Che tipo di pianeta ci vuole per ET?

La ricerca di intelligenze extraterrestri basata su argomenti scientifici è cominciata verso la fine degli anni ‘50. Si conoscevano ormai abbastanza bene i meccanismi di formazione ed evoluzione delle stelle, per poter affermare che la formazione di un sistema planetario doveva essere un fenomeno comune. Inoltre, la tecnica radioastronomica era già abbastanza sviluppata per poter captare eventuali segnali radio emessi da altre civiltà distanti qualche decina di anni luce. Si sarebbe potuto anche pensare di captare segnali luminosi artificiali, ma questi sono soggetti all’estinzione da parte delle polveri interstellari e all’assorbimento da parte di un cielo coperto di nubi, tutti ostacoli ignoti alle radioonde. Ammesso quindi che le eventuali civiltà extraterrestri abbiano più o meno le stesse nostre conoscenze o conoscenze più avanzate, cercheranno di mandarci segni della loro esistenza usando le radioonde. Inoltre, poiché fra le radioonde una delle più studiate è la riga di 21 centimetri dell’idrogeno, potrebbero scegliere proprio questa lunghezza d’onda per avere una maggiore probabilità che un osservatore terrestre si accorga di segnali modulati – una specie di alfabeto Morse – sovrapposti ai segnali naturali emessi dal gas galattico.
In base a questi ragionamenti, esposti da Giuseppe Cocconi e Philip Morrison in un articolo apparso sulla rivista Nature il 19 settembre 1959, il radioastronomo americano Frank Drake pensò di utilizzare il nuovo radiotelescopio di 25 metri di diametro dell’osservatorio radioastronomico nazionale degli Stati Uniti, situato a Green Bank in West Virginia. Il progetto di Drake prese il nome di OZMA […]
Per fare una stima, sia pure molto grossolana, di quante civiltà possano esistere nella nostra Via Lattea, Drake scrisse un’equazione diventata famosa: N=RfpnifvfifcD dove N è il numero delle civiltà presenti oggi nella Via Lattea, R è il tasso medio di formazione di stelle durante tutta la vita della Via Lattea, e che si ottiene dividendo il numero di stelle galattiche (circa 300 miliardi) per l’età della Galassia (circa 15 miliardi di anni), fp rappresenta la frazione di stelle con un sistema planetario, ni il numero di pianeti, in ciascun sistema, con condizioni adatte allo sviluppo della vita, fv la frazione di pianeti adatti in cui la vita si sviluppa effettivamente e si evolve verso forme molto complesse, fi la frazione di questi pianeti in cui si sviluppano forme di vita intelligente, fc la frazione di questi in cui le forme di vita intelligente sviluppano interesse per le comunicazioni interstellari e infine D la durata media di una civiltà tecnologicamente avanzata.
In questa equazione l’unico termine abbastanza sicuro è R. Inoltre si possono escludere tutte le stelle doppie o multiple, i cui eventuali pianeti avrebbero orbite fortemente perturbate dalla presenza della o delle compagne e inoltre anche le stelle di grande massa e alta luminosità, che hanno una vita troppo breve per permettere lo sviluppo di forme di vita avanzate. Potremo stimare che 1/3 delle stelle galattiche siano singole e di massa solare o più piccola. Per esempio Drake suppone che, come nel nostro sistema solare, ci sia attorno ad una stella un solo pianeta adatto alla vita; e che là dove ci sono condizioni adatte allo sviluppo della vita questa evolva sempre naturalmente verso forme di vita intelligente. Ciò equivale a porre fv=fi=1. Ma non è detto che tutte le forme di vita intelligente diventino tecnologicamente avanzate e soprattutto interessate allo sviluppo di comunicazioni interstellari.
Drake assume fc=0,01, cioè solo 1 su 100 civiltà è interessata o ha sviluppato tecnologia atta a comunicare con altri sistemi planetari. Infine l’altra incognita è D. Quanto può durare una civiltà tecnologicamente avanzata? La nostra ha poco più di 100 anni e le tecniche per captare segnali extrasolari hanno meno di cinquant’anni. Potrà durare secoli o millenni, o anche molto meno. Dipende dalla nostra capacità di rispettare l’ambiente e di non avviarci verso catastrofi nucleari o verso la distruzione dell’ambiente per eccesso di tecnologia. […]
Drake assume D=10.000 anni . Facendo i conti risulta N=20 X 0,3 X 1 X 1 X 1 X 0,01 x 10.000 = 600. Cioè nella Galassia esisterebbero 600 civiltà in grado di comunicare con noi.
Date le ipotesi fatte è un conto estremamente incerto, ma comunque Drake e con lui i più appassionati fautori del progetto SETI (Search for Extra-Terrrestrial Intelligence), hanno perseverato in questa ricerca che qualcuno (ottimista) ha paragonato alla ricerca di una bottiglia con un messaggio nell’oceano. In realtà l’impresa è molto ma molto più ardua. Malgrado ciò l’Unione Astronomica Internazionale ha fondato un’apposita commissione dedicata alla bioastronomia di cui fanno parte astronomi e biologi.
Alcune condizioni necessarie alla vita
Vi è un certo numero di condizioni cui un sistema solare dovrebbe soddisfare perché vi si possa sviluppare la vita. Naturalmente se facciamo l’ipotesi (assai probabile vista la grande uniformità di leggi fisiche e di composizione chimica nell’universo, ma non certa al cento per cento) che sia simile a quella che conosciamo sulla Terra.
Condizioni imposte alla stella centrale:
La stella centrale dovrebbe essere singola. Un sistema di stelle doppie o multiple impedirebbe lo stabilirsi di orbite planetarie stabili.
Il sistema planetario dovrebbe contenere pianeti di massa notevolmente inferiore a Giove.
La stella non dovrebbe appartenere alla prima generazione di stelle galattiche, perché in tal caso la materia da cui essa e i suoi pianeti si sarebbero formati non conterrebbero sufficienti quantità di carbonio, azoto, ossigeno, zolfo, fosforo, ferro necessari per la formazione di composti biochimici.
La massa della stella dovrebbe essere compresa grosso modo fra 0,5 e 2 masse solari. Stelle di massa maggiore avrebbero vita troppo breve per permettere l’evoluzione di forme di vita tecnologicamente avanzate. Stelle di massa più piccola non emettono energia sufficiente ad alimentare la vita anche sui pianeti più vicini al proprio Sole. […]
Condizioni a cui devono sottostare i pianeti:
La massa dovrebbe essere abbastanza grande da trattenere un’atmosfera contenente gli elementi base della vita, idrogeno, carbonio, azoto, ossigeno, ma non troppo come è il caso di Giove, perché l’eccesso di idrogeno distruggerebbe le molecole biochimiche.
L’orbita del pianeta dovrebbe essere quasi circolare per evitare variazioni troppo forti di temperatura e illuminamento e a una distanza tale da mantenere la temperatura media del pianeta a valori accettabili (fra circa -20° e +70°).
L’atmosfera dovrebbe essere tale da permettere la formazione di molecole e da proteggere il suolo dalla radiazione ultravioletta.
Ci dovrebbe essere abbondante quantità di acqua allo stato liquido. […]
E’ necessaria anche una superficie solida perché le complesse molecole dette monomeri si trasformino in polimeri.
Tutte queste condizioni sono ricalcate esattamente sulle condizioni riscontrate sulla Terra. Ma non tutti i bioastronomi sono d’accordo. Una piccola minoranza pensa che la vita non debba necessariamente avere la stessa origine ed essere ovunque basata su RNA e DNA.
Secondo loro dunque la vita potrebbe essere molto più diffusa di quanto ritiene la maggioranza perché non sarebbe necessariamente soggetta a tutte le restrizioni che le nostre forme di vita terrestre richiedono.
[…] Fra l’altro essi non escludono la possibilità di forme di vita in un liquido diverso dall’acqua come per esempio l’ammoniaca e una vita basata sul silicio invece che sul carbonio.
Alla ricerca di segnali extraterrestri
Dopo il primo tentativo di Drake, il progetto OZMA del 1959, ne sono stati fatti molti altri soprattutto da parte di ricercatori americani e sovietici.
Drake osservò per tre mesi e per un totale di 200 ore due stelle abbastanza vicine Tau Ceti e Epsilon Eridani, un poco più fredde del Sole, e a circa 12 e a 11 anni luce rispettivamente. Da allora ad oggi le osservazioni fatte con vari strumenti e in vari osservatori ammontano a più di 200.000 ore equivalenti a osservazioni continuate per 23 anni. Frattanto il progresso tecnologico ha reso molto più efficienti questi mezzi.
[…] I tentativi continuano e il progetto che li ingloba prende il nome di SETI. Si tratta di puntare sistematicamente tutti i più potenti radiotelescopi verso tutte le stelle di tipo solare entro un raggio di 100 anni luce dal Sole per cercare di registrare eventuali segnali radio modulari. […]
Il risultato per ora è negativo. D’altra parte la probabilità di successo è minima non solo per le grandi distanze, ma soprattutto per quella che si chiama la “finestra temporale”. Per capirsi occorrerebbe essere circa allo stesso grado di sviluppo. Sulla Terra le grandi civiltà risalgono a più di 5000 anni fa ma la civiltà tecnologica ha poco più di un secolo. Anche meno di 100 anni fa non saremmo stati in grado di captare segnali radio extraterrestri.
“Alla ricerca di intelligenze extraterrestri” da: L’Universo nel terzo millennio (nuova edizione aggiornata) di Margherita Hack) pagine 113 – 120

Due stelle per un pianeta? Forse sono troppe

Pianeti extrasolari? Non cercateli intorno alle coppie di stelle molto vicine tra loro. Secondo un nuovo studio basato su osservazioni del telescopio spaziale Spitzer della NASA e pubblicato qualche giorno fa in un articolo della rivista The Astrophysical Journal Letters, le stelle binarie “compatte” probabilmente non sono il posto ideale dove trovare pianeti ospitali per la vita.Spitzer, che opera nella banda della radiazione infrarossa, ha infatti scoperto una sorprendente quantità di polvere attorno a tre coppie di stelle in avanzata fase evolutiva. Gli astronomi ritengono che questa polvere potrebbe essere ciò che rimane di alcuni pianeti un tempo orbitanti attorno ai sistemi stellari, letteralmente sbriciolati in seguito a tremende collisioni.
Le collisioni tra pianeti sono eventi catastrofici tutt’altro che rari e teoricamente è possibile che questi urti avvengano tra pianeti potenzialmente abitabili e qualora fosse presente una qualsiasi forma di vita, questa risulterebbe annientata.
Le stelle doppie oggetto di questo studio sono veramente vicinissime. Appartengono alla classe denominata RS Canum Venaticorum e sono distanti fra loro circa 3,2 milioni di chilometri, appena il due per cento della distanza che separa la Terra dal Sole, e per questa caratteristica ciascun astro impiega solo pochi giorni per compiere un’orbita attorno all’altro. “Se una qualunque forma di vita esistesse davvero in questi sistemi binari, e fosse in grado di osservare il cielo, avrebbe una vista spettacolare: i cieli avrebbero due soli enormi, come quelli sopra il pianeta Tatooine nel film “Guerre Stellari”.
Queste stelle “gemelle” hanno dimensioni simili al Sole e probabilmente hanno un’età di pochi miliardi di anni, all’incirca la stessa che aveva il Sole quando la vita ha cominciato a svilupparsi sulla Terra. Ma questi oggetti celesti ruotano molto più velocemente e, come risultato, possiedono un intenso campo magnetico. L’attività magnetica provoca intensi venti stellari – simili al vento solare ma molto più burrascosi – che rallentano la rotazione delle stelle e, su intervalli di tempo molto lunghi, provocano l’avvicinamento delle due componenti. Mentre le due stelle si avvicinano, il loro campo gravitazionale cambia, causando disturbi nelle traiettorie dei corpi planetari che orbitano attorno ad entrambe le stelle. Le comete e qualunque pianeta attorno al sistema stellare potrebbero così avvicinarsi per poi collidere tra di loro, provocando in alcuni casi urti catastrofici. Tra questi oggetti celesti sono inclusi anche i pianeti che potrebbero teoricamente orbitare all’interno della “zona abitabile” del sistema binario, una regione dove le temperature presenti permettono l’esistenza di acqua allo stato liquido.
La scoperta di polveri in questi sistemi stellari ha sorpreso il team che ha analizzato i dati di Spitzer. Infatti la polvere di solito viene dissipata e spazzata via dalle stelle durante la loro evoluzione. E dunque deve essere in atto qualche fenomeno – molto probabilmente le collisioni planetarie – responsabile della produzione della polvere osservata. I dati dicono dunque che i pianeti in sistemi binari compatti non hanno vita facile e le collisioni potrebbero essere davvero eventi frequenti in questi ambienti spaziali.
Fonte INAF

Ecco come muore una stella massiccia

Le stelle più massicce muoiono in modo decisamente spettacolare, espellendo i loro strati esterni nello spazio in un‘esplosione estremamente energetica, chiamata supernova (tipo II). Le supernovae di tipo Ia sono invece il risultato dell’interazione catastrofica di una nana bianca con un’altra stella in un sistema binario stretto.
L’esplosione di una supernova è caratterizzata da un’emissione luminosa tale che può uguagliare per un periodo di tempo limitato la luminosità della galassia che la ospita. Se l’esplosione avviene nella nostra galassia, in una posizione tale da risultare pienamente visibile dal nostro pianeta, il risultato è l’apparizione di una “nuova stella” nella sfera celeste che in certi casi può essere visibile anche durante il giorno.
Il prefisso “super” la distingue da una nova la quale è anch’essa una stella che aumenta la sua luminosità, ma in maniera nettamente minore e con un meccanismo diverso.
Le supernovae sono contraddistinte dall’espulsione degli strati esterni di una stella alla velocità di migliaia di chilometri al secondo, riempiendo lo spazio circostante di idrogeno ed elio (oltre ad altri elementi). I detriti espulsi formano quindi nubi di polveri e gas. Un’esplosione di supernova può comprimere del gas preesistente che si trovava vicino alla stella e si suppone che ciò possa innescare processi di formazione stellare.
Una supernova è l’unico meccanismo naturale conosciuto per produrre gli elementi più pesanti del ferro (tra cui cobalto, uranio, nichel, piombo, iodio, oro e argento), che si formano nell’atmosfera rovente della supernova sfruttando l’enorme energia a disposizione.
Le supernovae tendono ad arricchire lo spazio interstellare circostante con metalli, che per gli astronomi includono anche elementi chimici non metallici più pesanti dell’elio. Così ogni generazione di stelle ha una composizione leggermente differente, che va da una mescolanza quasi pura di idrogeno ed elio a una composizione più ricca di metalli. La differente abbondanza di elementi chimici ha un’influenza importante sulla vita di una stella, e può influenzare in maniera decisiva la possibilità di avere dei pianeti che le orbitino intorno.
Le supernovae di tipo II hanno origine quando il nucleo di una stella molto massiccia (almeno 8 masse solari, se non di più) ha prodotto una notevole quantità di ferro, la cui fusione assorbe energia invece di liberarla. Quando la massa del nucleo di ferro raggiunge il limite di Chandrasekhar esso decade spontaneamente in neutroni e, sotto l’effetto della sua stessa gravità, implode. Attraverso un processo non del tutto compreso, una parte dell’energia trasportata dai neutrini viene ceduta agli strati esterni della stella. Quando l’onda d’urto raggiunge la superficie della stella, la sua luminosità aumenta drasticamente e gli strati esterni vengono sparati nello spazio. Il nucleo della stella può quindi diventare una stella di neutroni o un buco nero, a seconda della sua massa. I dettagli del processo sono ancora poco compresi, e non si conosce il valore esatto di massa che discrimina tra i due risultati.
Ciò che resta è una nebulosa, un resto di supernova.
Le supernovae di tipo Ia si ritiene siano causate dall’esplosione di una nana bianca che si trova in corrispondenza o molto vicina al limite di Chandrasekhar.
Una possibilità è che la nana bianca si trovi in orbita ad una stella moderatamente massiccia. Parte della massa della compagna viene trasferita alla nana bianca, finché questa non arriva al limite di Chandrasekhar. La nana inizia a collassare in una stella di neutroni o in un buco nero, ma l’energia potenziale gravitazionale del collasso e la condizione di alta densità derivante dallo stato degenere della materia della stella innescano una rapida fusione nucleare degli atomi di carbonio e ossigeno. L’improvviso rilascio di energia produce una potentissima onda d’urto che accelera i prodotti di fusione oltre la velocità di fuga della stella (10000 chilometri al secondo) e per un certo periodo la palla di fuoco mantiene una luminosità straordinaria; la stella viene così fatta a pezzi.
Il meccanismo di una semplice nova è simile ma meno drammatico: la materia in eccedenza viene fusa prima che il limite di Chandrasekhar venga raggiunto. La fusione produce quindi abbastanza energia per aumentare drasticamente la luminosità della stella, ma questa sopravvive all’evento.
Le supernove storiche
SN 185, è la supernova osservata da Terra nel 185. E‘ considerata la più antica supernova di cui si hanno testimonianze storiche da parte degli astronomi cinesi. Apparsa in prossimità di Alfa Centauri il 7 dicembre 185, rimase visibile per circa 8 mesi. Si ritiene che il suo resto di supernova sia RCW 86. Distante oltre 3000 a.l. dal suo resto si può dedurre che raggiunse una magnitudine apparente di circa -8.
SN 1006 è la supernova osservata da Terra nell’anno 1006, è stato l’evento stellare con magnitudine apparente più brillante di cui esistano registrazioni storiche. Apparsa nella costellazione del Lupo tra il 30 aprile e il 1 maggio del 1006, la nuova stella fu descritta da osservatori in Svizzera, Egitto, Iraq, Cina e Giappone. Le misurazioni moderne effettuate sul suo resto di supernova indicano che SN 1006 raggiunse una magnitudine apparente di circa -7,5.
La supernova ha lasciato come resto una nebulosa fioca, che venne scoperta nel 1965 quando due astronomi trovarono un guscio di espansione mentre analizzavano lo spettro radio di una porzione di cielo nei pressi della stella Beta Lupi.
Nel 1976 vennero trovate le controparti nei raggi X e in ottico. L’oggetto è anche conosciuto come PKS 1459-41 a tutte le lunghezze d’onda. Al centro delle nebulosa ci si aspetta la presenza di una pulsar o un buco nero che tuttavia non sono stati ancora osservati.
SN 1054 è la famosa Supernova del Granchio osservata sulla Terra nella costellazione del Toro nell’anno 1054. L’esplosione stellare fu osservata e registrata dagli astronomi cinesi ed arabi , che dissero che fu talmente brillante da risultare visibile durante il giorno per 23 giorni consecutivi e durante la notte per 653 giorni consecutivi. Situata nella nostra Galassia ad una distanza di 6 300 anni luce, era quasi sicuramente una supernova di tipo II. Quello che attualmente resta di SN 1054 è la Nebulosa del Granchio, Messier 1. Nel 1968 fu individuata una pulsar all’interno della nebulosa, la Pulsar del Granchio, che ruota 30 volte al secondo. Questa pulsar ha perso dall’esplosione circa i due terzi della sua energia cinetica.
SN 1181 fu osservata per la prima volta nell’agosto del 1181 da astronomi cinesi e giapponesi che registrarono l’evento in otto diversi testi. È una delle otto supernove della Via Lattea che furono osservabili ad occhio nudo di cui si abbia registrazione storica. Apparve nella costellazione di Cassiopea e rimase visibile nel cielo notturno per circa 185 giorni. La pulsar J0205+6449 (nota anche come 3C 58), che ruota circa 15 volte al secondo, potrebbe essere il residuo dell’esplosione.
SN 1572 nella costellazione di Cassiopea fu osservata da Tycho Brahe il cui libro De Nova Stella (Sulla stella nuova) dette origine al nome “nova” per queste stelle.
SN 1604, conosciuta anche come la Supernova di Keplero o stella di Keplero, fu una supernova esplosa nella nostra galassia in direzione della costellazione dell’Ofiuco. È al momento l’ultima supernova ad essere stata osservata nella nostra galassia, e si trovava ad una distanza di non più di 20.000 anni luce dalla Terra. Fu visibile ad occhio nudo per diciotto mesi, e al suo picco era più brillante di ogni altra stella del cielo, e anche di gran parte dei pianeti, grazie alla sua magnitudine apparente di -2,5. La supernova fu osservata per la prima volta nell’ottobre 1604. L’astronomo tedesco Giovanni Keplero la studiò così a lungo che essa prese il suo nome. Fu la seconda supernova osservata nello spazio di una generazione (dopo la SN 1572 vista da Tycho Brahe in Cassiopea). Non sono apparse supernovae successive nella Via Lattea, anche se moltissime sono state osservate in galassie esterne. Il resto di supernova risultante da questa esplosione è considerato uno degli oggetti “prototipo” di questo genere, ed è ancora oggetto di molti studi astronomici.
Un’ ulteriore supernova è esplosa nella costellazione di Cassiopea dando origine alla potente sorgente radio denominata Cassiopea A, poiché la supernova è stata fortemente oscurata dalle polveri galattiche non è stata osservata dagli osservatori dell’epoca, forse John Flamsteed la osservò il 16 agosto 1680 come una debole stella.
SN 1987A è una supernova di tipo II esplosa circa 168.000 anni fa e risultata visibile dalla Terra il 23 febbraio 1987 nella Grande Nube di Magellano, una galassia satellite della Via Lattea. Essendo esplosa ad una distanza dalla Terra di circa 51 400 parsec, è stata la supernova più vicina ad essere stata osservata da quella del 1604, che esplose all’interno della nostra Galassia, inoltre è la supernova più vicina osservata dopo l’invenzione del telescopio.
La luce della supernova raggiunse la Terra il 23 febbraio 1987. Poiché era la prima supernova scoperta in quell’anno, fu chiamata “1987a”. La sua luminosità raggiunse il massimo in maggio, con una magnitudine apparente di circa 3, e scese lentamente nei mesi seguenti. Fu la prima occasione per gli astronomi moderni di osservare una supernova relativamente vicina. Poiché 51 400 parsec corrispondono a circa 168 000 anni luce, l’evento cosmico è in realtà accaduto circa 168 000 anni fa.
Il precursore della SN 1987a era una stella supergigante blu di nome Sanduleak, che si pensa avesse una massa di circa 20 volte quella del Sole. Questo fatto richiese una revisione dei modelli di evoluzione stellare per stelle di grande massa, che in precedenza suggerivano che le supernovae scaturissero da supergiganti rosse. Il resto di supernova formato dai detriti della SN 1987a è uno degli oggetti astronomici più studiati.
Una stella per amica

Interminati spazi e sovrumani silenzi

Derivata dal nozionismo e dalla collazione di diverse fonti, una delle opere giovanili di Giacomo Leopardi è la Storia dell’Astronomia. Scritta nel 1813, quando il poeta aveva 15 anni, l’opera venne pubblicata postuma nel 1880 da Giuseppe Cugnoni. L’opera passa in rassegna tutte le epoche, dai Caldei fino al 1800. Ad ogni scienziato è dedicato un ampio paragrafo che ne racconta la vita, le opere e le scoperte. La carrellata di immagini, astronomi e personaggi, a vari titoli legati al firmamento, continua per tutto il trattato. Dall’astronomia di Pitagora e Metone agli esametri di Quinto Cicerone, fratello di Marco Tullio, dal De signis coelestibus all’immortale Claudio Ptolomeo al calcolo dei mesi e degli anni fatto da messicani e peruviani, Leopardi li cita e li descrive tutti in modo attento e meticoloso. Una peculiarità della Storia dell’Astronomia, quindi, è l’essere uno studio in primis antropologico e solo in un secondo momento scientifico. Se si immagina il firmamento come un insieme di elementi da interpretare, infatti, è naturale che ogni popolo vi legherà significati di volta in volta diversi, a seconda della cultura di provenienza. La scientificità della Storia ha un carattere soprattutto letterario e le descrizioni dei movimenti celesti sono spesso poetiche prima che scientifiche. La sensibilità del Poeta ha dunque la meglio sulla scarnezza del dato scientifico. Accanto al dato poetico resta comunque quello scientifico ed è Leopardi stesso, fervente ammiratore di Copernico, a riconoscere come la matematica sia la base della scienza astronomica. In un interessante parallelo con la metafisica, nello Zibaldone si legge “la metafisica senza l’ideologia, è quasi appunto quello ch’era l’astronomia prima che fosse applicata alla matematica. Scienza incertissima, frivola, inesatta, volgarissima o piena di sogni e di congetture senz’appoggio”.
Da questa consapevolezza derivano le minuziose descrizioni astronomiche e le tabelle presenti nella Storia come ad esempio la “tavola compendiosa delle aurore boreali che sono apparse”, registrate meticolosamente dal 394 d.C. al 1731.
Nel 1819, appena ventunenne, Giacomo scriveva gli idilli L’Infinito e Alla Luna. Apparentemente lontano da riferimenti astronomici, nell’omonimo componimento l’infinito viene considerato come una sensazione sia visiva, sia intima che instaura attraverso la natura un dialogo a ritroso con le “le ricordanze” ed il passato “le morte stagioni”. Il firmamento infine è presente anche in altre due composizioni: Le ricordanze e Canto notturno di un pastore errante dell’Asia.
Il Leopardi storico dell’astronomia e il Leopardi poeta delle vaghe stelle dell’Orsa sono intimamente legati fra loro. Non c’è mai stato poeta senza Dio che abbia tenuto tanto gli occhi rivolti verso il cielo e sia stato tanto severo e pensoso scrutatore dei destini dell’Universo, quanto Leopardi, celebratore del Nulla eterno. Non c’è canto di questo grande poeta dove non ricorra la graziosa, la solinga, la pensosa luna, l’eterna peregrina, e dove non tremino le stelle o l’occiduo sol o le purpuree faci delle rotanti sfere, dove non ferva e non si agiti il senso fatale della Terra e dell’umanità congiunto a quello di tutti gli astri. Leopardi fu poeta astrale e cosmico, più dello stesso Dante che pur salì di stella in stella, ma per il quale il cosmo doveva essere ben ordinato e circoscritto. Per Dante il segreto dell’Universo è sistematicamente spiegato, per Leopardi rimane un eterno e disperante enigma.
Lontano da ogni telescopio o cannocchiale, Leopardi osserva dunque il firmamento e lo considera interlocutore poetico. Il silenzioso moto dei corpi celesti si accorda armonicamente con quel silenzio che il Poeta ricerca e in cui si rifugia per indagare se stesso e il mondo. (tratto interamente da: L’Astronomia n°294/2008 pag. 26-33)
A tal proposito vorrei ricordare un bellissimo libro “Storia dell’astronomia” dalle origini al Duemila e oltre di Giacomo Leopardi e Margherita Hack. Si tratta di un volume che si compone di due parti confluenti nel disegno unitario di una storia dell’astronomia dall’origine all’inizio del XXI secolo. La seconda parte, opera dell’eminente astrofisica Margherita Hack, comincia all’inizio dell’Ottocento, là dove termina quella di Giacomo Leopardi. “Per uno scienziato dei giorni nostri, accettare di collegarsi a quel giovanile testo leopardiano, significa anche riconoscerne implicitamente la sostanziale validità non solo formale e stilistica, ma anche informativa e di contenuto. Circostanze, queste, che hanno del prodigioso, tenuto conto delle nozioni scientifiche di allora, del limitato materiale documentario di cui l’autore poteva disporre e, soprattutto, della sua età: 15 anni”.
Una stella per amica
11 – continua

 

L’ipotesi Kant – Laplace

Immanuel Kant (1724-1804) ha dato un importante contributo alla cosmologia scientifica con l’ipotesi sulle origini e la formazione del Sistema Solare, nello scritto del 1755, Storia generale della natura e teoria del cielo. Secondo tale teoria il Sistema Solare ha avuto origine da una “nube primordiale” di particelle che, sotto l’azione delle leggi della meccanica newtoniana, partendo da una bassa velocità di rotazione, si sono progressivamente condensate, mentre l’intera nebulosa si appiattiva, formando infine il Sole e i pianeti.
“Due cose riempiono l’animo mio di sempre nuova e crescente ammirazione e reverenza, quanto più spesso e più durevolmente la riflessione vi si esercita: il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me”. Queste parole di Kant, tratte dalla Critica della Ragion Pratica (1788), rendono bene l’idea di quanta importanza ebbero nel filosofo prussiano gli studi di astronomia. In origine, secondo Kant, la materia che da oggi forma a tutti i corpi del nostro sistema planetario era sparsa nello spazio in maniera caotica e dava vita ad una grande nebulosa diffusa e uniforme. Kant pensava questa nebulosa primitiva formata sia da gas che da polveri. La materia avrebbe avuto la tendenza ad aggregarsi a causa della forza di gravitazione combinata agli scontri fra le diverse particelle, fonti a loro volta, di ulteriori aggregazioni. Kant riteneva che nella zona centrale della nebulosa vi fosse una densità maggiore e quindi maggiore fosse anche l’attrazione. La conseguenza di ciò era che in quel punto sarebbe affluita la maggior parte della materia. Questo materiale, in caduta, risentiva delle deviazioni subite dalle particelle, per la resistenza da esse incontrata. Ciò sfociò in un movimento nel medesimo senso. In questo modo il Sole fu animato da un moto di rotazione continuo nello stesso senso e le particelle che si mettevano in moto, sotto l’azione della forza di gravità del Sole, cominciarono ad avere il medesimo movimento intorno al Sole.
Nel 1796 il matematico, fisico e astronomo francese Pierre-Simon de Laplace (1749-1827) formulò nell’Esposizione del sistema del mondo una teoria analoga (probabilmente senza conoscere l’ipotesi kantiana) ma con basi fisiche più solide, che poi espresse più ampiamente nella sua opera maggiore, Meccanica celeste, in cinque volumi (1799-1825).
Nel XIX secolo, dopo la riscoperta del contributo kantiano a questa teoria, l’ipotesi prende il nome di entrambi, ma nuovi calcoli astronomici sembrano confutarla. Abbandonata per alcuni decenni viene poi riaccreditata nel XX secolo dagli studi sull’evoluzione e sulla struttura delle stelle.
Laplace fu il continuatore dell’opera di Newton e si deve a lui la trasformazione in scienza della cosmogonia, quel settore dell’astronomia che si occupa di fornire la spiegazione riguardo alla genesi dell’universo e dei corpi celesti. Laplace si occupò in particolare della nascita del Sistema Solare, nell’Esposizione del sistema del mondo (1796). La sua teoria fu continuamente rielaborata anche alla luce delle nuove scoperte avvenute in quegli anni, quale per esempio quella dell’asteroide Cerere nel 1801. Laplace partiva dal presupposto che tutti i pianeti ed i satelliti ruotassero intorno al Sole che sembrava così governare tutto il sistema.
Seguendo il lavoro di Herschel sulle nebulose gassose egli dedusse che all’interno di questi oggetti celesti si formassero le stelle. Era quindi evidente che l’universo si stava evolvendo.
Secondo Laplace a mano a mano che l’atmosfera si raffreddava il Sole tendeva a contrarsi verso il centro del sistema e lasciava nelle zone più periferiche, dove non arrivava più la sua forza di gravitazione, vapori che si sarebbero successivamente condensati per dar vita ai pianeti.
Queste zone si sarebbero poi trasformate in anelli concentrici in rotazione attorno al Sole. Un esempio di questi anelli sarebbe rimasto in orbita intorno al pianeta Saturno.
Nacque così la ricerca sulla genesi del Sistema Solare anche se oggi sappiamo che alcune delle affermazioni di Laplace non erano esatte. I pianeti infatti non si formano per la condensazione di vapori ma per le aggregazioni di materiali presenti all’interno delle nubi stellari. Gli anelli di Saturno, invece, sono formati da ghiaccio e roccia.
Una stella per amica
10 – continua

Misteriose pulsar

Cosa vuol dire pulsar? Il nome corrisponde alla contrazione delle parole inglesi pulsati star, cioè stella pulsante. La caratteristica principale di questi oggetti è di non emettere radiazione in maniera continua, ma sotto forma di impulsi radio regolari. Questi impulsi sono estremamente rapidi, la durata di un singolo impulso può essere di qualche decina di millisecondi o, al massimo, di qualche decina o centinaio di secondi. La prima PSR1919+21, venne notata nel 1967, da Jocelyn Bell e Anthony Hewish dell’università di Cambridge. Dopo la scoperta della prima pulsar molte altre ne seguirono e gli astronomi si convinsero che doveva trattarsi di una classe di sorgenti celesti piuttosto comune. Queste caratteristiche corrispondono ad un tipo di stelle già ipotizzata negli anni Trenta: le stelle di neutroni. Queste sono oggetti di massa pari a circa 1,5 volte quella del Sole concentrata in un raggio di soli 10 chilometri. Le stelle di neutroni sono costituite essenzialmente da neutroni, particelle elementari prive di carica elettrica che, insieme ai protoni, formano i nuclei atomici.
Le stelle di neutroni non sono nate così come noi le osserviamo ma rappresentano lo stadio finale del processo evolutivo di stelle di grande massa (maggiore di 10 masse solari). Quando una di queste stelle arriva alla fine di tutti i possibili cicli di fusione nucleare, esplode violentemente come supernova. Mentre gli strati più esterni della stella vengono scagliati nello spazio, il suo nucleo subisce un collasso gravitazionale, raggiungendo una densità elevatissima e trasformandosi in una stella di neutroni. Come conseguenza del collasso essa accelera incredibilmente il proprio moto di rotazione, fino a ruotare con periodi di poche decine di millisecondi, caratteristici delle pulsar.
In una stella di neutroni i processi di fusione nucleare non sono più attivi e quindi l’interno stellare non produce più energia. Una stella di neutroni possiede un campo magnetico di elevata densità che permea lo spazio circostante creando una regione di influenza nota come magnetosfera.
Qualche volta il periodo di pulsazione subisce delle brusche diminuzioni. Questi fenomeni, conosciuti come glitches sono il risultato di microsismi che avvengono nella struttura esterna della stella di neutroni: dei veri e propri stellemoti che provocano un riassestamento nel moto di rotazione della stella e quindi del suo periodo. Il resto di supernova del Granchio nella costellazione del Toro contiene la pulsar omonima, la più famosa del cielo che ha un periodo di rotazione di 33 millisecondi.
Fermi, il satellite realizzato dalla NASA con il contributo italiano dell’Agenzia Spaziale (ASI) in collaborazione con Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) e Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), ha scoperto nei mesi scorsi 12 nuove pulsar che emettono solo radiazione di alta energia, oltre ad aver rivelato raggi gamma da altre 18 già note in precedenza. Scoperte che stanno accrescendo la nostra comprensione della natura di questi “bracieri” stellari.
Per Paolo Giommi, direttore del Science Data Center dell’Agenzia Spaziale Italiana, “questa prima importante scoperta conferma in pieno le grandi aspettative riposte nel satellite Fermi, che nei prossimi anni è destinato a far compiere un grande balzo in avanti nella comprensione sia delle pulsar della nostra galassia che di alcuni tipi di galassie attive come i blazar e le radiogalassie”.
Una pulsar è una stella di neutroni altamente magnetizzata e che ruota molto rapidamente, e rappresenta il nucleo superstite dell’esplosione di una stella di grande massa. La maggior parte di esse sono state scoperte grazie all’emissione di impulsi radio, che si pensa sia causata da raggi molto focalizzati, emanati dai poli magnetici della stella.
Se i poli magnetici e l’asse di rotazione della stella non sono esattamente allineati, i raggi emessi dalla pulsar rotante “spazzano” il cielo, e i radiotelescopi a Terra rilevano un segnale solo se almeno uno di quei raggi è diretto verso di noi. Sfortunatamente, quindi, tutti i censimenti di pulsar basati sulle emissioni radio sono inattendibili, perché vediamo solo quelle orientate verso la Terra. Inoltre le emissioni radio, per quanto facili da rilevare, rappresentano solo alcune parti per milione dell’energia totale di una pulsar. Al contrario i raggi gamma rappresentano il dieci per cento o più. Per quarant’anni, le emissioni radio sono state la base della nostra comprensione delle pulsar. Ora, grazie a Fermi, i ricercatori hanno a disposizione un’altra fonte di informazioni sul comportamento di questi oggetti.
Per Patrizia Caraveo, responsabile scientifico per l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) della missione Fermi, “la vera novità di questa ricerca non è solo il numero delle classiche pulsar radio rivelate nella radiazione gamma, che con questa ricerca passano da solo 5 a 17, o anche la comparsa di una mezza dozzina di pulsar radio velocissime, mai viste prima d’ora. Più importante ancora è la scoperta di numerose pulsar senza emissione radio. Sono sorelle, o cugine, di quella Geminga che abbiamo scoperto 30 anni fa e che si rivela essere la capostipite di una numerosa famiglia di stelle di neutroni finora sconosciute. Sono le responsabili nascoste delle misteriose sorgenti gamma non identificate.”
Le pulsar sono straordinarie dinamo cosmiche. Attraverso processi non ancora del tutto compresi, i potenti campi elettrici e magnetici della pulsar e la sua rapida rotazione accelerano le particelle a velocità prossime a quella della luce. I raggi gamma consentono agli astronomi di scrutare il cuore di questo acceleratore di particelle. In precedenza si pensava che i raggi gamma avessero origine presso le regioni polari e vicino alla superficie della stella, cioè il punto da dove arrivano le emissioni radio. Ma le nuove pulsar che emettono solo in raggi gamma osservate da FERMI portano ad accantonare quell’idea. Ora gli astronomi pensano che gli impulsi di raggi gamma emergano molto al di sopra della stella di neutroni. Le particelle li producono mentre vengono accelerate lungo archi creati dai campi magnetici. Nel caso della Pulsar Vela, la sorgente di raggi gamma persistente più brillante nel cielo, si pensa che la regione di emissione si trovi a circa 480 km dalla stella, che ha un diametro di poco più di 30 km. Fermi ha anche osservato impulsi gamma dalle cosiddette “pulsar al millisecondo”, così chiamate perché ruotano da 100 a 1000 volte al secondo. Molto più vecchie rispetto a oggetti come Vela o CTA-1, questi oggetti apparentemente paradossali sembrano rompere le regole, e si trovano in sistemi binari assieme a una stella normale. La materia stellare sottratta all’altra stella è in grado di accelerare la pulsar, fino al punto che la sua superficie si muove a una frazione significativa della velocità della luce. Per Ronaldo Bellazzini, dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, “la scoperta in pochi mesi di osservazione di una nuova classe di sorgenti come le pulsar che emettono solo nella componente gamma o di pulsar gamma con periodo di rotazione di pochi millisecondi è destinata a dare un grande contributo alla comprensione dei meccanismi di funzionamento di queste misteriose e affascinanti macchine acceleratrici cosmiche”.

Nane bianche: una tonnellata per centimetro cubico

Osservando e studiando il cielo non c’è verso di annoiarsi; esistono infatti innumerevoli tipi di stelle di ogni dimensione, colore e luminosità. Tra tutte queste un fascino particolare lo hanno le cosiddette “stelle morte” (nuclearmente inerti) probabilmente per la loro natura decisamente misteriosa. Queste stelle sono, in ordine crescente di massa, le nane bianche, le stelle di neutroni e i buchi neri. Fanno parte della categoria delle “stelle collassate” così definite a causa della loro compattezza. La prima nana bianca individuata e studiata fu Sirio B, la compagna di Sirio, la stella più luminosa di tutto il cielo.
I primi modelli completi sulla struttura interna delle nane bianche vennero costruiti dal fisico indiano Chandrasekhar. In particolare in uno dei suoi lavori, pubblicato nel 1931, egli fece l’importante scoperta che le nane bianche non possono avere una massa superiore a un certo limite. Tale valore limite è di circa 1,44 masse solari e, in onore del suo scopritore, è stato battezzato limite di Chandrasekhar.
Le nane bianche sono dunque stelle nane, anche se la loro massa è paragonabile a quella di una stella come il Sole, infatti, hanno le dimensioni tipiche di un pianeta come la Terra. Il loro raggio è dell’ordine di soli 6000 Km, circa 1/100 del raggio solare. Si tratta dunque di stelle estremamente dense: un centimetro cubo di materia di una nana bianca pesa circa una tonnellata. Questa elevata densità implica che anche il campo gravitazionale della stella sia notevolmente intenso.
Le nane bianche, come le altre stelle collassate, non sono più attive dal punto di vista nucleare. Esse sono il risultato del collasso gravitazionale di stelle di massa inferiore a circa 4 masse solari dopo che queste hanno esaurito tutte le possibile reazioni di fusione nucleare. Quando questo accade, la stella ha un ultimo sussulto di vita, passando per lo stadio di gigante rossa, durante il quale nel nucleo avviene la fusione dell’elio. Quando anche l’elio si esaurisce, la stella passa varie fasi di instabilità e inizia a contrarsi su se stessa. Durante queste fasi la stella si libera della materia in eccesso che viene espulsa nello spazio sotto forma di forti venti stellari. Queste enormi masse si gas formano delle strutture nebulari che prendono il nome di nebulose planetarie. Anche se all’interno delle nane bianche non avvengono più reazioni nucleari, il loro nucleo si trova a temperature molto elevate: Questo calore viene diffuso verso la superficie della stella da dove è irradiato nello spazio. Pertanto esse tendono a raffreddarsi molto lentamente fino a diventare invisibili.
Le nane bianche giovani hanno temperature superficiali dell’ordine di 20-30.000 gradi, per questo motivo appaiono non solo nane, ma anche bianche, mentre una stella come il Sole (7000 gradi) ci appare gialla. Malgrado l’alta temperatura superficiale, le ridotte dimensioni implicano che la loro emissione luminosa sia alquanto modesta (magnitudine assoluta di 12-16) da 10 milioni a 100 miliardi di volte più deboli del Sole. Il tempo di raffreddamento delle nane bianche è lunghissimo, tanto da permettere di osservarne un numero elevato.
Una nana bianca pronta ad esplodere
Un gruppo di ricercatori italiani dell’Istituto Nazione di Astrofisica (INAF) è riuscito a definire la reale natura di RX J0648-4418. Si tratta di una nana bianca che ruota molto rapidamente intorno al proprio asse. Un oggetto che, pur avendo un diametro di quasi 7.000 km, pari solo a circa metà di quello della Terra, è uno tra i più massicci del suo genere finora scoperto. La maggior parte delle nane bianche concentra circa 0,6 masse solari in un volume pari a quello della Terra, in questo caso invece una massa circa doppia rispetto a tale valore è contenuta in un oggetto con un diametro pari a metà di quello del nostro pianeta. Per di più, RX J0648-4418 ruota attorno al proprio asse ad una impressionante velocità, un valore che non desterebbe stupore per una stella di neutroni. Se la velocità di rotazione fosse un po’ più rapida, la sua struttura non sopporterebbe l’enorme forza centrifuga prodotta e la stella si disintegrerebbe. Inoltre, la presenza di una stella compagna che le sta “cedendo” materia potrebbe portare RX J0648-4418 ad esplodere come supernova entro qualche milione di anni.
Questa strana nana bianca orbita attorno ad una stella gigante, denominata HD 49798, insieme alla quale forma un sistema detto “binario”. La stella compagna sta cedendo a RXJ0648-4418 grandi quantità di materia sotto forma di gas proveniente dagli strati più esterni della sua atmosfera, rendendo la nana bianca sempre più massiccia. Gli astronomi stimano che tra qualche milione di anni la quantità di materia che si andrà accumulando su RXJ0648-4418 sarà sufficientemente elevata da innescarne il collasso gravitazionale, che potrebbe portare alla sua esplosione come una supernova di tipo Ia. Si ritiene infatti che limite di massa perché ciò avvenga sia pari a circa 1,4 masse solari.
L’appartenenza della nana bianca ad un sistema binario ha permesso si misurarne la massa in maniera estremamente accurata e soprattutto senza dover ricorrere ad assunzioni o modelli teorici difficili da verificare, ma basandosi soltanto su leggi ben note della meccanica classica.
Per arrivare a questa scoperta sono state determinanti le osservazioni nei raggi X effettuate dal satellite dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA) XMM-Newton. È infatti impossibile studiare questa nana bianca nella luce visibile, poiché la sua stella compagna è molto più grande e luminosa. Le osservazioni nei raggi X hanno così permesso di svelare la natura di RXJ0648 e fornire informazioni decisive sulla sua massa, che avranno importanti ricadute anche nello studio dei processi che regolano lo scambio di materia nei sistemi stellari binari, della struttura interna delle stelle nane bianche o dell’origine delle supernovae di tipo Ia.
Gli astronomi sono sulle tracce di questo misterioso oggetto fin dal 1997, quando fu scoperto che qualcosa stava producendo radiazione X nelle vicinanze della stella brillante denominata HD 49798. Ora grazie alla sensibilità degli strumenti montati a bordo di XMM-Newton, si è riusciti a ricavarne l’orbita e a stabilire che si tratta di una nana bianca, ciò che resta della morte di una stella di massa relativamente piccola. L’esplosione di una nana bianca è la spiegazione più accreditata per il fenomeno classificato come supernova di tipo Ia, un evento estremamente brillante che insieme ad altri dello stesso tipo vengono utilizzati come “candele campione” per misurare le distanze cosmiche e l’espansione dell’Universo. Finora, non si era mai riusciti a trovare una nana bianca in fase di accrescimento in un sistema binario in cui fosse possibile determinare accuratamente anche le masse degli oggetti. Pubblicato su Focus.it nel settembre 2009

Quei mangioni di Giove e Nettuno

In un remoto passato Giove si è forse mangiato un temibile rivale. E’ la conclusione raggiunta da un gruppo di ricercatori che hanno simulato al computer le fasi di formazione dei pianeti nel nostro Sistema Solare. Tra gli obiettivi: capire perché Giove, pur essendo il più grande pianeta gassoso del sistema, abbia un nucleo solido tutto sommato piccolo se paragonato a quello del suo vicino Saturno Le simulazioni sono partite ipotizzando che all’inizio della sua formazione, circa 4 miliardi di anni fa, Giove fosse un corpo roccioso. Con la sua attrazione, ha pian piano attirato a sé il gas che all’epoca riempiva le regioni circostanti, sino a diventare un enorme gigante gassoso con al centro un nucleo solido. Ma durante quella fase di accrescimento, Giove avrebbe subito l’impatto con un altro corpo roccioso grande dieci volte la Terra. Il corpo in meno di un’ora sarebbe sprofondato dentro la sua atmosfera gassosa, sino a scontrarsi con il nucleo. Buona parte del nucleo si sarebbe così polverizzato, disperdendosi nel gas sovrastante. Ecco perché il cuore solido di Giove è più piccolo rispetto a quello del vicino Saturno. Va sottolineato come questo scenario sia il risultato di una simulazione: è quindi solo una tra le possibili spiegazioni. Ma se le cose sono davvero andate così, allora Giove avrebbe inghiottito un suo rivale. Senza quello scontro l’altro pianeta roccioso sarebbe infatti diventato a sua volta un gigante gassoso in piena lotta per diventare il più grande. (INAF URANIA Notiziario di astronomia e astronautica del 20 agosto 2010).
Un gruppo di scienziati accusa il pianeta Nettuno di un fatto increscioso. Questo gigante di gas, in un lontano passato, potrebbe avere letteralmente inghiottito un pianeta roccioso ed essersi appropriato della sua luna, quella che oggi chiamiamo Tritone. Un primo indizio a favore di questa ipotesi è che Tritone percorre la propria orbita al rovescio, nel senso che mente Nettuno gira su di sé stesso in una direzione, Tritone gli ruota attorno nel verso opposto. E’ un fatto insolito che porta a pensare che questo satellite non si sia formato intorno a Nettuno, ma che sia stato catturato in un secondo momento. Altro indizio è che Nettuno irradia una certa quantità di calore, molto modesta ma più di quanto non faccia il suo cugino Urano che è simile per massa e composizione. Questo calore potrebbe essere il residuo dell’energia generata dall’impatto con un pianeta paragonabile alla Terra, che Nettuno avrebbe poi inglobato, facendolo scomparire. Questo scenario sembra fantasioso ma è in accordo con altre teorie che provano a ricostruire il passato del Sistema Solare e in particolare quello dei pianeti giganti gassosi. (INAF URANIA Notiziario di astronomia e astronautica del 26 marzo 2010).

Buchi neri supermassivi, stellari e anche intermedi

I super buchi neri frutto della collisione di galassie primordiali. È quanto illustrato da un team internazionale guidato da Lucio Mayer, professore di astrofisica teorica all’ Università di Zurigo (con un dottorato di ricerca ottenuto presso l’Università di Milano-Bicocca nel 2001) in un articolo su Nature di questa settimana. Mayer, con l’ausilio di simulazioni su potenti super computer, ha potuto mostrare per la prima volta che i buchi neri supermassivi si sono formati dopo il Big Bang per effetto, appunto, di collisioni tra galassie primordiali. Il risultato ha importanti implicazioni per la nostra comprensione di come funziona la gravità, per la formazione delle strutture cosmiche in genere cosi come per la comprensione delle onde gravitazionali e risolve uno dei problemi più spinosi nello studio dell’Universo. I primi buchi neri supermassivi si sono formati circa 13 miliardi di anni fa, quindi poco dopo il Big Bang. Questo nuovo risultato segna un’importante svolta nella comprensione dell’Universo. Allo stato attuale delle nostre conoscenze l’età dell’Universo è di poco meno di 14 miliardi di anni. Vari gruppi di ricerca internazionali hanno mostrato recentemente come le galassie massive si siano formate prima di quanto ci si aspettasse in base alle previsioni teoriche, cioè già entro il primo miliardo di anni di vita dell’Universo e le simulazioni sui super computer di Mayer e colleghi hanno mostrato che i primi buchi neri supermassivi si sono formati per effetto delle collisioni di queste prime galassie massive e della loro successiva fusione.
“Il nostro risultato – spiega Mayer – mostra come le strutture grandi come galassie massive e buchi neri supermassivi si siano formati presto nella storia dell’Universo. A prima vista questo sembrerebbe in contrasto con la teoria cosmologica prevalente, che prevede la formazione di strutture e galassie in modo gerarchico in un Universo dominato da materia oscura fredda”. L’apparente paradosso è chiarito subito da Lucio Mayer: “La materia ordinaria, così detta barionica, di cui noi stessi e la materia luminosa dell’Universo siamo fatti, incluse le componenti visibile delle galassie, collassa di più e più velocemente della materia oscura, formando rapidamente galassie molto massive nelle regioni più dense dell’Universo, in cui la gravità comincia prima a generare strutture. Questo produce l’apparente formazione non-gerarchica delle galassie massive e dei buchi neri supermassivi”. Le più grosse galassie e i buchi neri supermassivi crescono rapidamente. Invece, galassie di media e piccola taglia, come la nostra Via Lattea e il suo relativamente modesto buco nero centrale (solo un milione di masse solari contro 1 miliardo di masse solari dei buchi neri simulati da Mayer e colleghi), si sono formate più lentamente.
Come spiega Lucio Mayer, nell’Universo attuale i discendenti delle galassie riprodotte nelle sue simulazioni corrispondono alle più grosse galassie conosciute, centinaia di volte più pesanti e luminose della Via Lattea. Un esempio è quello di M87, la gigantesca galassie ellittica centrale dell’ammasso di galassie della Vergine, a 54 milioni di anni luce da noi. La nuova scoperta ha importanti conseguenze per la cosmologia; l’assunzione che la correlazione osservata dagli astronomi tra la masse dei buchi neri supermassivi e la massa delle galassie in cui si trovano rispecchia il fatto che galassie e buchi neri supermassivi crescono in parallelo, regolando l’una la crescita dell’altro, dovrà essere rivista. In base al nuovo modello la crescita del buco nero supermassivo non è regolata da quella della galassia. Piuttosto sarebbe la crescita della galassia a essere regolata dal buco nero centrale. Mayer e i suoi colleghi pensano anche che la loro ricerca sarà utile anche per quei fisici che vogliono provare l’esistenza delle onde gravitazionali e con esse verificare direttamente la Teoria della Relatività Generale di Einstein. Una delle conseguenze di tale teoria, elaborata da Einstein, che ottenne il dottorato di ricerca nel 1906 proprio all’Università di Zurigo, è che la fusione di buchi supermassivi dovrebbe produrre le onde gravitazionali più intense nel continuum spazio-temporale, le quali oggi potrebbero essere misurate. Infatti i progetti LISA e LISA Pathfinder dell’Agenzia Spaziale Europea e della NASA, in cui sono coinvolti anche fisici dell’Università di Zurigo, hanno proprio l’obiettivo di rivelare tali onde gravitazionali. Per interpretare correttamente i risultati di questi futuri esperimenti un elemento cruciale è proprio la comprensione di come si formano tali buchi neri supermassivi agli albori dell’Universo.
FONTE INAF
I buchi neri
I buchi neri sono concentrazioni di massa tanto enormi che le forze gravitazionali sono così intense da non lasciar sfuggire né la materia né le radiazioni come la luce. Un buco nero è perciò invisibile: viene individuato soltanto osservando ciò che accade alla materia circostante. In quelli finora rilevati, dischi di gas e polveri ruotano intorno al buco stesso: quando la materia vi cade sono emesse radiazioni di grande energia (per esempio raggi X) o getti di materia con velocità e temperature elevatissime.
Si distinguono al momento due tipi di buchi neri: quelli supermassivi e quelli stellari. I primi hanno masse pari a miliardi di masse solari e si formano al centro di molte galassie. I buchi neri stellari si formano per il collasso gravitazionale che segue l’esplosione di supernova delle stelle super giganti e possono essere molto comuni in tutte le galassie. Spesso si parla anche di buchi neri di massa intermedia (in inglese Intermediate-mass black hole, IMBH). Si tratterebbe di buchi neri la cui massa è significativamente maggiore dei buchi neri stellari, ma tuttavia inferiore a quella dei buchi neri supermassivi. C’è minore evidenza riguardo alla loro esistenza rispetto agli altri due tipi. Alcune sorgenti di raggi X ultraluminosi in galassie vicine sono sospettate di essere degli IMBH, con dimensioni che vanno da cento a mille masse solari. Ad ogni modo non è chiaro come tali buchi neri si formerebbero. Da un lato, essi sono troppo massivi per essere formati dal collasso gravitazionale di una singola stella, che è il modo in cui i buchi neri stellari si presume si formino. D’altra parte, i loro ambienti sono privi di quelle condizioni estreme — cioè le alte densità e velocità osservate nei centri delle galassie — che sembrano condurre alla formazione di buchi neri supermassivi. Ci sono due popolari simulazioni riguardo la formazione degli IMBH. La prima, è la fusione di buchi neri stellari e altri oggetti compatti per mezzo della radiazione gravitazionale. La seconda è la collisione incontrollata di stelle massicce in densi ammassi stellari e il conseguente collasso dei prodotti di collisione in IMBH.
Nel novembre del 2004 una squadra di astronomi riportò la scoperta del GCIRS 13E, il primo buco nero di massa intermedia nella nostra galassia, orbitante a tre anni luce da Sagittarius A*. Questo buco nero intermedio di 1.300 masse solari si trova all’interno di un gruppo di sette stelle, probabilmente ciò che rimane di un insieme di stelle massicce strappate via dal centro galattico. Più recentemente, nel gennaio del 2006 alcuni scienziati annunciarono la scoperta di un’oscillazione quasi periodica da parte di un candidato a buco nero di massa intermedia. Il candidato, M82 X-1, è orbitato da una gigante rossa che sta perdendo la sua atmosfera inghiottita man mano dal buco nero. Né l’esistenza dell’oscillazione né la sua interpretazione come periodo orbitale del sistema sono pienamente accettati dal resto della comunità scientifica.

Il cielo in autunno: arriva il Quadrato di Pegaso

Il cielo autunnale è dominato dal Grande Quadrato di Pegaso e dalla costellazione di Andromeda. In questo periodo è dunque possibile vedere a occhio nudo l’oggetto più lontano che una persona possa osservare, la galassia di Andromeda (M 31) distante 2,3 milioni di anni luce. Ad est di Andromeda troviamo Perseo che contiene la famosa stella Algol. Tra le altre costellazioni visibili in questo periodo ricordiamo i Pesci e la Balena con la stupefacente Omicron, la stella meravigliosa “Mira Ceti”. Pegaso è facilmente riconoscibile sia per le sue notevoli dimensioni (1121 gradi quadrati, la settima del cielo per estensione), sia per il suo caratteristico quadrato, il corpo del cavallo, che include anche la stella Alfa di Andromeda, una volta definita infatti Delta Pegasi.
Alfa Pegasi è Markab di magnitudine 2,5 e spettro A0. Dista 86 anni luce ed è intrinsecamente 65 volte più luminosa del Sole. Segna l’angolo sud ovest del Grande Quadrato di Pegaso.
Beta Pegasi è Scheat ed occupa l’angolo nord ovest del trapezio. E’ una stella di colore rosso e la sua luminosità varia tra le magnitudini 2,1 e 3 con periodi irregolari. Dista circa 200 anni luce.
Gamma Pegasi è Algenib di magnitudine 2,8 e spettro B2.
Epsilon Pegasi è Enif di magnitudine 2,4. Distante circa 740 anni luce si tratta di una stella dalla grande luminosità intrinseca.
Una segnalazione merita infine 51 Pegasi. Dista 47,9 anni luce dal Sistema Solare e si tratta della prima stella simile al Sole attorno a cui fu scoperto un pianeta extrasolare.
51 Pegasi è visibile della Terra con un binocolo; in condizioni di ottima visibilità e con cielo molto scuro, è visibile anche ad occhio nudo. Si tratta di una nana gialla con un’età stimata in 7,5 miliardi di anni, è quindi più vecchia del Sole e del 4% più massiccia, con maggior metallicità e con idrogeno in esaurimento.
Il suo tipo spettrale è G2. La scoperta del pianeta fu annunciata il 6 ottobre 1995 su Nature. La scoperta è avvenuta attraverso il metodo della velocità radiale, tramite osservazioni compiute dall’Observatoire de Haute-Provence in Francia.
Il pianeta orbitante attorno alla stella è noto come 51 Pegasi b (viene anche soprannominato Bellerofonte), secondo la convenzione per cui gli oggetti secondari di un sistema prendono il nome da quello dell’oggetto primario, seguito da una lettera minuscola progressiva.
Dopo l’annuncio della scoperta, molti ricercatori ne confermarono l’esistenza ed ottennero maggiori dettagli sulle sue proprietà, compreso il fatto che orbita molto vicino alla stella, che presenta alte temperature (nell’ordine dei 1300 K) e che la sua massa è circa la metà di quella di Giove.
La scoperta di questo pianeta extrasolare ha costituito una pietra miliare nella ricerca astronomica, poiché gli astronomi hanno compreso che i pianeti giganti possono esistere in orbite di breve periodo.
M 15 è l’oggetto più interessante di Pegaso e uno degli ammassi globulari più belli. Distante  circa 40.000 anni luce dalla Terra è appena individuabile ad occhio nudo. Lo si può rintracciare anche con un semplice binocolo come una macchiolina lattiginosa a 4° gradi nord-ovest da Enif. Ha un nucleo densissimo di stelle che solo l’Hubble Space Telescope è riuscito di recente a risolvere. E’ composta da circa mezzo milione di stelle, tutte nate nelle prime fasi di vita della nostra Galassia, circa 13 miliardi di anni fa. Ma i misteri che nasconde questo oggetto permangono: innanzitutto il nucleo ospita probabilmente un oggetto super massiccio che molti studiosi ritengono sia un buco nero; M 15 è poi anche noto per l’anomalo numero di stelle variabili che contiene, oltre un centinaio.
NGC 7331, a poco più di 4° da Eta Pegasi, è la più grande galassia di questa costellazione e si trova a 50 milioni di anni luce di distanza.
Nelle vicinanze un telescopio sufficientemente potente rivelerà il celebre Quintetto di Stephan. Con questo nome viene indicato un famoso gruppo di galassie, apparentemente molto vicine tra loro: NGC 7317, 7318A, 7318B, 7319 e 7320. L’interesse per questo gruppo è dovuto al fatto che una di queste, NGC 7320, ha una velocità di allontanamento da noi, o redshift, molto bassa, di circa 800 km/s, mentre le altre hanno velocità superiori ai 6000 km/s. E’ noto che la velocità di allontanamento di una galassia è proporzionale alla distanza di quest’ultima. Parrebbe quindi che NGC 7320 sia molto più vicina al nostro sistema, circa 40 milioni di anni luce, contro gli oltre 360 milioni delle consorelle, alle quali appare prossima solo per una casuale proiezione prospettica. Non tutti gli astronomi giudicarono valida questa soluzione e tra questi l’americano Halton Arp è stato il più acceso sostenitore di ipotesi alternative. Arp giungeva infatti alla conclusione che il criterio di ricavare le velocità di allontanamento o di avvicinamento dallo spostamento verso il rosso delle linee spettrali è sbagliato. Accettando però le visioni alternative di Arp si metterebbe in forse l’espansione dell’universo e la stessa teoria del Big Bang. In effetti risulta, come abbiamo detto, che solo quattro di queste galassie sono legate gravitazionalmente mentre la quinta si affiancherebbe alle altre soltanto per motivi prospettici.
Vedi anche articolo Le meraviglie di Pegaso del 18 ottobre 2011
Una stella per amica

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