del Ferro-60 trovato nei fondali oceanici sarebbero state due eventi di supernvova avvenuti 2,3 e 1,5 milioni di anni fa, a una distanza compresa tra 300 e 330 anni luce dalla Terra. Ma gli scienziati sono andati oltre, stimando che la massa delle stelle esplose fosse di 9,2 e 8,8 masse solari. Questi due episodi sarebbero solo due di circa 16 supernovae avvenute negli ultimi 13 milioni di anni, in una regione di cielo relativamente piccola. Breitschwerdt e il suo team ritengono che i progenitori di queste Supernovae appartenessero ad un ammasso di stelle che oggi viene identificato con l’associazione stellare Scorpius-Centaurus, un gruppo di astri giovani, massicci e luminosi vicini al Sole.
«Nello studio di Breitschwerdt e collaboratori trovo due interessanti spunti di riflessione, oltre ovviamente ai risultati scientifici che vengono presentati» commenta Massimo Della Valle, direttore dell’INAF-Osservatorio Astronomico di Capodimonte. «Questa sequenza di esplosioni stellari avvenute nei nostri dintorni e così ravvicinate tra loro – almeno per i tempi scala che caratterizzano l’evoluzione  delle stelle – è un convincente esempio di quel meccanismo che alcuni miliardi di anni fa potrebbe aver arricchito di elementi pesanti,  come per esempio Carbonio, Ossigeno e Azoto la nebulosa primordiale dalla quale si è originato il nostro Sole,  il Sistema solare e in ultima analisi la vita sulla Terra».
L’articolo indica che circa la metà del 60Fe presente nella crosta dei fondali oceanici della Terra proviene dal materiale espulso durante questi eventi. «Questo risultato – prosegue Della Valle-  ci ricorda che la Terra interagisce costantemente con lo spazio che la circonda:  qualche volta in modo “silente”: quasi non ci accorgiamo delle 100 tonnellate di materiale extraterrestre, in gran parte sotto forma di polveri e piccoli meteoriti, che ogni giorno “piovono” dal cielo. Molto più raramente questa interazione Terra-Cielo può avvenire in modo “catastrofico” attraverso impatti con piccoli asteroidi o comete, che nei casi più estremi possono creare profondi sconvolgimenti al nostro ecosistema.  Le esplosioni stellari appartengono certamente a questo secondo tipo di eventi, ma per fortuna, quelle avvenute negli ultimi 13 milioni di anni  sono avvenute a distanza di sicurezza, come oggi effettivamente dimostrato dai due team di astronomi».
Noi comunque possiamo continuare a stare tranquilli: non sono previste imminenti esplosioni di supernova nelle vicinanze della Terra. Betelgeuse e Antares, le stelle supergiganti più vicine alla Terra e accreditate di finire  la loro evoluzione come supernovae, si trovano entrambe ad oltre 600 anni luce da noi, ad una distanza più che doppia di quelle esplose 13 milioni di anni fa. E poi, chissà quando esploderanno…
di Marco Galliani (INAF)
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M48, l’ammasso stellare nell’Idra

Per osservarlo a occhio nudo in queste sere d’aprile ci vuole un cielo limpido e scuro, lontano da luci artificiali, oltre ovviamente a un’ottima vista. Ed anche così apparirà come una debole macchiolina luminosa. Per cominciare a percepire la vera natura di ammasso stellare di Messier 48, o M48 in breve, c’è però bisogno almeno di un buon binocolo: solo così si riusciranno a distinguere le stelle principali che lo compongono, che sono poco meno di un centinaio. M48, che si trova in direzione della costellazione dell’Idra, verso sud ovest, è un ammasso aperto distante da noi 1500 anni luce e con un diametro di circa 23 anni luce. È stato scoperto da Charles Messier nel 1771 anche se, per un suo errore nel riportare i dati della posizione, venne identificato come oggetto numero 48 del celebre catalogo solo nel 1934 grazie all’astronomo tedesco Oswald Thomas. Ma oltre M48 il cielo di aprile ci offrirà, meteo permettendo, altri interessanti fenomeni, come le congiunzioni della luna con Giove, Marte e Saturno. Per saperne di più, non vi resta che guardare il video su Media Inaf.
di Marco Galliani (INAF)

20 mila stelle per trovare ET

L’Istituto SETI si rimette in gioco con una nuova sfida “extra” interessante. I ricercatori sono infatti di nuovo a caccia di segnali radio provenienti, chissà, da civiltà aliene. L’obiettivo, come sempre, è solo uno: provare la presenza di intelligenze extraterrestri là fuori, da qualche parte nell’Universo. Gli esperti del SETI scandaglieranno ben 20 mila nane rosse (scelte da una lista di 70 mila stelle) alla ricerca di questi segnali.
«Le nane rosse hanno ricevuto una scarsa attenzione da parte degli scienziati del SETI in passato», ha osservato Jon Richards. «Questo perché ricercatori ragionevolmente ipotizzato che altre specie intelligenti si troverebbero su pianeti orbitanti attorno a stelle simili al Sole». Evidentemente, non avendo trovato finora segnali che confermano questa teoria, i ricercatori devono allargare il loro punti di vista.
Alcuni pianeti nella zona abitabile delle nane rosse, seppur in rotazione sincrona con la loro stella, potrebbero davvero essere abitabili… almeno in teoria. Se su questi pianeti ci fossero oceani e un’atmosfera, il calore verrebbe stato trasportato dal lato illuminato a quello buio e quindi una frazione significativa del pianeta sarebbe abitabile. Secondo i dati raccolti gli ultimi anni, quasi la metà delle nane rosse analizzate avrebbe pianeti nella loro zona abitabile. E se ancora non bastasse, ricordiamo che tre stelle su quattro sono nane rosse, come ha ricordato Seth Shostak. Il trucco sta nell’osservare un gruppo preciso di stelle, quelle più vicine a noi, così l’eventuale segnale potrebbe essere più forte.
Le nane rosse sembrano essere il posto giusto dove cercare vita intelligente. Gli esperti ricordano che queste stelle sono miliardi di anni più antiche delle stelle simili al Sole e dunque, osserva Shostak, «sistemi più antichi hanno avuto più tempo per formare specie intelligenti».
I ricercatori stanno sfruttando le capacità dell’Allen Telescope Array: 42 antenne gestite dal progetto SETI, nella California del Nord, in grado di osservare tre stelle contemporaneamente durante ogni sessione. La ricerca dovrebbe durare due anni. Gerry Harp ha spiegato: «Esamineremo i sistemi scelti su più bande di frequenza tra 1 e 10 GHz. Circa la metà di quelle bande si trovano a “frequenze magiche”, situate cioè in porzioni del quadrante radio in qualche modo legate a costanti matematiche fondamentali. È ragionevole supporre che gli extraterrestri, volendo attirare l’attenzione, provino a generare segnali a frequenze speciali».
Per saperne di più:

  • Vai al sito del progetto SETI

Per conoscere Seth Shostak, guarda l’intervista che rilasciò nel 2010 a INAF-TV