Ritornano le Perseidi

Attendiamo lo spengersi delle ultime luci del crepuscolo e volgiamo lo sguardo verso Sud. Ci troviamo nel Sagittario, costellazione che occupa la zona della volta celeste nella quale è situato il centro della nostra galassia, la Via Lattea. Se già ad occhio nudo possiamo apprezzare e intuire l’immensità del disco di stelle, oltre 100 miliardi, in cui siamo immersi, già con un binocolo il numero di astri visibili è incalcolabile, e innumerevoli sono le nebulose e gli ammassi stellari che si possono scorgere. Con un telescopio possiamo poi trovare una vera miniera di oggetti del cielo, splendidi soggetti per gli appassionati di astrofotografia. A Sud-Est troviamo invece il Capricorno e l’Acquario, costellazioni relativamente grandi ma prive di stelle brillanti e difficilmente riconoscibili senza l’ausilio di una carta del cielo. A Nord-Ovest la brillante stella Arturo contende a Vega il primato di astro più luminoso: essa fa parte del Bootes, dall’inconfondibile forma ad aquilone. Alla sua sinistra, la piccola costellazione della Corona Boreale. Nei pressi del Triangolo Estivo, formato da Vega Altair e Deneb, possiamo cimentarci nel riconoscimento delle costellazioni minori, come la Freccia (o Saetta) – tra il Cigno e l’Aquila – o il Delfino – facilmente individuabile per la sua forma a rombo – o la ancora più ostica Volpetta. In direzione Nord, la stella polare è come sempre al centro della famiglia delle costellazioni circumpolari. L’Orsa Maggiore e l’Orsa Minore sono accompagnate, procedendo in senso orario, dal Dragone, da Cefeo e, con la caratteristica forma a “W”, da Cassiopea. Infine a Est vedremo sorgere il grande quadrilatero di Pegaso, seguito da Andromeda (da non perdere l’omonima galassia catalogata da Messier come M31) e Perseo, che ritroveremo protagonisti dei cieli autunnali. Ricordiamo che nel Perseo si trova il radiante dello sciame di meteore detto appunto delle Perseidi.

Perseidi

Come tutti gli anni ci prepariamo all’osservazione dello sciame delle Perseidi, residui della disintegrazione progressiva della cometa Swift-Tuttle. Le piccole particelle, scontrandosi a gran velocità con l’atmosfera terrestre, danno luogo a scie luminose di altissimo effetto. Il nome di “Perseidi” è determinato dalla posizione del radiante, il punto sulla volta celeste dal quale sembrano provenire le meteore, situato nella costellazione del Perseo. La denominazione tradizionale di “Lacrime di San Lorenzo” deriva dal fatto che nel XIX secolo il massimo della loro frequenza avveniva il 10 agosto, giorno della ricorrenza del Santo: ai giorni nostri il massimo si è però spostato in avanti di circa due giorni. Per le Perseidi quest’anno si prevede una apparizione oltremodo favorevole con valori di frequenza che dovrebbero raggiungere durante il massimo di attività (notte 12/13 agosto) le 100-120 meteore/h.Occorre ricordare però che tali valori sono teorici, e che in realtà risultano sempre ben minori. Bisogna infatti tenere presente che l’area radiante (vicino alla stella Eta del Perseo) da cui sembrano provenire le meteore non è allo zenit, anzi nelle prime ore della notte è molto bassa sull’orizzonte, e che inoltre nei luoghi da cui si osserva in genere non si raggiunge la magnitudine limite di +6,5 che si riferisce a cieli praticamente ottimali trasparenti e molto scuri. In presenza di foschia o di inquinamento luminoso poi il numero delle meteore effettivamente osservabile diventa del tutto esiguo e limitato solamente a quelle più luminose. Il massimo vero e proprio di attività dello sciame è previsto quest’anno nelle ore mattutine (verso le ore 8) del 13 agosto, quando da noi sarà già giorno, ma in realtà il numero delle Perseidi dovrebbe rivelarsi abbastanza cospicuo per tutta la notte 12/13, essendo previsto che la Terra incontri degli addensamenti di particelle anche dopo la mezzanotte. Dato che l’attività dello sciame è comunque piuttosto intensa anche nelle notti precedenti e seguenti, sarà il caso di osservare per tutto il periodo, soprattutto nelle ore centrali delle notti. Tratto da Il cielo nel mesi di agosto 2015 Stefano Simoni Astronomia.com

Aurore dove non te lo aspetti

Pensavate che le aurore fossero un fenomeno tipico solo sui pianeti del nostro Sistema solare? Un gruppo di astronomi ha dimostrato il contrario utilizzando il Karl G. Jansky Very Large Array (VLA), uno dei più importanti osservatori di radioastronomia del mondo, costituito da 27 antenne radio poste in una configurazione a Y sulla Piana di San Agustin, New Mexico. L’aurora individuata dagli esperti (la scoperta è stata pubblicata su Nature) è molto simile a quello che sulla Terra chiamiamo luci del Nord, insomma l’aurora boreale, ma 10 mila volte più potente di ogni altra aurora osservata finora. Fino a qui tutto normale, potreste pensare. La particolarità della scoperta (realizzata anche nel campo ottico con il telescopio Hale in California e il telescopio Keck alle Hawaii) sta nel fatto che questa volta l’aurora non è stata osservata su un pianeta (o in questo caso un esopianeta), bensì ma su una stella di piccola massa – una nana bruna chiamata LSR J1835+3259. Secondo quanto appurato dagli scienziati, la scoperta rivela un divario tra l’attività magnetica di stelle più massicce con quella di nane brune e pianeti. «Tutta l’attività magnetica che vediamo in questo oggetto può essere spiegata da potenti aurore», ha spiegato Gregg Hallinan, del California Institute of Technology (Caltech). «Ciò indica che l’attività aurorale sostituisce l’attività coronale (simile a quella del Sole, ndr) su nane brune e oggetti più piccoli». Osservando sia in radio che nell’ottico, gli esperti hanno scoperto che l’oggetto in questione – a 18 anni luce dalla Terra – presenta caratteristiche del tutto particolari e uniche, rispetto ad altre stelle. Le nane brune vengono anche chiamate stelle mancate, perché si tratta di oggetti troppo massicci per essere un pianeta ma allo stesso tempo troppo piccoli per riuscire ad attivare la reazioni termonucleari, “il motore” delle stelle. L’atmosfera attorno a LSR J1835+3259 (nane brune e stelle molto fredde presentano un guscio esterno) è ciò che supporta l’attività aurorale. La scoperta si inserisce nella vasta attività di ricerca sui pianeti extrasolari. I ricercatori hanno affermato che l’aurora su questa particolare nana bruna sembra essere innescata da un processo dinamo simile a quello visto sui grandi pianeti del nostro Sistema solare, e quindi diverso da ciò che causa le aurore sulla Terra (cioè l’interazione del campo magnetico con in venti solari). Hallinan ha aggiunto che il fenomeno osservato su LSR J1835+3259 è simile «all’aurora su Giove (vedi Media INAF, ndr), per esempio, ma migliaia di volte più potente. Questo ci dice che potrebbe essere possibile rilevare queste attività dai pianeti extrasolari, molti dei quali sono di molto più massicci di Giove».
di Eleonora Ferroni (INAF)

L’età precisa degli ammassi fossili

Un team internazionale di astronomi è riuscito a determinare l’età delle due principali classi di ammassi stellari che orbitano intorno alla maggior parte delle galassie. La formazione di questi ammassi (cluster) di stelle è stata datata a 12.5 e 11.5 miliardi di anni fa. La scoperta è stata realizzata utilizzando un nuovo metodo per determinare l’età media delle milioni di stelle dell’ammasso (a causa della grande distanza, le singole stelle sono distinguibili solo negli ammassi della nostra galassia, la Via Lattea) tramite la strumentazione del W. M. Keck Observatory, alle Hawaii. Come si può evincere dalle datazioni, entrambe le classi di ammassi stellari si sono formati pochi miliardi di anni dopo il Big Bang (13,7 miliardi di anni fa), ma le recenti misurazioni mostrano che questi cluster – ammassi globulari – sono in realtà un po’ più giovani di quanto si pensasse. Cosa sono? Si tratta di gruppi di milioni di stelle legate fra loro dalla gravità. Le galassie, inclusa la nostra Via Lattea, ospitano centinaia/migliaia ammassi globulari. Questi oggetti sono molto robusti e molti sono sopravvissuti per oltre 10 miliardi di anni, nonostante i vari eventi distruttivi che hanno interessato il nostro Universo. Nicola Pastorello, Ph.D candidate presso la Swinburne University of Technology in Australia, spiega a Media INAF: «Gli ammassi globulari che troviamo in quasi tutte le galassie molto massicce sono di due gruppi distinti (ricchi di elementi chimici pesanti/rossi o composti principalmente di elio e idrogeno/blu). Finora nessuno è ancora riuscito a proporre una teoria valida per giustificare la presenza di questa dualità. Una delle varie proposte è che i due tipi di ammassi si formino a diverse epoche, con quelli blue molto più vecchi e formati all’inizio della vita dell’Universo e quelli rossi formati qualche miliardo di anni dopo». Il ricercatore italiano (che ha studiato e lavorato anche a Padova) ha aggiunto: «Nel nostro studio riusciamo finalmente a misurare l’età media di questi due gruppi in una dozzina di galassie, trovando che hanno età simili tra loro (quindi si potrebbero essere formati insieme), e di qualche miliardo di anni più giovani di quello che si pensava». «Pensiamo che gli ammassi globulari si siano formati insieme alle galassie, e non prima», ha spiegato il primo autore dello studio Duncan Forbes, della Swinburne University of Technology. Le recenti stime sono state effettuate usando i dati raccolti nell’ambito della survey SLUGGS (SAGES Legacy Unifying Globulars and GalaxieS) e sfruttando lo spettrografo multi-oggetto DEIMOS montato sul telescopio di 10 metri Keck II: si tratta di uno strumento in grado di catturare lo spettro di cento ammassi globulari in una singola esposizione (e pensate che per raccogliere tutte le informazioni sono stati necessari anni di osservazioni). Dagli spettri ottenuti con DEIMOS, gli esperti sono risaliti alle età degli ammassi globulari mettendo a confronto la loro composizione chimica con quella dell’Universo. Jean Brodie ha spiegato: «Abbiamo determinato che gli ammassi globulari si sono formati in media circa 1,2 e 2,2 miliardi di anni dopo il Big Bang». Aaron Romanowsky ha aggiunto: «Le nostre misurazioni ci indicano che gli ammassi globulari sono riusciti a evitare il periodo che noi chiamiamo re-ionizzazione cosmica, quando l’Universo era immerso nelle radiazioni ultraviolette, che li avrebbe distrutti». Gli astronomi ora conoscono il momento (più o meno preciso) in cui questi cluster si sono formati. Il passo successivo è scoprire dove e come si sono formati ed è proprio questo il compito e l’obiettivo della survey SLUGGS.
di Eleonora Ferroni (INAF)

Le abitudini alimentari dei buchi neri

Grazie all’analisi dei dati dell’archivio della Sloan Digital Sky Survey (SDSS), e dei telescopi spaziali XMM-Newton and Chandra, un gruppo di astronomi ha scoperto un gigantesco buco nero che sta probabilmente distruggendo e divorando una stella di grande massa che si trova nelle sue vicinanze. Con una massa pari a 100 milioni di volte quella del Sole, si tratta fino ad oggi del più grande buco nero colto in flagrante. I risultati di questo studio sono pubblicati su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society
Andrea Merloni del Max-Planck Institute for Extraterrestrial Physics (MPE), autore principale dello studio, e i membri del suo gruppo hanno esplorato l’enorme archivio di dati della SDSS in vista di una futura missione satellitare in banda X. La survey SDSS ha osservato un’ampia frazione del cielo con il suo telescopio ottico prendendo una serie di spettri di galassie e buchi neri distanti. Per una serie di motivi, gli scienziati hanno ottenuto gli spettri di alcuni oggetti più volte. Ora, nel momento in cui il gruppo stava analizzando uno degli oggetti ripreso con spettri multipli, noto con la sigla SDSS J0159+0033, una galassia nella costellazione della Balena alla distanza di circa 3,5 miliardi di anni luce dalla Terra, i ricercatori rimasero colpiti da uno straordinario cambiamento.
«Di solito, le galassie distanti non mostrano variazioni significative nel corso della loro vita, cioè su tempi scala dell’ordine di anni o decine di anni», spiega Merloni. «Ma questa ha mostrato una variazione drammatica del suo spettro come se il suo buco nero si fosse acceso e spento». Ciò è accaduto tra il 1998 e il 2005 ma nessuno aveva notato lo strano comportamento fino allo scorso anno, quando due gruppi di ricercatori che stavano preparando la prossima (quarta) generazione delle survey SDSS si imbatterono indipendentemente nei dati.
Per fortuna, i due maggiori osservatori spaziali X, XMM-Newton dell’ESA e Chandra della NASA, osservarono la stessa area di cielo abbastanza vicina all’istante di tempo in cui si è avuto il flare e poi di nuovo circa dieci anni più tardi. Ciò ha permesso agli astronomi di avere un’informazione unica sull’emissione di alta energia che rivela come la materia viene processata nelle immediate vicinanze del buco nero centrale.
I buchi neri di grossa taglia risiedono nei nuclei delle galassie più grandi. Gli scienziati ritengono che la loro crescita ed evoluzione, che ha permesso di raggiungere le dimensioni attuali, è stata dovuta ai processi di accrescimento del gas interstellare che non può sfuggire alla loro immensa attrazione gravitazionale. Questo processo ha luogo nel corso di un tempo alquanto lungo (da 10 a 100 milioni di anni) ed è in grado di trasformare un buco nero di “piccola taglia”, creatosi a seguito dell’esplosione stellare di una stella massiccia, in un oggetto mostruoso supermassiccio che risiede nei nuclei delle galassie.
Sappiamo che le galassie contengono un elevato numero di stelle ma alcune di esse, quelle più sfortunate, possono passare nelle vicinanze del buco nero centrale: qui esse vengono distrutte e alla fine “divorate” dal mostro. Se il buco nero è abbastanza compatto, le forti interazioni mareali fanno letteralmente a pezzi la stella in modo spettacolare. Ciò che rimane di essa continua a spiraleggiare attorno al buco nero e produce enormi brillamenti di radiazione (flare) che possono raggiungere una luminosità pari a quella di tutte le stelle della galassia ospite per un periodo di tempo che va da qualche mese a un anno. Questi eventi rari vengono chiamati TDF che sta per Tidal Disruption Flares.
Merloni e i suoi collaboratori pubblicarono immediatamente i loro dati affermando che il “loro” flare era quasi in perfetto accordo con le previsioni del modello. In più, data la natura casuale della scoperta, essi sottolinearono il fatto che si trattava di un sistema ancora più particolare di tutti quelli che erano stati trovati fino ad ora attraverso le ricerche attive. Con una massa stimata di 100 milioni di masse solari, stiamo avendo a che fare con il più grosso buco nero osservato nell’atto di distruzione di una stella.
Tuttavia, la dimensione del sistema in questione non è il solo aspetto intrigante di questo particolare flare ma è anche il primo per cui gli scienziati possono essere abbastanza certi che il buco nero sia rimasto di recente a “dieta di gas” (cioè alcune decine di migliaia di anni). Si tratta di un indizio importante che ci permette di comprendere di quale tipo di “cibo” si alimentano per lo più i buchi neri.
«Louis Pasteur diceva: ‘La fortuna favorisce una mente preparata’, ma nel nostro caso nessuno era davvero preparato», dice Merloni. «Avremmo potuto trovare questo oggetto unico già dieci anni fa ma gli astronomi non sapevano dove guardare. E’ alquanto comune in astronomia che il progresso verso la comprensione del cosmo viene spesso aiutato da scoperte casuali. Ora abbiamo un’idea migliore di come individuare altri eventi di questo tipo e gli strumenti futuri espanderanno notevolmente la nostra abilità di ricerca».
Tra meno di due anni, un nuovo potente telescopio per raggi X, eROSITA, attualmente in fase di costruzione al MPE, sarà messo in orbita sul satellite russo-tedesco SRG. Il telescopio osserverà l’intero cielo con una sensibilità adeguata per scoprire centinaia di eventi di distruzione mareale come nel suddetto caso. Grandi telescopi ottici stanno per essere concepiti e costruiti allo scopo di monitorare il “cielo variabile” e contribueranno enormemente alla soluzione del mistero di quelle che sono le abitudini alimentari dei buchi neri. Gli astronomi dovranno essere preparati per catturare questi eventi drammatici della vita di una stella ma anche quando essi saranno pronti, il cielo riserverà comunque nuove sorprese.
di Corrado Ruscica (INAF)

La Nave Argo nasconde un carico di stelle

È l’unica fra le 48 costellazioni elencate da Tolomeo a non essere più ufficialmente riconosciuta come tale. Divisa nel 1752 dal francese Nicolas Louis de Lacaille in tre parti: la carena, la poppa e le vele. Era la più vasta costellazione del cielo e se ricomposta sommando i confini delle costellazioni in cui è stata smembrata, avrebbe un’estensione di 1800 gradi quadrati di volta celeste. La nave Argo è stata un punto di riferimento nel cielo dell’antichità. Quello che non sapevamo è che la celebre imbarcazione usata da Giasone e gli Argonauti nella ricerca del vello d’oro, nasconde un ricco tesoro nascosto nella sua stiva. A scoprirlo l’osservatorio spaziale Akari, dell’Agenzia spaziale giapponese JAXA. Si tratta di un nugolo di stelle in formazione, avvolto nella coltre di polvere che è parte del mezzo interstellare e localizzato nell’attuale Carena, la chiglia della nave Argo. Punti luminosi mostrano nuclei densi a poche decine di anni luce: gomitoli di polvere dove la gravità sta incubando nuove stelle. Invisibili nelle lunghezze d’onda dell’ottico – la luce viene fermata dalla pesante coltre di polvere del mezzo interstellare – ma evidenti nel lontano infrarosso. In questa bella immagine raccolta da Akari, e appena diffusa dall’Agenzia Spaziale Europea, le basse temperature della polvere segnalano l’emissione di radiazioni nel lontano infrarosso. L’immagine colorata artificialmente è costituita da tre bande nel lontano infrarosso: la blu che rappresenta la lunghezza d’onda di 65 micrometri, la verde che corrisponde ai 90 micrometri, la rossa che corrisponde ai 140 micrometri. L’immagine fa parte della survey completa della volta celeste recentemente completata da Akari. Si tratta della prima nel lontano infrarosso dai tempi dell’Infrared Astronomical Satellite (IRAS) lanciato da Stati Uniti, Regno Unito e Paesi Bassi nell’ormai lontano 1983. La release completa dei dati IRAS è avvenuta dieci anni dopo, nel 1993, e da allora gli astronomi non hanno potuto avvalersi di altri dati. Con Akari la comunità scientifica può avvalersi di dati finalmente aggiornati e con maggiore qualità di dettaglio, perché contempla anche lunghezze d’onda maggiori rispetto alla precedente. La survey Akari ha raccolto dati per una superficie totale superiore al 99% del cielo visibile, in 16 mesi di attività. Le immagini della volta celeste hanno una risoluzione di 1-1,5 minuti d’arco, in quattro lunghezze d’onda: 65, 90, 140 e 160 micrometri. Akari è già la seconda missione spaziale nell’astronomia infrarossa realizzata dall’Istituto di Scienze Spaziali e Astronautiche dell’Agenzia spaziale giapponese JAXA, questa volta in collaborazione con l’Agenzia Spaziale Europea.
di Davide Coero Borga (INAF)

Caronte e la montagna sprofondata

Ogni giorno una nuova emozione con New Horizons e sarà così ancora per molti mesi. La sonda della NASA (lanciata nove anni fa alla volta di Plutone) invia dati e immagini uniche che ci fanno conoscere nel dettaglio il pianeta nano Plutone e il sistema delle sue lune. In particolare questa volta il protagonista è Caronte, il satellite naturale più grande e quello che col pianeta nano (è stato declassato nel 2006) forma una sorta di sistema binario (le altre lune – alcune dalla forma bizzarra – sono più piccole).

La luna Caronte, che con Plutone forma una sorta di sistema binario. Crediti: NASA-JHUAPL-SwRI

In questa straordinaria immagine, la sonda della NASA ci mostra uno zoom su Caronte e sulla sua superficie, che presenta delle caratteristiche particolari, come un grande numero di crateri. Quello che più ha sorpreso gli esperti del JPL (California) è una montagna sorta all’interno di una enorme fossa (una depressione nel terreno con un picco al centro). Nell’inserto è possibile vederla nell’angolo in alto a sinistra.
L’immagine elaborata dalla NASA mostra un’area di circa 390 chilometri dall’alto in basso ed è solo un’anteprima di quanto sarà possibile vedere sul resto della superficie di Caronte. Purtroppo questa è un’immagine fortemente compressa (risale al 14 luglio), ma versioni più nitide verranno pubblicate quando i dati full-fidelity dello strumento LORRI (Long Range Reconnaissance Imager) arriveranno a terra.
di Eleonora Ferroni (INAF)

Gaia vince il jackpot stellare

Il satellite Gaia ha scoperto un sistema binario estremamente raro, in cui una stella “mangia” l’altra, ma nessuna delle due contiene idrogeno, l’elemento più comune nell’Universo. Il sistema potrebbe essere uno strumento importante per capire come le stelle binarie esplodano al termine della loro vita. Un team internazionale di ricercatori, con la collaborazione di alcuni astrofili, ha scoperto un sistema binario molto peculiare: il primo di questo tipo in cui una stella eclissa completamente l’altra. Si tratta di sistema classificabile come Variabile Cataclismica, ovvero una coppia di stelle formata da una nana bianca che attira a sé gli strati esterni della sua stella compagna, di fatto canniabalizzandola. Il sistema binario, che è stato chiamato Gaia14aae, potrebbe anche essere un importante  laboratorio per studiare le esplosioni di supernova utilizzate per stimare le distanze cosmiche e quindi per misurare l’espansione dell’Universo. I dettagli di questa ricerca saranno pubblicati sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society e sono disponibili a questo link. Gaia14aae si trova a circa 730 anni luce di distanza da noi nella costellazione del Dragone. È stato scoperto dal satellite Gaia dell’Agenzia Spaziale Europea nel mese di agosto 2014, quando ha aumentato improvvisamente la propria luminosità diventando cinque volte più brillante nel corso di una sola giornata. Gli astronomi guidati da Heather Campbell dall’Università di Cambridge hanno analizzato i dati provenienti da Gaia e hanno determinato che l’esplosione improvvisa era dovuta al fatto che la nana bianca, un corpo celeste così denso che un cucchiaino del materiale che lo compone pesa quanto un elefante, sta divorando la sua grande compagna. Ulteriori osservazioni effettuate dal Center for Backyard Astrophysics, una collaborazione di astrofili e professionisti, hanno mostrato che Gaia14aae è una binaria a eclisse molto rara, in cui, dal nostro punto di osservazione, una stella passa davanti all’altra oscurandola completamente. Le due stelle orbitano una attorno all’altra molto rapidamente, così che si verifica un’eclissi totale all’incirca ogni 50 minuti. «È raro vedere sistemi binari così ben allineati», ha dichiarato Heather Campbell dell’Istituto di Astronomia di Cambridge, che ha guidato la campagna di osservazioni successiva alla scoperta per Gaia14aae. «Grazie a questa peculiarità, possiamo ottenere stime molto precise di alcuni parametri fisici del sistema, e quindi comprendere meglio come sono fatti e come evolvono questi corpi celesti. È un sistema interessante, c’è molto da imparare da lui». Utilizzando i dati spettroscopici raccolti dal William Herschel Telescope nelle Isole Canarie, Campbell e i suoi colleghi hanno scoperto che Gaia14aae contiene grandi quantità di elio, ma nessuna traccia di idrogeno, il che è molto insolito considerando che l’idrogeno è l’elemento più comune nell’Universo. La mancanza di idrogeno ha permesso di classificare Gaia14aae come un rarissimo tipo di sistema AM Canum Venaticorum (AM CVN), che a sua volta fa parte della classe delle Variabili Cataclismiche, sistemi in cui entrambe le stelle hanno perso tutto il loro idrogeno. Questo è il primo sistema di tipo AM CVn per il quale si osserva una delle due stelle eclissare totalmente l’altra. «È molto interessante il fatto che la prima scoperta di un sistema con queste caratteristiche arrivi alla comunità scientifica grazie alla segnalazione di un gruppo di astrofili», ha detto Campbell. «Questo mette in evidenza il contributo vitale che gli astronomi dilettanti forniscono alla ricerca scientifica». I sistemi del tipo AM CVn sono composti da una nana bianca, una stella piccola, densa e calda che sta letteralmente divorando la sua compagna più grande. Gli effetti gravitazionali della nana bianca sono così forti che costringe la stella compagna a gonfiarsi come un pallone e spostarsi inesorabilmente verso di lei. La stella compagna ha un volume pari a circa 125 volte quello del Sole, e dunque domina la nana bianca, che ha dimensioni simili alla Terra (all’incirca come il confronto tra una mongolfiera e una biglia). Tuttavia, la stella compagna è leggera: contiene solo l’1% della massa della nana bianca. I sistemi binari AM CVn sono di grande interesse per gli astronomi, poiché potrebbero fornire la chiave per svelare uno dei più grandi misteri dell’astrofisica moderna, ovvero ciò che provoca esplosioni di supernova di tipo Ia. Questa tipologia di supernova è importante in astrofisica perché produce un picco di luminosità di cui conosciamo il valore assoluto, e questo la rende uno strumento importante per misurare le distanze cosmiche, e dunque l’espansione dell’Universo. Nel caso di Gaia14aae, non sappiamo se le due stelle si scontreranno causando l’esplosione di una supernova, o se la nana bianca farà in tempo a divorare tutta la sua compagna prima che questo evento esplosivo possa accadere. «Questo è un sistema eccezionale: un rarissimo sistema binario in cui le orbite delle stelle completano un’orbita più velocemente della lancetta dei minuti di un orologio, e in più sono orientate in modo da eclissarsi l’un l’altra», ha detto Tom Marsh dell’Università di Warwick. «Saremo in grado di misurare le loro dimensioni e le masse con una precisione superiore a qualsiasi sistema di questo tipo. Ciò è molto promettente e crea aspettative molto alte sulle prossime scoperte del satellite Gaia». «Si tratta di un incredibile primato per Gaia, e vogliamo che sia il primo di molti», ha detto Simon Hodgkin dell’Istituto di Astronomia di Cambridge, che sta conducendo la ricerca di altre sorgenti variabili, o transienti, nei dati Gaia. «Gaia ha già trovato centinaia di transienti nei suoi primi mesi di attività, e sappiamo che ce ne sono ancora molte da scoprire». «Questa scoperta dei colleghi Inglesi», dice Mario Lattanzi dell’INAFOsservatorio Astronomico di Torino, responsabile della partecipazione italiana alla missione Gaia «ovvero un sistema simbiotico dalle caratteristiche uniche, dimostra la capacità di Gaia, qui nella sua veste di “guardiano della Via Lattea”, e del sistema di processamento realizzato nell’ambito del consorzio Europeo DPAC (Data Processing and Analysis Consortium), di rilevare sistemi variabili (come nel caso dei lavori scientifici a rilevante partecipazione INAF di cui avevamo dato notizia lo scorso giugno, n.d.r.) e di darne rapida comunicazione alla rete di telescopi, tra cui anche strutture amatoriali, che partecipano allo sforzo per la conferma e le prime caratterizzazioni spettroscopiche di dettaglio. Nonostante alcuni difetti riscontrati durante la calibrazione in orbita, il cui impatto è stato brillantemente minimizzato grazie allo sforzo dei team del DPAC, anche Italiani, il satellite è ormai al top delle sue potenzialità in modalità scientifica». «In questo senso», prosegue Lattanzi «l’Universo degli oggetti variabili (che siano parte del Sistema Solare, stelle di ogni tipo e natura, sistemi planetari più o meno vicini oppure oggetti extragalattici), è fin dal principio del suo concepimento uno dei casi scientifici  più importanti della missione Gaia, da cui ci si aspettano le scoperte più curiose e inaspettate. Basta ricordare che il nostro “guardiano” continuerà per altri quattro anni almeno a riosservare, in media, la stessa zona della nostra Galassia più di una volta al mese. Bisogna allora prepararsi alle tante nuove meravigliose novità di cui Gaia ci dirà nel futuro… L’occhio di Gaia ne vedrà delle belle!». L’obiettivo principale della missione Gaia, finanziata dall’Agenzia Spaziale Europea (ESA) e coinvolge scienziati di tutta Europa, è quello di fornire la più vasta e precisa mappa tridimensionale della Via Lattea. Durante i cinque anni della sua attività nominale, che ha avuto inizio alla fine del 2013, la camera da un miliardo di pixel di Gaia osserverà e misurerà con estrema precisione il moto delle stelle e le loro orbite attorno al centro della galassia. Punterà i suoi strumenti su ogni stella circa un centinaio di volte, aiutandoci a comprendere l’origine e l’evoluzione della Via Lattea. La ricerca è stata realizzata dai team Gaia dell’ESA, DPAC, e il DPAC Photometric Science Alerts. Il DPAC è finanziato da istituzioni nazionali, in particolare quelle istituzioni che partecipano dell’accordo multilaterale Gaia. La partecipazione Italiana a Gaia vede la presenza di numerose sedi INAF ed è cofinanziata dall’ASI
di Elisa Nichelli (INAF)

Plutone e le sue lune: che spettacolo!

E’ come se noi fossimo lì, a quasi cinque miliardi di chilometri dalla nostra casa, la Terra: davanti ai nostri computer, tv o smartphone abbiamo lo storico privilegio di poter ammirare Plutone e i suoi satelliti come mai nessuno aveva potuto. La NASA ha da poco rilasciato queste prime, spettacolari immagini del pianeta nano e dei suoi compagni di viaggio nel Sistema solare, prese dalla sonda New Horizons.

Un dettaglio dells superficie di Plutone
ECCO PLUTONE – La prima immagine presa il 13 luglio scorso dal Long Range Reconnaissance Imager (LORRI) ci mostra Plutone alla distanza di 768.000 chilometri da New Horizons. Questa è l’ultima e più dettagliata ripresa del corpo celeste inviata a Terra prima del flyby del 14 luglio.
LE MONTAGNE DI PLUTONE – Ebbene, anche Plutone ha le sue montagne. Eccole emergere fino a un’altitudine di 3.500 metri in questo dettaglio preso in prossimità della regione equatoriale del pianeta nano. Probabilmente queste catene montuose si sono formate circa 100 milioni di anni fa, un’inezia rispetto all’età del Sistema solare, stimata in 4,56 miliardi di anni.
«L’immagine ad alta risoluzione di Plutone mostra due aspetti estremamente significativi: l’assenza di crateri e “montagne” piuttosto rilevate (4000m)» commenta Fabrizio Capaccioni, ricercatore dell’INAF-IAPS. «Nel primo caso la mancanza di crateri indica una superficie giovane, almeno più giovane di 100 milioni di anni. Non ci sono fenomeni mareali su Plutone che possano giustificare una attività interna, quindi dobbiamo aspettarci che il calore sia generato da elementi radioattivi nel nucleo e mantello. Da questo si ricava che l’attività interna deve essere intensa e causa un ringiovanimento della superficie attraverso la presenza di vulcani. Viste le temperature cosi basse (40 kelvin o meno) questi non sono vulcani come li immaginiamo ma criovulcani, ovvero una sorta di geysers che, a causa della sublimazione dei gas nella crosta interna (o mantello), producono eruzioni di elementi volatili (molecole di azoto, metano, monossido di carbonio) che poi si ridepositano sulla superficie, formando una crosta sottile, o si disperdono nell’atmosfera. Questo ci porta alla secondo aspetto interessante, la presenza di montagne di 4000m può essere sostenuta soltanto da un materiale più consistente di ghiaccio di metano o azoto, ovvero ghiaccio d’acqua. Questo fa intuire che la crosta di materiali volatili può essere soltanto una crosta sottile che ricopre una crosta con abbondanza di ghiaccio d’acqua».
CARONTE, COSI’ VARIEGATO Questa ripresa di Caronte, la luna maggiore del sistema di Plutone, sempre ottenuta da LORRI il 13 luglio scorso da una distanza di 466.000 chilometri, mostra una serie di fratture sulla crosta del corpo celeste che si estendono per centinaia di chilometri, formando profondi canyon. Nonostante il livello di dettaglio, che permette di osservare strutture delle dimensioni di 5 chilometri, l’immagine è molto compressa. Quella a piena risoluzione verrà inviata a Terra in un secondo momento.
Altre informazioni arrivano dallo strumento Ralph che ha iniziato a tracciare una mappa della distribuzione del metano ghiacciato sulla superficie di Plutone, che risulta alquanto diseguale tra le regioni polari e quelle equatoriali e una immagine della piccola luna Idra. Seppure apparentemente sgranata, è la più dettagliata ripresa del corpo celeste che misura appena 43 chilometri per 33. Questo è solo il primo assaggio dei moltissimi dati scientifici e immagini che New Horizons ha iniziato a inviarci e grande è la soddisfazione del team NASA che ha partecipato alla conferenza stampa conclusasi qualche minuto fa. Il trasferimento dei dati a Terra sarà un processo molto lungo, che richiederà molti mesi per essere completato. Ma l’attesa, c’è da scommetterci, sarà sicuramente ripagata…
di Marco Galliani (INAF)

Un ponte di materia oscura tra il Gruppo Locale e l’Ammasso della Vergine

Utilizzando i migliori dati disponibili per il monitoraggio del traffico galattico, Noam Libeskind del Leibniz Institute for Astrophysics Potsdam (AIP) e i suoi collaboratori hanno costruito una mappa dettagliata del moto delle galassie nei nostri dintorni. Nella loro ricerca hanno scoperto un ponte di materia oscura che si estende dal nostro Gruppo Locale fino all’ammasso della Vergine, un enorme ammasso contenente circa 2.000 galassie a 50 milioni di anni luce da noi. Il ponte di materia oscura sembrerebbe essere legato ai due estremi da grandi bolle completamente prive di galassie. Questo ponte e questi vuoti ci aiutano a chiarire un problema di almeno 40 anni che riguarda la curiosa distribuzione delle galassie nane. Le galassie nane si trovano spesso in orbita attorno a massicci “padroni di casa”, come ad esempio la nostra Via Lattea. Dal momento che la loro luminosità è debole, sono difficili da individuare, perciò quelle che osserviamo si trovano quasi esclusivamente nel nostro  vicinato cosmico. Un aspetto particolarmente affascinante della loro esistenza è che nei pressi della Via Lattea e di almeno due dei nostri vicini più prossimi (le galassie Andromeda e Centaurus A) queste galassie satelliti non si muovono lungo traiettorie casuali, ma mostrano orbite ampie e piatte. Tali strutture non sono dunque il semplice risultato del modello di materia oscura fredda, ritenuto dalla maggior parte dei cosmologi il responsabile della formazione di galassie nell’universo. Secondo il modello di materia oscura fredda, infatti, le galassie nane dovrebbero disporsi lungo orbite casuali. Queste galassie nane sono dunque una sfida alle attuali conoscenze. Una possibilità è che queste piccole galassie ripetano la geometria della struttura osservata su scale molto maggiori. «Per la prima volta abbiamo una verifica osservativa del fatto che esistano grandi autostrade di forma filamentosa lungo le quali si canalizzano le galassie nane, che attraversano il cosmo lungo maestosi ponti di materia oscura», dice Libeskind. Lungo queste strutture le galassie satelliti possono essere incanalate e muoversi verso la Via Lattea, Andromeda e Centaurus A. «Il fatto che questo ponte galattico possa influenzare le galassie nane intorno a noi è impressionante, data la differenza di scala fra i due: le orbite delle galassie satelliti hanno dimensioni pari a circa l’1% del ponte galattico verso l’ammasso della Vergine».
di Elisa Nichelli (INAF)

Le scoperte che hanno cambiato la scienza

Siete curiosi di sapere quali sono le scoperte che hanno scoperto la scienza (almeno finora)? E come state accolte dalla comunità scientifica? Michael Brooks, giornalista e divulgatore, ci accompagna in questo viaggio affascinante con il suo libro “Oltre il limite, 11 scoperte che hanno rivoluzionato la scienza”, in Italia pubblicato da Codice Edizioni in collaborazione con “Le Scienze” (pp 241, euro 17,90). Tra i suoi libri più famosi ricordiamo anche “Tredici cose che non hanno senso”. L’atomo, il Big Bang, il DNA, la selezione naturale. Queste e molte altre sono le idee che hanno rivoluzionato la scienza, ma che in un primo momento sono state guardate con diffidenza (per usare un eufemismo) dal mondo accademico e dalla comunità scientifica. Attraverso undici nuove prospettive, Brooks ci porta – capitolo dopo capitolo – verso le frontiere estreme di ciò che noi chiamiamo mondo, di ciò che noi chiamiamo universo. Scritto con il tono accattivante tipico di un conduttore radiotelevisivo quale è Brooks e con la competenza dell’ottimo divulgatore, il libro vuole rendere giustizia alle undici scoperte radicali ma incomprese senza le quali – forse – il presente sarebbe diverso e il futuro ancora più incerto. Forse la frase che meglio riassume il lavoro di Brooks è “il senso comune non è una guida utile alla realtà”. Le domande sono ancora tante, molte rimarranno senza risposta, ma proprio per questo vale la pena tentare. E allora Brooks racconta come l’uomo sia arrivato agli studi sulla coscienza definendo diversi modelli anche sul funzionamento del nostro cervello, oppure quanto sia fondamentale per l’uomo il rapporto sociale che viene a crearsi (senza un apparente motivo) con altri simili ma in realtà sconosciuti. E ancora il dilemma filosofico delle combinazioni di tessuto umano con quello animale definito da Brooks “chimera” o la sorprendente constatazione che il tempo come noi lo viviamo possa essere in realtà un’illusione. Il giornalista – che collabora con “New Scientist” e “Guardian” – non si limita alle questioni filosofiche, ma cerca di spiegare qual è il nostro ruolo all’interno dell’universo, quello che lui chiama “l’enorme computer”. Il concetto, di per sé, è difficile da spiegare oltre che da capire e anche la teoria del Big Bang (per quanto ormai acclarata tra gli accademici) potrebbe non bastare per rispondere alle nostre domande. Secondo Brooks, uno dei modelli cardine per spiegare come l’universo sia divenuto quello che è oggi, è la teoria della cosmologia inflazionaria, per cui il fisico Alan Guth ha vinto il Fundamental Physics Prize (diciamo il cugino del Premio Nobel per la Scienza). Molti – anzi, meglio dire fin troppi – fisici hanno sostenuto nel corso degli anni che questa teoria crei più problemi di quanti ne risolva, scrive Brooks nel capitolo “L’universo si complica”. E ciò non deve stupirci, visto che anche “il bosone di Higgs, colonna portante della visione standard della fisica – si legge in un passo del libro – sta creando qualche difficoltà”. Il viaggio nell’ignoto è insidioso e difficile è trovare l’uscita. Non sempre le grandi intuizioni degli scienziati o dei pensatori (che Brooks definisce “romantici”) portano a delle scoperte, e anche quando lo fanno a volte la natura umana è restia ad accettare i cambiamenti, per questo li rigetta per mantenere lo status quo. “Le idee audaci sono pedoni mossi in avanti su una scacchiera. Possono essere eliminate, ma possono anche dare inizio a un gioco vincente”. Questa la citazione di Goethe con cui Michael Brooks sceglie di aprire il libro svelandoci così – dalla prima pagina – il senso profondo. E conclude il libro scrivendo: “Ma c’è spazio per tutti: l’avventura è appena cominciata”.
Buona lettura!
di Eleonora Ferroni (INAF)

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