Stonehenge antico osservatorio astronomico

Stonehenge (pietra sospesa, da stone, pietra, e henge, che deriva da hang, sospendere: in riferimento agli architravi) è un sito neolitico che si trova vicino ad Amesbury nello Wiltshire, Inghilterra, circa 13 chilometri a nord-ovest di Salisbury. È il più celebre e imponente cromlech («circolo di pietra» in bretone): composto da un insieme circolare di colossali pietre erette, conosciute come megaliti, sormontate da consistenti architravi orizzontali di collegamento di cui alcune sono in quota ed è uno dei più antichi sistemi trilitici conosciuti (trilitico: sistema costituito da tri = tre + lithos = pietra, due montanti verticali ed un architrave orizzontale). Le pietre di Stonehenge devono il loro attuale allineamento ai lavori di ricostruzione nella prima metà del Novecento:

«Virtually every stone was re-erected, straightened or embedded in concrete between 1901 and 1964,[…]»

(IT) «Praticamente ogni pietra fu rieretta, raddrizzata o rinforzata con calcestruzzo tra il 1901 e il 1964, […]»

Ipotizzando che l’attuale allineamento riproduca fedelmente il precedente, alcuni sostengono che Stonehenge rappresenti un “antico osservatorio astronomico”, con un significato particolare ai punti di solstizio ed equinozio, anche se l’importanza del suo uso per tale scopo è dibattuta. Il sito fu aggiunto alla lista dei patrimoni dell’umanità dell’UNESCO nel 1986.

Oltre che meta del turismo di massa, Stonehenge è luogo di pellegrinaggio per molti seguaci del celtismo, della wicca e di altre religioni neopagane.La pietra dell’altare: un blocco di cinque metri di arenaria verde. Le pietre principali sono composte da una forma estremamente dura di arenaria silicea, che si trova naturalmente circa trenta chilometri più a nord, sulle Marlborough Downs. La struttura interna, conosciuta come “Bluestone Horseshoe” è costituita di pietre molto più piccole, che pesano in media quattro tonnellate. Queste pietre sono state estratte dalle Montagne Preseli, nel Galles sud-occidentale. Sono principalmente di dolerite ma comprendono esempi di riolite, arenaria e ceneri calcaree vulcaniche.

La pietra del tallone un tempo conosciuta come Tallone del Frate (in inglese “Friar’s Heel”). Un racconto popolare, che non può essere datato a prima del XVII secolo, spiega così le origini del nome di questa pietra: Il diavolo comprò le pietre da una donna in Irlanda, le avvolse e le portò sulla piana di Salisbury. Una delle pietre cadde nel fiume Avon, le altre vennero portate sulla piana. Il diavolo allora gridò, “Nessuno scoprirà mai come queste pietre sono arrivate fin qui”. Un frate rispose, “Questo è ciò che credi!”, allora il diavolo lanciò una delle pietre contro il frate e lo colpì su un tallone. La pietra si incastrò nel terreno, e rimase così fino ai nostri giorni.

L’Atlas Coelestis di John Flamsteed

L’Atlas Coelestis è una carta celeste pubblicata postuma nel 1729, sulla base delle osservazioni fatte dal primo Astronomo reale John Flamsteed.


L’Atlante – il più grande mai pubblicato – contiene ventisei mappe delle principali costellazioni visibili da Greenwich, con disegni realizzati in stile rococò di James Thornhill. Presenta inoltre due planisferi progettato da Abraham Sharp.
Prima carta stellare basata sull’osservazione compiuti tramite il telescopio, l’Atlas Coelestis è stato pubblicato dalla sua vedova solo dieci anni dopo la morte di Flamsteed; la donna nell’opera fu assistita da Joseph Crosthwait e Abraham Sharp. Nel 1725 venne preceduto dalla pubblicazione dell’opera intitolata “Stellarum inerrantium Catalogus Britannicus” (chiamato anche più semplicemente “British Catalogue”, con 2919 stelle).
Una delle motivazioni principali di Flamsteed nel produrre l’Atlante era quello di correggere la rappresentazione delle figure delle costellazioni, come fatto da Johann Bayer nel suo “Uranometria” (1603). Bayer rappresentava le figure viste da dietro (non dalla parte anteriore, come era stato fatto fin dai tempi di Tolomeo), e questo aveva invertito la posizione delle stelle e aveva creato una confusione non necessaria.
La pubblicazione ha avuto immediato successo, diventando il riferimento standard per gli astronomi professionisti per quasi un secolo. Anche così, gli sono state sollevate tre obiezioni in merito: il prezzo elevato, il grande formato che lo rendeva difficile da utilizzare e la bassa qualità artistica (molte critiche sono state apportate al disegno di James Thornhill, in particolare per quanto riguardava la rappresentazione dell’Acquario).
Questo ha portato il dottor John Bevis a cercare di migliorare l’Atlante. Nel 1745 l’uomo elaborò la “Uranographia Britannica”, con dimensioni più piccole, aggiornato con nelle osservazioni e nelle rappresentazioni artistiche. Tuttavia, questo atlante non è mai stato pubblicato ufficialmente e ad oggi ci sono solo 16 copie conosciute.
Alla fine i cambiamenti nelle posizioni delle stelle (osservazioni originali erano state fatte nel 1690), hanno portato ad un aggiornamento compiuto nel 1770 dall’ingegnere francese Nicolas Fortin, sotto la supervisione del astronomi Le Monnier e Messier dell’Accademia Reale delle Scienze a Parigi.
La nuova versione, denominata Atlas Fortin-Flamsteed, aveva un terzo delle dimensioni di quella originale, ma conserva la medesima struttura della tabella. A ciò è stata aggiunta anche qualche ritocco artistico alle illustrazioni, per lo più Andromeda, Vergine ed Acquario). I nomi delle costellazioni sono in francese (non in latino) e includono alcune nebulose scoperte dopo la morte di Flamsteed.
Nel 1795 è stata pubblicata una versione aggiornata, prodotto da Méchain e Lalande, con nuove costellazioni e molte nebulose in più.

Uranometria, il primo atlante dell’intera sfera celeste

Uranometria è il titolo abbreviato di un catalogo stellare prodotto da Giovanni Baiero. Fu pubblicato ad Augusta, Germania, nel 1603 da Cristoforo Magno con il titolo completo di Uranometria: omnium asterismorum continens schemata, nova methodo delineata, aereis laminis expressa. Che tradotto significa Uranometria, contenente le carte di tutte le costellazioni, disegnate con un nuovo metodo e incise su lastre di rame. La parola “Uranometria” deriva da Urania, Musa dei cieli e “uranòs” (oυρανός), cielo o paradiso in greco. Letteralmente il termine significa misurazione del cielo (in analogia a geometria che significa misurazione della terra). Uranometria è stato il primo atlante a coprire l’intera sfera celeste.
Uranometria contiene 51 mappe stellari. Le prime 48 rappresentano le 48 costellazioni tolemaiche. La 49° mappa introduce 12 nuove costellazioni nel cielo australe, sconosciuto a Tolomeo. Le ultime due mappe sono planisferi intitolati “Synopsis coeli superioris borea” e “Synopsis coeli inferioris austrina”, cioè “Sinossi del cielo dell’emisfero boreale” e “Sinossi del cielo dell’emisfero australe.”
Ogni lastra include una griglia per determinare in modo accurato la posizione di ogni stella con una precisione di qualche frazione di grado.


Uranometria introdusse la Nomenclatura di Bayer, che è usata ancora oggi, così come numerose costellazioni moderne.
Nelle mappe, un disegno del soggetto della costellazione sovrasta le stelle. Per ragioni non note, molte delle costellazioni rappresentate da una figura umana sono incise viste di schiena, mentre la tradizione le ha sempre immaginate con il volto rivolto alla Terra. Questa stranezza portò ad una certa confusione nei significati letterali del nome di alcune stelle, ad esempio l’origine del nome di alcune stelle fa preciso riferimento alla spalla destra del personaggio rappresentato nella costellazione.


Le pagine di Uranometria furono incise originariamente su lastre di rame da Alexander Mair (ca 1562-1617).
Le posizioni delle stelle usate da Bayer per l’Uranometria furono prese dal catalogo stellare di Tycho Brahe, che conteneva 1005 stelle. L’elenco di Brahe circolava sotto forma di manoscritto fin dal 1598 ed era disponibile in forma grafica sui globi celesti di Petrus Plancius, Hondius, e Willem Blaeu. Fu pubblicato in forma tabellare in Tabulae Rudolphinae di Keplero nel 1627.
L’uso del catalogo di Brahe permise un’accuratezza di gran lunga superiore rispetto all’elenco di Tolomeo che era piuttosto limitato. Le stelle elencate in Uranometria sono oltre 1.200, questo dato indica che il catalogo di Brahe non fu l’unica fonte. Bayer infatti prese le posizioni delle stelle meridionali dal catalogo del navigatore olandese Pieter Dirkszoon Keyser, che corresse le più vecchie osservazioni dell’esploratore fiorentino Amerigo Vespucci e Andrea Corsali, e le note di Pedro de Medina.
Uranometria contiene molte più stelle di qualsiasi atlante stellare precedente, sebbene il numero esatto è oggetto di discussione poiché non tutte le stelle disegnate hanno un nome.
L’incisione della pagina iniziale di Uranometria rappresenta un motivo architettonico con al centro il titolo per intero.
Su piedistalli ad entrambi i lati si ergono le figure di Atlante e Ercole. Le iscrizioni sui piedistalli recitano: “Atlanti uetustiss[imo] astronom[iae] magistro” (“Ad Atlante il primo maestro di astronomia”) e “Herculi uetustiss[imo] astronom[iae] discipulo” (“A Ercole il primo discepolo di astronomia”).
Lungo la parte superiore della pagina sono incise numerose altre figure: a sinistra è Apollo, a personificare il Sole; al centro la dea della Terra Cibele con una corona di stelle e due leoni al guinzaglio; a destra è Diana, a personificare la Luna, con un mantello di stelle.
Al di sotto del titolo si trova l’immagine di un capricorno e sotto di esso una veduta di Augsburg. Nelle foto il frontespizio di Uranometria e la costellazione di Orione.

Manifesto per la nuova archeo-astronomia

Al National Astronomy Meeting (NAM) 2014 in svolgimento a Portsmouth, nel sud dell’Inghilterra, si discute anche di un campo di ricerche in rapido sviluppo, l’archeo-astronomia, un particolare ambito multidisciplinare che mette insieme tecniche astronomiche con lo studio di antichi manufatti, inseriti nel contesto circostante. Dal ‘sentiero di cristallo’ che unisce i cerchi di pietre nella Brughiera di Bodmin, in Cornovaglia, ai megaliti allineati con le stelle nel Portogallo centrale, gli archeo-astronomi stanno trovando sempre più prove di come le popolazioni delNeolitico e dell’Età del Bronzo fossero acute osservatrici sia del Sole che della Luna e della stelle, e di come incorporassero riferimenti astronomici all’interno dei loro territori. “C’è molta più archeo-astronomia rispetto a Stonehenge”, spiega orgogliosamente Daniel Brown, della Nottingham Trent University, nel presentare gli aggiornamenti del suo lavoro sui megaliti di Gardom’s Edge, nella contea inglese del Derbyshire, vecchi di 4000 di anni e astronomicamente allineati. “L’archeo-astronomia moderna comprende molte altre aree di ricerca quali l’antropologia, l’etno-astronomia e anche la ricerca educativa. Rispetto ai suoi inizi speculativi, questa scienza trova ora fondamenta più solide basandosi su metodi statistici. Tuttavia, questo approccio scientifico puro viene continuamente messo alla prova da sfide che possono essere superate solo accettando influenze umanistiche e contestualizzando la ricerca nel territorio e nelle culture locali.” Per farla corrispondere meglio a questo nuovo carattere, alcuni ricercatori ritengono che sarebbe meglio rinominare l’archeo-astronomia in Skyscape Archaeology, che potremmo tradurre come ‘archeologia celeste’. “Avremmo molto da guadagnare se astronomia e archeologia andassero a braccetto verso una più piena e più equilibrata comprensione dei megaliti europei e delle società che li hanno eretti”, sostiene Fabio Silva, della University College London e co-editor della nuova rivista scientifica Journal for Skyscape Archaeology. “Gli archeologi dovranno imparare alcune nozioni di astronomia osservativa, ma gli archeo-astronomi dovranno, dal canto loro, impegnarsi di più con la documentazione archeologica e con la formulazione del quesito di ricerca. Non è più sufficiente raccogliere semplicemente i dati di orientamento per un gran numero di monumenti dislocati su vaste regioni e cercare un valido modello che li descriva. Inoltre, gli archeo-astronomi non possono basare le loro ipotesi sui concetti moderni di precisione e simmetria dell’asse, a meno che questo possa essere dimostrato in modo indipendente. Per capire cosa significassero gli allineamenti per le popolazioni preistoriche e perché decisero di inserirli nelle loro strutture, abbiamo bisogno di identificare i modelli e le interazioni tra le strutture, il paesaggio (landscape) e la volta celeste (skyscape)”. Gli studi di Silva su megaliti europei si sono concentrati sui siti di svernamento e sulle strutture megalitiche vecchie di 6000 anni nella valle del Mondego, nel Portogallo centrale. Il ricercatore ha scoperto che i corridoi d’ingresso di tutte le tombe in una determinata necropoli sono allineati con il sorgere stagionale sulle vicine montagne di Aldebaran, la stella più luminosa nella costellazione del Toro. Questo legame tra l’apparizione della stella in primavera e le montagne, sulle quali i costruttori di dolmen avrebbero poi trascorso le loro estati, trova delle risonanze nel folklore locale e nel nome stesso della catena montuosa, Serra da EstrelaPamela Armstrong, dell’Università gallese Trinity St David, ha integrato l’idea di skyscape nel suo lavoro sulle più belle tombe di pietra a camera in Gran Bretagna, nelle colline Cotswoldssettentrionali. Gli abitanti del Neolitico seppellivano i loro morti in questi tumuli di terra, ma è possibile che abbiano orientato le loro tombe verso punti significativi del sorgere lunare, solare e stellare sui loro orizzonti locali. Il lavoro della ricercatrice getta nuova luce su come questi coloni neolitici praticassero un’astronomia differente da quella dei cacciatori-raccoglitori mesolitici che li hanno preceduti in questo territorio. Brian Sheen e Gary Cutts dell’Osservatorio Roseland hanno lavorato insieme a Jacky Nowakowski, dello Historic Environment Service del Consiglio della Cornovaglia, per esplorare un importante astro-paesaggio dell’Età del Bronzo che si estende per diversi chilometri quadrati nella Brughiera di Bodmin, in Cornovaglia appunto. Nel cuore di questa zona si trovano gli Hurlers,tre cerchi distinti di pietre, di cui due collegati da una pavimentazione in granito risalente a 4.000 anni fa, soprannominata il ‘sentiero di cristallo’. Il team ha confermato che gli abitanti dell’Età del Bronzo hanno utilizzato un calendario controllato dai movimenti del Sole, contrassegnando i quattro punti cardinali assieme a solstizi ed equinozi. I punti cardinali sono ricavabili attraverso due pietre erette fuori dai circoli principali, i cosiddettiPipers Outliers, allineate lungo l’asse est-ovest. “Pensiamo che anche i tre cerchi che compongono gli Hurlers possono essere disposti sul terreno per assomigliare alla Cintura di Orione”, aggiunge Sheen. “Lungi dall’essere tre cerchi isolati nella brughiera, sono collegati in un unico paesaggio”.
di Stefano Parisini (INAF)

Di uomini, sassi e stelle: il fascino dell’archeoastronomia

Uno dei primi istinti dell’uomo è stato quello di contemplare la volta celeste. Una delle prime attività umane è stata l’edificazione di megaliti e costruzioni. Astronomia e architettura hanno viaggiato per migliaia di anni a stretto contatto, e oggi sappiamo che nell’antichità molte popolazioni orientavano i propri edifici secondo particolari allineamenti astronomici, seguendo e analizzando i movimenti del Sole e degli astri. Dallo studio di queste connessioni nasce l’archeoastronomia, una scienza interdisciplinare che per fornire analisi precise deve fare i conti non solo con la posizione delle stelle e con i reperti archeologici, ma anche con l’iconografia, l’interpretazione dei testi e la storia filosofica, religiosa e culturale dell’uomo. Orientamenti astronomici sono stati riscontrati in centinaia di templi e altri edifici religiosi e no di tutto il mondo. Ma quanti di questi allineamenti sono puramente casuali e quanti sono invece il riflesso di una precisa storia culturale? Uno dei primi compiti di un archeoastronomo è proprio quello di dimostrare che gli allineamenti non siano solo frutto del caso. “Per farlo l’archeoastronomia moderna usa tutte le fonti, comprese addirittura, quando ci sono, le fonti etnologiche”, spiega Giulio Magli, professore ordinario alla facoltà di Architettura Civile del Politecnico di Milano, dove tiene l’unico corso universitario di archeoastronomia in Italia. “Per esempio ci sono ancora oggi delle popolazioni rurali che usano il calendario Tzolkin di 260 giorni, il calendario sacro dei Maya di mille anni fa. E gli studiosi dei Maya hanno oggi ormai chiaro il fatto che conoscere l’astronomia e l’archeoastronomia sia un tassello chiave per provare a capire un sito maya”. Quando si parla del rapporto tra monumenti e stelle il pensiero corre inevitabilmente alle piramidi di Giza. “In Egitto il legame dell’architettura con l’astronomia è quello di un’identità culturale che rimane sostanzialmente immutata per tremila anni”, dice Magli. Ma esempi simili si trovano anche nel mondo greco, dove, spiega, “la stragrande maggioranza dei templi è orientata con il sorgere del Sole, come molte chiese cristiane, riflesso anche qui di un profilo culturale molto preciso”. Profilo che nessuno ha mai dimostrato essere presente negli edifici di culto dell’Antica Roma. “Il tempio romano ha tipicamente un’orientazione o casuale o che dipende dall’impianto urbano della città e dalle caratteristiche topografiche. Nessuno ha mai dimostrato una ricorrenza di orientazione nei templi romani, e certo non lo si può fare partendo da una sola città: ci vorrebbe un database completo”, spiega Magli. Il riferimento è alla ricerca presentata qualche giorno fa da Vance Tiede sugli edifici sacri di Pompei. 

“Ma nella cultura romana è soprattutto l’imperatore a essere legato ai moti celesti”, racconta Magli. “Uno degli esempi è il Pantheon, che è costruito in modo tale da celebrare il natale di Roma, il 21 aprile. In quel giorno il fascio di luce che entra dall’oculo colpisce direttamente l’ingresso, a mezzogiorno. Questo fenomeno, che abbiamo studiato Robert Hannah ed io qualche anno fa, era già conosciuto nella tradizione culturale della città, e descritto per esempio nei disegni del 1700 di Giovanni Battista Piranesi”. Relazioni tra la fondazione di Roma, la figura dell’imperatore e la volta celeste sono presenti in diverse costruzioni romane, come ad esempio nella Domus Aurea o nella Meridiana di Augusto. Non è così per quanto riguarda le divinità. “Per i templi  siamo ancora molto lontani dall’avere un database completo e quindi una conoscenza statistica adeguata. Questo nuova analisi dei templi di Pompei può essere interessante dal punto di vista della catalogazione. Mancano però ancora delle informazioni culturali e archeologiche forti per poterne trarre delle conclusioni”. D’altra parte il fatto che un edificio sia allineato con un qualche moto celeste non è di per sé un’evidenza particolarmente significativa vista, banalmente, l’enorme quantità di stelle nel cielo. L’indubbio fascino che si porta dietro questa disciplina, con i suoi echi ancestrali e le suggestioni culturali, porta spesso a forti invasioni di campo da parte di amatori che, anche in buona fede, con le loro ricerche poco rigorose finiscono per complicare il lavoro degli scienziati.”Un esempio classico sono gli Etruschi”, racconta Magli. “Sugli etruschi si trovano in giro le sciocchezze più terrificanti, e fino a poco tempo fa gli etruscologi guardavano con sospetto qualsiasi ricerca di stampo archeastronomico”. Eppure in Italia ci sarebbe molto materiale su cui lavorare. “Nei dintorni di Roma ci sono dei monumenti fantastici: l’acropoli di Circei, l’acropoli di Alatri, le mura di Segni, le mura poligonali di Norba”, monumenti megalitici le cui origini sono ancora incerte e sulle quali un serio studio archeoastronomico potrebbe portare a risultati interessanti. Rimanendo in Italia, uno studio recente, a firma di Stella Vittoria Bertarione e dello stesso Magli, ha da poco analizzato l’orientamento astronomico di Aosta. “È stato un lavoro in forte cooperazione con l’archeologia. In quelle zone gli archeologi hanno scoperto un blocco inciso che si riferisce all’atto di fondazione della città. Aosta, che portava il nome di Augusta Pretoria, venne fondata da Augusto. Lo studio ha dimostrato che la città è orientata verso il sorgere del Sole sul solstizio di inverno e cioè, all’epoca, nel Capricorno, segno associato all’imperatore”.
di Matteo De Giuli (INAF)

I templi di Pompei erano allineati con le stelle?

Come se non bastasse la notizia di qualche giorno fa secondo la quale nella dieta degli abitanti di Pompei trovavano posto piatti esotici come la carne di fenicotteri e di giraffe,  a mescolare ulteriormente le carte in tavola su quello che sappiamo e non sappiamo dell’antica città commerciale ci ha pensato una nuova indagine di 11 templi  pompeiani che ha rivelato come almeno 9 di questi siano stati costruiti per essere allineati con il sorgere di determinate stelle o con la posizione di Sole o Luna in  giorni di particolare rilevanza. L’orientamento di questo tipo negli  edifici religiosi è piuttosto inusuale nelle usanze romane, al pari ovviamente del consumo di cibi provenienti da così lontano. La ricerca sui templi è stata condotta da Vance Tiede, dell’agenzia di ricerca Astro-Archaeology Surveys di Guilford, Connecticutis, e si è basata su modelli digitali di elevazione combinati con immagini satellitari, rilievi a terra e mappe delle passate posizioni delle stelle. Tiede ha presentato il proprio lavoro la scorsa settimana in una riunione dell’American Astronomical Society a National Harbor, in Maryland. Che nell’Antica Roma venissero utilizzati degli allineamenti astronomici nella costruzione degli edifici di per sé non è una sorpresa. Le conoscenze astronomiche e architettoniche dell’epoca trovavano spesso un punto di incontro nella costruzione di case e templi orientati in maniera tale da sfruttare i movimenti del Sole e delle stelle. Marco Vitruvio Pollione (80 a.C. – 15 a.C.), considerato il più famoso teorico dell’architettura d’epoca romana, scriveva nel suo De Architectura: “Chi si professa archittetto deve intendere l’astronomia e i moti del cielo, e conoscere l’oriente, l’occidente, il mezzogiorno, il settentrione, e tutta la disposizione del cielo, l’equinozio, il solstizio e il corso delle stelle”. Secondo uno studio di qualche anno fa a firma di Giulio Magli, professore ordinario al dipartimento di matematica del Politecnico di Milano, gli Antichi Romani costruirono intere città tenendo conto dell’orientamento astronomico. La pianificazione urbanistica seguiva quindi forti aspetti simbolici legati all’astronomia anche nella cultura romana. Ma la disposizione dei templi di Pompei sembrerebbe andare contro i dettami e gli standard dell’epoca. Era lo stesso Marco Vitruvio Pollione a dare le giuste indicazioni per la costruzione di edifici di culto. Sempre nelle pagine del suo  De Architectura scriveva infatti: ”L’orientazione del tempio dedicato agli dei immortali deve essere studiata in modo che, salvo particolari impedimenti, la fronte dell’edificio e la statua che si trova all’interno della cella siano volte a ponente, così chi si dirigerà all’altare per fare offerte e compiere sacrifici (…) avrà ad un tempo di fronte l’oriente celeste e i simulacri degli dei”. Eppure, al contrario di quanto prescritto da Vitruvio, nessuno dei templi presi in esame guarda l’ovest. L’allineamento segue piuttosto il sorgere delle stelle associate ai miti delle divinità alle quali gli stessi templi erano consacrati. Come il Tempio di Giove, allineato alla prima apparizione della stella Sargas, o il Tempio Dorico che guarda alla prima comparsa della stella Rigel. Il legame tra città romane e il simbolismo astronomico non è mai stato studiato in maniera sistematica, e diversi altri studi saranno necessari per capire quanto gli allineamenti trovati da Tiede siano casuali e quanto siano invece il risultato dell’influsso di altre culture (come quella greca o egizia) in una città vivace e in fermento come la Pompei di quei tempi.
di Matteo De Giuli (INAF)

Le costellazioni: poesia e ignoranza vanno a braccetto

Pubblichiamo un interessante articolo di Vincenzo Zappalà apparso sul sito astronomia.com. E’ molto bello e fa riflettere. Leggiamo.

Questo articolo non vuole essere assolutamente polemico. Non vuole nemmeno mettere in discussione gli interessantissimi viaggi che Pierluigi ci fa fare nelle costellazioni, chiarendo sempre le vere motivazioni di certe scelte di comodo. Il mio scopo è solo quello di chiarire l’importanza di queste figure essenzialmente mitologiche che rivestono un ruolo del tutto secondario e trascurabile nell’astronomia odierna. Il vero problema è che l’importanza, che spesso e volentieri vengono dati a nomi molto suggestivi che sembrano contenere al loro interno stelle, galassie, nebulose, ammassi e chi più ne ha più ne metta, può causare una visione distorta del Cosmo e delle limitazioni che l’uomo ha nell’osservarlo. Non parliamo, poi, dei tragici risvolti che le costellazioni hanno quando sconfinano troppo frequentemente nell’astrologia. Nessuna accusa alle costellazioni, quindi, che -oltretutto- vengono ancora usate anche dai professionisti per definire molte delle stelle che si studiano nel cielo. Solo una chiara definizione di cosa rappresentano e dei loro risvolti assolutamente privi di interesse astronomico.
Immaginate di affacciarvi da un balcone di una casa posta in montagna, da cui si gode un panorama quasi infinito. Vicino a voi, tra i fiori che splendono nei loro vasi, il paesino con le sue case dal tetto spiovente. Poi una foresta di pini. Dietro a questa, pendii ricoperti di prati fioriti e le prime cime che puntano verso il cielo, ammantate ancora di neve (soprattutto se siamo a maggio…). Tra una cima e l’altra si intravedono altre valli, altri villaggi, un lago che brilla al Sole. Più lontane altre montagne che chiudono l’orizzonte. Un aereo sembra sfiorare la vetta più alta e il Sole accarezza quella un poco più a destra.
Bene. Pensereste mai di dare un nome unico a tutto ciò che state vedendo? No, di certo, al limite potreste definirlo come “il panorama che vedo dal mio balcone”, ma non gli dareste certo con un nome proprio, né lo considerereste qualcosa di definito e strutturato. Sapreste benissimo che quello che vedete dal vostro balcone sarebbe completamente diverso se visto dalla casa che sta sulla montagna di fronte. Le distanze sono tali che basterebbe spostarsi un poco per rendersi subito conto che alcune cose sono vicine, a poche decine di metri, altre a media distanza, altre ai limiti dell’orizzonte, altre ancora nel cielo e il Sole addirittura a più di cento milioni di chilometri di distanza. I vostri sensi, soprattutto la vista, ma anche l’udito, il tatto e l’olfatto vi farebbero capire subito che ciò che vedete è posto a distanze ben diverse e che non esiste nessuna relazione fisica tra i vostri vasi di fiori, il paese, la foresta, le montagne, l’aereo, il lago e il Sole.
Ognuno di questi “oggetti” ha una sua realtà fisica ben diversa e del tutto indipendente. A ognuno dareste un nome senza pensare minimamente di chiamarli come “mio balcone 2, mio balcone gamma, mio balcone Z-14, ecc.” Molto meglio sarebbe legare tra loro le montagne anche se relativamente distanti, i laghi e laghetti, i paesi e le strade che li uniscono, gli aerei che passano, il Sole da solo o insieme magari alla Luna che sta dalla parte opposta e non potete vederla dal balcone.
Se, però, vi affacciate di notte dallo stesso balcone e guardate verso l’alto vedreste soltanto punti luminosi più o meno intensi. Provate a muovervi un poco, a sentire i loro profumi e i loro suoni, a toccarli con le mani. Niente da fare: sono troppo lontani da voi. Non siete assolutamente in grado, con i vostri mezzi, di stabilire chi è vicino e chi è lontano. Sembrano tutti incollati su un immenso telone nero che vi circonda, dalla forma semisferica.
Come distinguere quelli di destra da quelli di sinistra, quelli in basso da quelli in alto? Per voi sono oggetti tutti uguali e tutti posti alla stessa apparente distanza. Però, però, a guardarli bene, alcuni di essi formano delle linee particolari, altri appaiono disegnare delle strane forme nel Cielo. Lasciatevi  trasportare dalla fantasia e raggruppateli secondo queste strane figure. Non potete fare di meglio. Questi disegni, oltretutto, sono anche visibili, tali e quali, dal vostro amico che sta sulla collina di fronte e anche da quelli che sono rimasti in città o dall’altra parte della Terra. Potete quindi dargli tranquillamente un nome proprio e tutti sapranno immediatamente di cosa state parlando.
Ovviamente, è un segno di resa, di ignoranza delle caratteristiche fisiche di quei punti che non riuscite a comprendere e che appaiono tutti uguali. Qualcuno, molto meno fantasioso e creativo, potrebbe anche pensare di dividere quella semisfera nera in tanti rettangoli, o quadrati, o triangoli e chiamare ognuno di loro con un numero progressivo: quadrato1, 2, 3,…., 1500. Il risultato sarebbe lo stesso; avrebbe, comunque, coniato un nome e cognome per la zona in cui si trovano certi puntini luminosi, ma sarebbe una scelta estremamente fredda e ben poco poetica.
Così sono nate le costellazioni e così i primi pensatori e scienziati dell’umanità sono anche riusciti a capire quali erano quelle che venivano attraversate dal Sole durante il suo apparente viaggio annuale. Pensateci bene. Non era cosa facile. Bisognava capire che la costellazione dei Gemelli era una di queste, ma non si poteva certo vedere direttamente il Sole passare tra Castore e Polluce. Anzi la si poteva vedere bene solo quando il Sole era dalla parte opposta della Terra. Una deduzione non banale e che forse oggi ben pochi riuscirebbero a fare.
Arrivarono i telescopi e i puntini luminosi crebbero in numero spaventoso. Non bastavano più i nomi per chiamare una per una le stelle e si cominciò a definirle con una lettera greca inserita dopo il nome della costellazione: gamma del Centauro, ad esempio. Ma il meno fantasioso amico poteva anche continuare a chiamarla gamma del quadratino 156.
Poi si ci rese conto che non tutti i puntini luminosi erano uguali. Alcuni rimanevano puntini anche con grandi telescopi, altri diventavano nuvolette diffuse, altri ancora sembravano piccole trottole. Non solo però, l’uomo era riuscito a trovare nella geometria e nella fisica di quei puntini la possibilità di determinare la loro distanza dalla Terra. Ed ecco che alcuni punti divennero vasi di fiori, altri case di un paese, altri ancora città lontanissime e via dicendo. Anche senza bisogno di utilizzare i sensi non sufficientemente attrezzati per valutare distanze così enormi, l’uomo era riuscito a capire che quella semisfera nera non era un telone fisso, posto a una certa distanza, ma era popolata da alcuni oggetti realmente vicini tra loro e altri separati da distanze inimmaginabili. Il panorama notturno dal vostro balcone aveva mostrato la sua profondità.
Ci sono voluti secoli di lotte, di grandi menti, di attrezzature sofisticate per giungere a questo risultato. Un risultato che l’uomo ha cercato di ottenere fin dal primo momento in cui ha guardato verso l’alto: riuscire a capire se anche l’Universo era formato da montagne, vasi, laghi, città, aerei e Soli, solo apparentemente visibili dal balcone nella stessa direzione.
Superato questo scoglio, che sembrava insormontabile, perché allora mantenere valide le definizioni basate su un’atavica ignoranza del tipo “balcone mio punto 345 oppure quadratino 344 o, ancora, gamma di Orione”? Non ve ne era più bisogno, ora che si poteva classificare ogni punto in base alla sua essenza fisica (montagna, paese, lago, aereo, stella, nebulosa, galassia, ecc.) e alla sua distanza da noi.
La Scienza decise di adeguarsi alle scoperte che avevano risolto uno dei massimi enigmi della mente umana, ma volle comunque mantenere valide certe definizioni che rappresentavano la lunga storia di vittorie e di sconfitte scientifiche. Mantenne, quindi, i nomi poetici e mitologici, ma li escluse da qualsiasi valenza scientifica. Un ricordo poetico e nulla più. Se delta dell’Acquario è ancora definita in quel modo, essa è anche una stella doppia stretta formata da una nana bianca e da una gigante rossa che appartengono all’ammasso stellare NGC 1234 . Quella vicinissima girandola, un tempo chiamata magari come zeta è invece una galassia a spirale barrata, a trecentoventi milioni di anni luce dal sistema doppio e classificata come M21. Essa fa parte di un’altra famiglia di oggetti, di un altro tempo, di un altro spazio.
Divertiamoci quindi con le costellazioni e i loro fantastici miti. Esse ci mostrano l’incredibile fantasia dell’uomo attraverso i secoli e la dura e continua lotta contro l’ignoranza. Tuttavia, non dimentichiamo l’inconsistenza di una definizione basta sulla scarsa conoscenza che oggi abbiamo finalmente superato. Soprattutto, cerchiamo di non venire trascinati in un mondo che è voluto rimanere attaccato ai miti non per valori poetici, ma solo per giocare con la stupidità umana (che non è diminuita nel tempo) e continuare a dare alle costellazioni una valenza fisica e astronomica che non possono avere.
Il paesaggio che vediamo dal nostro balcone, anche di notte, si divide in paesi, laghi, montagne, città, vasi di fiori, pini e prati, aerei, Sole e Luna. Usiamo questi nomi faticosamente scoperti e diamo alle costellazioni il loro antico, commovente, valore mitologico e nulla più.
di Vincenzo Zappalà

Costellazioni e Atlanti celesti

Nonostante i passi da gigante compiuti dall’astronomia dai tempi remoti dell’antichità fino ai giorni nostri, la maggior parte delle costellazioni che oggi noi riconosciamo nel cielo sono sostanzialmente le stesse che, molti secoli fa, popolavano le notti degli abitanti dell’antica Grecia.
A ciascuna costellazione, essi avevano associato un personaggio del loro pantheon divino, protagonista di un proprio mito al quale essi affidavano la spiegazione dell’identificazione in una data costellazione. Queste storie sono spesso molto ramificate: ad una versione principale spesso si accompagnano svariate versioni secondarie, che danno del racconto una altra versione o collegano la costellazione ad altri personaggi.
Tuttavia, l’origine delle costellazioni è molto più antica; l’invenzione di molte delle principali costellazioni – frutto dell’immaginazione umana e non creazioni della natura – non è da attribuire ai Greci, ma a popoli diversi come i Sumeri, i Babilonesi o gli Egizi, da cui gli abitanti dell’Ellade ne assimilarono poi le configurazioni principali.
Non dobbiamo inoltre dimenticare che anche i Cinesi o gli Indiani avevano una loro tradizione di leggende legate alle costellazioni. Naturalmente però sono stati i Greci, dai quali poi i Romani assimilarono a loro volta miti e divinità, a costituire il legame più forte con i tempi moderni, per cui sono le loro leggende ad essere rimaste vive nel nostro immaginario più che quello dei loro remoti predecessori.
E, in effetti, la serie di miti che lega tra loro i personaggi delle costellazioni rende il cielo notturno come una specie di immenso libro illustrato in cui lentamente, notte dopo notte, dei, animali prodigiosi ed eroi squadernano le loro imprese perpetuando il ricordo delle loro passate epopee.
Certamente, dare un nome alle cose è il modo più naturale di farle proprie; gli antichi avevano bisogno di trovare delle spiegazioni di ciò che li circondava, e i fenomeni celesti rappresentavano di sicuro – con la loro immensità e magnificenza – una delle sfide più grandi alla potente immaginazione dei Greci soprattutto, ma anche delle altre popolazioni.
La necessità di dare ordine alla brillante confusione della notte non trova però le sue radici solo nella naturale propensione dell’uomo a inventare storie o a dominare l’ignoto creando punti di riferimento: gli antichi viaggiatori si erano infatti resi conto che grazie alle stelle essi potevano viaggiare senza smarrirsi in un’epoca in cui i mezzi di orientamento erano decisamente molto più scarsi rispetto ai giorni nostri.
Che ci si trovasse per mare, in un deserto o in qualche paese sconosciuto, sapere che ad una data costellazione corrispondeva una direzione precisa significava per i viandanti non smarrire mai la strada; per i contadini, il sorgere o il tramontare di questi oggetti celesti significava l’arrivo delle piogge, della siccità o talvolta – come in Egitto – delle benefiche inondazioni, e queste informazioni erano preziose per loro, che sapevano così di poter iniziare ad organizzarsi per le semine, le raccolte o l’immagazzinamento di viveri e sementi.
Quello che gli antichi non sapevano è che le figure formate dalle stelle sono solo un effetto ottico; le costellazioni non esistono realmente poiché gli astri che le compongono non sono davvero allineati, ma si trovano a grandissima distanza tra loro, e noi le vediamo vicine solo grazie alla prospettiva. I Greci tuttavia erano convinti di trovarsi di fronte a figure realmente esistenti.
Al giorno d’oggi, considerando anche l’emisfero australe, le costellazioni ufficialmente riconosciute sono 88; esse si sono sviluppate da un iniziale elenco di 48 costellazioni che l’astronomo Tolomeo pubblicò nel 150 d.C. nel suo Almagesto, compendio di tutte le conoscenze astronomiche greche dell’epoca, successivamente rimpolpato dagli oggetti creati successivamente per riempire quelle zone di cielo che erano prive di costellazioni, e in modo particolare la parte australe del firmamento che si trovava al di sotto dell’orizzonte visibile dai Greci.
Questo sistema di costellazioni è molto importante, poiché oggi noi lo utilizziamo ancora, seppur ampliato, e i cartografi europei e arabi si basarono sui suoi disegni per raffigurare le costellazioni, tanto che l’Astronomo Reale John Flamsteed affermò che “tutte le osservazioni sia degli antichi che dei moderni utilizzano le forme delle costellazioni e i nomi delle stelle di Tolomeo così che è indispensabile conformarsi a essi per non rendere incomprensibili le vecchie osservazioni, alterandole o allontanandoci da esse”.
Noi non possiamo sapere esattamente quando tali costellazioni furono inventate anche se, come abbiamo detto, la loro origine è da ricercare nelle terre tra il Tigri e l’Eufrate, patria della civiltà babilonese (e odierno Iraq). Grazie ad una tavoletta d’argilla scritta a caratteri cuneiformi sappiamo per certo che, attorno all’VIII secolo a.C., i Babilonesi avevano già un sistema organizzato di costellazioni Zodiacali (ovvero situate in quella parte di cielo attraversata dal Sole, dalla Luna e dai pianeti).
Esse erano molto simili a quelle odierne, ma non coincidono esattamente con esse.
Prima ancora dei Babilonesi, però, furono i Sumeri, che si occupavano dello studio dell’astronomia già in tempi remoti, ad ideare attorno al 2000 a.C. un sistema di costellazioni, poi adottato dai Babilonesi e, in seguito, dagli Egizi.
Per quanto riguarda i Greci, invece, la prima vera testimonianza scritta di un sistema di costellazioni greche ci viene dall’astronomo Eudosso, vissuto nel IV sec. a.C.
Eudosso, in contatto proprio con la civiltà egizia, avrebbe da questa assimilato le costellazioni che poi introdusse in Grecia; i suoi due scritti sull’argomento però – l’Enoptron (Specchio) e i Phaenomena (Apparenze) – sono andati perduti. Ci sono pervenuti invece i Phaenomena di Arato (vissuto tra il 315 e il 245 a.C.), in cui possiamo trovare un elenco delle costellazioni – 47 – conosciute dai Greci antichi.
Tramite il poema di Arato anche i Romani vennero a conoscenza di questo sistema; i Phaenomena furono infatti tradotti più volte in latino, e in particolare un adattamento attribuito a Germanico Cesare (15 a.C.- 19 d.C.) contiene sull’argomento un maggior numero di informazioni rispetta all’originale, segno che i Romani avevano integrato con le loro conoscenze le informazioni giunte dalla Grecia.
Dopo Arato, un altro importante personaggio nella storia delle costellazioni è lo scienziato e scrittore greco Eratostene (276 – 194 a.C.), autore dei Catasterismi in cui venivano riportati i racconti mitologici connessi a 42 costellazioni, con un elenco delle stelle principali di ogni figura. Purtroppo, il libro pervenutoci è solo un adattamento dell’originale; tuttavia, ulteriori informazioni sono contenute nell’Astronomia poetica del latino Igino, probabilmente risalente al II secolo d.C.
Riprendendo le costellazioni indicate da Eratostene, l’autore riferisce però su di esse molti altri racconti; in seguito, Igino si occupò di nuovo dell’argomento e compose le Fabulae, un libricino di mitologia generale che, assieme all’Astronomia poetica, furono utilizzate durante il Medioevo e il Rinascimento come fonte di vari libri – spesso arricchiti da illustrazioni e disegni.
Autore latino era anche Marco Manilio, che, ispirato dall’opera di Arato, attorno al 15 d.C. compose un libro intitolato Astronomica, più che altro incentrato sull’astrologia ma contenente anche informazioni di carattere mitologico.
Fondamentali sono però le opere di tre autori, non semplici compilatori o scienziati, ma poeti tra i più significativi dell’antichità, che con i loro scritti contribuirono a far arrivare fino ai giorni nostri i racconti dei miti, e in squisite forme artistiche: il latino Ovidio (43 a.C. – 17d.C.), autore delle celebri Metamorfosi che narrano delle trasformazioni dei mitici personaggi in stelle e costellazioni; Apollonio Rodio, greco cantore delle imprese degli Argonauti nel poema Argonautica (III secolo a.C.) e infine Apollodoro, anch’egli greco, che verso il I secolo d.C. compilò un poderoso compendio di miti.
Da costoro ci vengono le versioni complete dei racconti connessi alle costellazioni. Dopo Tolomeo, l’astronomia greca iniziò il suo declino, mentre il centro degli studi si spostava verso Baghdad. Furono gli Arabi ad assegnare i nomi a molte delle stelle più brillanti delle costellazioni – con i quali ancor oggi esse vengono chiamate.
In seguito, attorno al X secolo, le opere di Tolomeo vennero reintrodotte in Europa con le invasioni arabe; esse vennero tradotte quindi dall’arabo al latino, per cui oggi noi abbiamo costellazioni greche che vengono chiamate con nomi latini e le cui stelle hanno invece denominazioni arabe.
In seguito, con le esplorazioni dell’emisfero australe e la “scoperta” di un cielo non conosciuto prima dai popoli del Mediterraneo perché sotto il loro orizzonte, vennero inventate nuove costellazioni che andarono ad aumentare quelle originali di Tolomeo. In seguito, alla fine del XVII secolo, l’astronomo polacco Johannes Hevelius inventò altre 11 costellazioni, che andavano a riempire la zona sguarnita – perché priva di stelle davvero brillanti – attorno al polo, e furono incluse nel suo atlante celeste, il Firmamentum Sobiescianum (1690).
Sette di queste (i Cani da Caccia, la Lince, la Lucertola, il Leone Minore, lo Scudo, il Sestante, la Volpe) esistono ancora, mentre le altre quattro (Cerberus, Mons Maenalus, Musca e Triangulum Minor) sono state ormai abbandonate.
Poiché dare il nome a una costellazione era considerato un mezzo per immortalare il proprio ricordo, furono molti coloro che vollero cimentarsi in tale attività tanto che ad un certo punto, all’inizio dell’Ottocento, tra emisfero australe e boreale, si contavano più di 100 costellazioni – come testimoniano le illustrazioni della bellissima Uranographia di Johann Elert Bode.
Ci si accorse ben presto di avere esagerato; un simile affollamento più che portare ordine generava una grossa confusione, aumentata dal fatto che non erano ancora stati definitivamente decisi confini standard tra i vari raggruppamenti stellari: le linee di demarcazione tra le varie costellazioni variavano infatti da atlante ad atlante.
Il problema fu risolto nel 1922 nel corso di una riunione dell’ International Astronomical Union (I.A.U.) che fissò definitivamente il numero delle costellazioni accettate ad 88 e ne tracciò i confini precisi e tutt’oggi adottati nei moderni atlanti stellari.
Il risultato di queste decisioni prese corpo nel 1930 nel libro dell’astronomo francese Eugene Del Porte: Delimitation Scientifique del Costellations (Delimitazione scientifica delle costellazioni).
Già in passato, comunque, erano comparsi vari atlanti celesti che, a seconda delle conoscenze dell’epoca, raffiguravano il cielo con le sue costellazioni. Alcune di queste carte sono delle autentiche opere d’arte, illustrate con bellissime raffigurazioni che mostrano i personaggi mitologici nelle pose in cui la tradizione da secoli li immagina.
Le prime carte celesti in realtà non erano raffigurate su carta, ma su superfici sferiche che rappresentavano le stelle alla rovescia, cioè non come le vediamo noi da una prospettiva terrestre, ma come le vedrebbe Dio dai cieli.
Il primo mappamondo di questo tipo sembra risalire al II secolo d.C., e fa parte di una scultura che ritrae Atlante con la sfera celeste sulle spalle; quest’opera viene chiamata Atlante Farnese, poiché fu acquistata dal cardinale Alessandro Farnese, poi papa Paolo III (XVI sec.).
A sua volta, l’Atlante pare essere una copia di un esemplare greco risalente al III secolo a.C. Questo ci darebbe l’idea di come gli antichi Greci rappresentavano le figure delle costellazioni.
Nel periodo medievale (a partire dal IX secolo), venne introdotto dagli Arabi il primo prototipo della carta celeste piatta, in due dimensioni: essi infatti idearono gli astrolabi, dischi di ottone su cui venivano riportate le posizioni degli astri più luminosi, necessari per orientarsi durante le navigazioni.
All’anno 940 risale finalmente la prima vera e propria carta celeste da noi conosciuta: si tratta del manoscritto orientale Thuanung che però riporta le costellazioni ideate dai Cinesi, per noi sconosciute. Rispetto a quelle della tradizione occidentale, infatti, le costellazioni cinesi – che erano in tutto 283, per un totale di 1464 stelle descritte, e si riferivano ad aspetti della vita cinese piuttosto che a miti come le nostre – sono più piccole e sono formate da un numero minore di astri.
Una delle prime carte celesti di grande valore artistico, oltre che scientifico, fu creata dall’artista tedesco Albrecht Dürer, che realizzò nel 1515 una carta dei cieli incidendo due tavole di legno: sulla prima, egli aveva raffigurato lo zodiaco e le costellazioni a nord di esso, mentre sulla seconda le costellazioni a sud della zona zodiacale, rifacendosi all’elenco stilato da Tolomeo. I quattro vertici della carta del nord sono ornati dai ritratti di Arato, Manilio, Tolomeo e Al Sufi, gli astronomi greci, latini e arabi a cui Dürer si rifaceva. La carta del sud è caratterizzata dalla mancanza di costellazioni attorno al polo sud celeste; l’emisfero australe sarebbe stato sistematicamente esplorato a partire dalla fine del XVI secolo, e solo allora fu possibile creare le costellazioni di un cielo prima sconosciuto.
Nelle sue carte, Dürer raffigurò le costellazioni alla rovescia, poiché, per tradizione antica, esse venivano disegnate come se fossero viste dal punto di osservazione di Dio, ovvero da dietro le stelle stesse.
Nel 1603 comparve l’Uranometria, il grande atlante stellare realizzato dall’avvocato tedesco Johann Bayer. La catalogazione delle stelle aveva fatto progressi dall’epoca di Dürer, cosicché l’Uranometria è più accurata delle carte precedenti; l’atlante dedica una carta a ciascuna delle 48 costellazioni di Tolomeo e riportò le posizioni delle stelle individuate dall’osservatore Tycho Brahe.
Erano riportate anche le nuove costellazioni del cielo australe, che vennero raffigurate per la prima volta nel 1598 dall’olandese Petrus Plancius. Ciascuna delle carte, incise da Alexander Mair, è in sé una vera e propria opera d’arte; l’importanza dell’Uranometria risiede però anche nel fatto che in essa, per la prima volta, le stelle vennero indicate con le lettere dell’alfabeto greco, così come siamo soliti a fare anche ai giorni nostri.
Qualche anno dopo la comparsa dell’atlante di Bayer, grazie all’invenzione del telescopio si poterono descrivere con grande precisione molte più stelle rispetto ai tempi passati; tuttavia l’astronomo polacco Johannes Hevelius, autore di un catalogo stellare e di un atlante chiamato Firmamentum Sobiescianum (1690), volle continuare a fare le sue osservazioni ad occhio nudo temendo che le lenti dei telescopi provocassero distorsioni ottiche.
Il Firmamentum, risultato di queste sue osservazioni, contiene le posizioni di circa 1500 stelle ed è inciso dallo stesso Hevelius, che però raffigurò le costellazioni alla rovescia.
Nel XVIII secolo l’Astronomo Reale John Flamsteed, che operava presso l’Osservatorio di Greenwich, catalogò in modo molto preciso quasi 3000 stelle e pubblicò i risultati nel 1725 nell’Historia Coelestis Britannica, a cui fece seguito, qualche anno dopo, l’Atlas Coelestis che raccoglieva 25 carte celesti basate sulle osservazioni di John Flamsteed. Ogni figura era scrupolosamente raffigurata secondo la descrizione che ne aveva dato Tolomeo.
Infine, abbiamo lo splendido Atlante celeste di Bode, cui abbiamo sopra accennato. Esso fu il primo a rappresentare tutte le stelle che si potevano effettivamente osservare ad occhio nudo (circa 17.000), basandosi sulle osservazioni di Lacaille, John Flamsteed, Lalande e sulle proprie. Le costellazioni da lui raffigurate sono più di cento.
Dopo Bode, si perso sempre più la tradizione di incidere atlanti così artisticamente belli, preferendo puntare di più sui parametri, come la posizione e la luminosità, che descrivevano scientificamente piuttosto che artisticamente le stelle.
Costellazioni e atlanti celesti di Sara Garzia (Associazione Friulana Astronomia e Meteorologia)
(Per gentile concessione dell’autore l’articolo si trova su sito Circolo Astrofili Talamassons)

L’origine delle costellazioni e il mito di Atlantide

Quali popoli per primi sollevarono alle glorie il firmamento? Chi ha voluto riconoscere nella disposizione delle stelle proprio quelle figure e quei personaggi? E a quale scopo?
Ci sono due modi per tentare una risposta. Il primo è quello di risalire indietro nel tempo, alla ricerca di antiche carte celesti e vedere se si ha la possibilità di individuare la patria e l’epoca degli autori. Il secondo è quello di ricordare i miti che hanno prodotto quelle figure e verificare le radici linguistiche di quei nomi collegandoli a tempi e culture noti.
Chiunque alzi la testa al cielo per la prima volta percepisce una grande confusione, con tutti quei disegni stellari. Animali, grandi e piccoli, figure mitologiche, mostri marini, draghi, serpenti… Dato che la maggior parte delle figure sono legate a temi mitologici greci, si presume che quindi siano stati i Greci a inventarle. Ma forse non è proprio così, dato che molte costellazioni esistevano già prima della civiltà greca. Forse lo studio del loro moto apparente può farci arrivare a una risposta.
Tenendo in mente che vi sono due gruppi di stelle che non scendono mai sotto l’orizzonte, le stelle circumpolari e le circumpolari meridionali, le altre invece compiono un moto apparente che le fa levare sopra l’orizzonte, salire al cielo e poi tramontare. Ogni giorno il Sole accompagna il moto apparente delle stelle da est a ovest, ma ogni volta esso “scivola” indietro di un po’ rispetto a esse.
Ora ipotizzando uno spettatore che si trova alle medie latitudini settentrionali ed esaminando la distribuzione delle costellazioni sulla sfera celeste, come erano conosciute dai Greci, possiamo trovare un’ampia regione priva di costellazioni, sebbene in quell’area ci siano molte stelle brillanti e non. Il raggio di quell’area, in gradi, sarà pari alla latitudine dell’osservatore. Tuttavia, l’area senza costellazioni non è circolare ma irregolarmente ovale e il suo centro non è il polo sud attuale. Questo fatto creò delle perplessità già a Ipparco, il quale paragonò le proprie osservazioni con quelle di Eudosso e vide che vi erano descritte delle parti di costellazioni che lui invece non vedeva e al contrario, Ipparco vedeva delle costellazioni che Eudosso non aveva descritto. E’ probabile che Ipparco si sia chiesto quali moti della Terra fossero responsabili di tali incongruenze e ciò che lo ha poi condotto alla sua più grande scoperta: la posizione dei poli celesti non è fissa ma si sposta nel cielo descrivendo un ampio cerchio in circa 26.000 anni. E’ ciò che si chiama moto di precessione.
Quella zona priva di costellazioni può comunque aiutarci a capire chi furono gli inventori delle costellazioni.
Sessant’anni fa uno storico dell’astronomia A.C.D. Crommelin dimostrò che il raggio della zona senza costellazioni è di circa 36˚, che vuole dire che chi disegnò le prime costellazioni viveva a circa 36˚ a nord dell’equatore. Inoltre trovò che il centro di quella zona coincide con la posizione in cui vi era il polo sud celeste intorno al 2700 a.C. Ma ovviamente questo è uno dei tanti metodi di datazione che sono stati fatti, ma pare sia quello più attendibile.
Perché inventare le costellazioni?
Gli antichi che inventarono le costellazioni potevano avere almeno tre validi motivi per farlo: come calendario per seguire il trascorrere dei mesi; per collocare in cielo gli dei da loro venerati, oppure per fornire dei punti di riferimento ai navigatori.
Ma chi sono allora questi inventori?
I Fenici sembrerebbero essere i candidati migliori dato che occupavano l’area che attualmente è conosciuta come Libano, attorno ai 33-34˚ di latitudine nord. Furono commercianti e navigatori, ma qualcosa sembra farli uscire dalla rosa dei candidati: i Fenici erano sì grandi navigatori che usavano l’Orsa Maggiore per i loro viaggi in mare, ma la mitologia che appare sulle costellazioni non è attribuibile a loro, sebbene la zona geografica sia quella più adatta.
Un’altra popolazione che più si avvicina, sono gli antichi Egizi. La corrispondenza temporale è simile a quelle verificate. Fin dal 2800 a.C. gli Egizi ci hanno trasmesso grandi costruzioni, opere di ingegneria civile, astronomia, matematica e medicina. Ma, dato che molto della cultura egizia è giunto a noi, questo ci fa anche pensare che sarebbe potuto giungere a noi anche qualche opera che attestava la paternità delle costellazioni, ma non è stato così. Inoltre, gli Egizi vissero troppo a sud rispetto a dove le costellazioni sarebbero state “disegnate”.
Gli altri candidati sono i popoli babilonesi. Il dio Marduk creò ordine dal caos, stabilì i posti nel cielo per gli altri dei e li fissò nelle costellazioni. La credenza che gli eventi terrestri fossero condizionati da quelli celesti fu il presupposto maggiore del grande interesse dei Babilonesi verso il cielo: tra le tavolette di creta scoperte nelle rovine della civiltà babilonese sono state ritrovate mappe stellari. I Babilonesi diedero un nome alle costellazioni e le collocarono in posizioni che avevano un rapporto preciso l’una con l’altra. Molti nomi ci sono familiari: il Toro, i Gemelli, lo Scorpione, il Sagittario. Ma al posto del Cigno, della Lira e dell’Auriga essi avevano una Pantera, una Capra e un Vaso. Le creature e gli oggetti collocati in cielo sono quasi tutti quelli che conosciamo, con l’unica eccezione che nel poema di Arato si legge che la cintura di Orione giace sull’equatore celeste, mentre l’asserzione corretta sarebbe stata se si fosse riferito alla testa di Orione e non alla cintura.
Gli ultimi candidati sembrano essere i Minoici. Dopo le scoperte archeologiche di Arthur Evans iniziate nel 1900, tutto il mondo ha accettato l’esistenza storica dei minoici. La loro popolazione era fiorente, il mare era pescoso, i commerci erano molto forti con l’Egitto e la Siria, e la terra era fertile, inoltre la civiltà minoica si estendeva anche nelle isole greche, nell’antica Citera che ebbe un governo cretese e fu occupata per più di 800 anni, dal 2300 a.C. in poi.
Creta inoltre è posta tra 35˚- 36˚ nord. Purtroppo la civiltà minoica fu distrutta ben due volte da potenti calamità naturali: terremoti e alluvioni che si abbatterono sull’isola di Creta. La prima volta, i minoici riuscirono a ricostruire la loro civiltà, ma la seconda calamità fu davvero la fine.
Pare infatti che nel 1939, Spyridon Marinatos teorizzò che la civiltà minoica fu distrutta dall’eruzione del vulcano di Thera, un’isola molto piccola vicino a Creta. Il mondo allora conosciuto venne a conoscenza della catastrofe per mezzo di notizie frammentate, Marinatos infatti affermò che: “ Gli Egizi devono aver sicuramente saputo che un’isola era stata sommersa, ma essendo Thera un’isola così piccola e insignificante, essi non la conoscevano. Trasferirono così questo avvenimento a Creta, l’isola tanto duramente colpita e con la quale avevano perso improvvisamente ogni contatto.”
La storia dell’isola sommersa riecheggiò nei secoli successivi, creando leggende sul popolo favoloso che un tempo dominò i mari, per poi venire schiacciato dalla furia della natura. La storia di un continente sommerso chiamato Atlantide fu scritta da Platone verso il 300 a.C. In tale storia vi sono troppi riferimenti alla civiltà minoica per credere che non ci sia alcuna connessione.
Ma sarà davvero stata l’antica Atlantide a creare le costellazioni?
Perché proprio quei segni?
I primi abitanti della Terra erano dediti alla pastorizia, alla coltura dei campi, la loro vita si basava sul ciclo naturale della vita vegetativa. Inoltre, con il passare delle stagioni si individuarono nel cielo notturno i segni celesti che anticipavano i periodi di pioggia o di siccità. E’ probabile che inizialmente i segni dello Zodiaco non fossero dodici, bensì un numero maggiore o minore a seconda delle esigenze delle culture che li determinavano, ma è quasi sicuro che fosse un grande orologio cosmico che segnava i tempi per la semina, il raccolto e l’accoppiamento degli animali.
di Roberta D’Addazio (Astronomia.com) Liberamente tratto dal testo “Astronomia senza frontiere” Fabbri Editori

Scoperto il primo calendario Maya

Avviso a tutti i terrestri: la fine del mondo non è poi così vicina. Possiamo tirare un sospiro di sollievo, e tornare piuttosto a interessarci delle soprendenti conoscenze astronomiche del popolo Maya, a cui è dedicato un articolo su Science firmato dal team di William A. Saturno, archeologo dell’Università di Boston. Che, studiando il più antico calendario Maya finora ritrovato, ci conferma tra le altre cose che questa popolazione americana non pensava affatto che la storia si dovesse fermare al 31 dicembre 2012. Le  previsioni catastrofiche sulla fine della civiltà umana non si trovano in nessun loro artefatto o disegno, ma sarebbero l’ennesima leggenda metropolitana. Capiamo perché.
Circa un secolo fa è stata scoperta una grande città costruita dal popolo Maya e, di recente, gli archeologi ne stanno svelando i segreti più profondi. Scavando nel vasto e tentacolare complesso di Xultún, in Guatemala, gli studiosi hanno portato alla luce il laboratorio di uno scriba, risalente agli inizi del nono secolo d.C., i cui muri erano adornati da dipinti ancora ben conservati e da centinaia e centinai di numeri scarabocchiati. Molti di questi sono calcoli relativi al calendario Maya.
Su uno dei muri di quella che si pensa sia una casa sono stati trovati strani segni neri, come dei glifi, mai visti prima nei siti archeologici. Alcuni di questi sembrano rappresentare i diversi cicli del calendario Maya, basati su calcoli astronomici. Sappiamo, infatti, che il calendario non contava solo i 365 giorni dell’anno solare, ma anche i 260 giorni del calendario delle cerimoni, i 584 giorni del ciclo del pianeta Venere e i 780 giorni di quello di Marte.
William Saturno spiega che si è trovato davanti ad una grande lavagna dove i matematici Maya studiavano i cicli della loro vita, del mondo e dell’Universo. Nonostante le credenze popolari, nei calendari Maya non ci sarebbero segni evidenti di una previsione della fine del mondo nel 2012, ma soltanto la fine di uno dei loro cicli. Saturno, nel suo studio, paragona i calendari Maya al contachilometri di un auto che, raggiunta una certa cifra, ricomincia da zero.
Più interessante, allora, è ricordare che questo è di gran lunga il più antico calendario Maya sinora ritrovato (tutti gli altri sono di epoche decisamente più vicine), e che potrà quindi aiutare gli archeologi a ricostruire come si sono evolute nel tempo le conoscenze astronomiche di questo popolo.
Lo studio è stato pubblicato oggi su Science Journal e uscirà sul National Geographic nel mese di giugno.
Fonte INAF

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