Captato un segnale radio da Proxima Centauri

Un segnale radio anomalo è stato captato dagli astronomi del Breakthrough Listen Project con il radiotelescopio Parkes,che si trova in Australia. Proviene dalla direzione della la stella più vicina al Sole, Proxima Centauri, distante 4,2 anni luce, ed è stato individuato analizzado i dati raccolti nel 2019. La notizia, diffusa dalla stampa britannica, è stata considerata con cautela dal Seti (Search for Extraterrestrial Intelligence, che sul suo sito osserva che le possibili sorgenti del segnale possono essere diverse. Il segnale, con una frequenza di emissione di 982 megahertz, non sembra provenire da un’antenna terrestre, potrebbe infatti provenire da un satellite in orbita. Ce ne sono oltre 2700 satelliti in funzione intorno al nostro pianeta. Ma se non fosse il segnale di un satellite, cos’altro potrebbe essere? Il Seti spiega che è possibile che provenga da qualcosa che si trova dietro Proxima Centauri. Se non arrivasse da Proxima Centauri, potrebbe essere qualcos’altro che si trova molto oltre. I segnali radio naturali, prodotti da quasar o pulsar, non sono a banda stretta e non sono confinati a una ristretta gamma di frequenze, come invece sembra essere questo segnale. “I segnali astronomici naturali – spiega all’ANSA Marta Burgay, ricercatrice dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) – di solito sono su frequenze multiple in modo continuativo, non su una sola come in questo caso. Tuttavia noi terrestri emettiamo continuamente onde radio con queste caratteristiche”. Basti ricordare che pochi anni fa, sempre dallo stesso telescopio, era stato colto un segnale radio che poi si è scoperto essere stato prodotto dal forno a micronde del centro visitatori della struttura. Un’altra ipotesi è che si tratti di segnali radio naturali emessi da un pianeta con un forte campo magnetico, come quello di Giove. “Ci sono molte possibili spiegazioni, ma fin quando non sapremo – conclude il Seti – dovremo continuare a considerare anche l’ipotesi aliena tra le possibilità”. ANSA

Arecibo addio

Ha sopportato uragani, tempeste tropicali e terremoti da quando è stato costruito 57 anni fa, ma ora è arrivato al capolinea. Il radiotelescopio di Arecibo, in Puerto Rico, per 53 anni il più grande radiotelescopio single-dish del mondo con la sua apertura di 305 metri e sorpassato nel 2016 dal radiotelescopio cinese Fast (diametro di 500 metri), è crollato ieri 1 dicembre alle ore 12:55 (ora italiana) come conseguenza di alcuni danni ingenti subiti quest’anno, che avevano già resa inevitabile la decisione amara della sua smantellamento, per motivi di sicurezza. Prima la rottura a metà agosto di uno dei cavi ausiliari che sostengono il sub-riflettore sospeso a 150 metri di altezza sopra il disco, seguita a novembre dal cedimento di uno dei cavi principali  in avanzato stato d’usura, secondo perizie recenti, e la cui sostituzione era già stata programmata per fine anno. Troppo tardi. La sicurezza della struttura nelle ultime settimane era ormai compromessa, a tal punto da non permetterne la riparazione, secondo la National Science Foundation (Nsf) che gestisce e finanzia in gran parte l’osservatorio. Da qui la decisione di smantellare in modo “controllato” il radiotelescopio, seguendo cioè un piano di demolizione sicuro al fine di evitare ulteriori crolli. Infine, ieri il colpo al cuore. I cavi restanti non hanno retto le 900 tonnellate di peso del sub-riflettore che è precipitato sulla parabola sottostante, fortunatamente senza causare feriti. Le ispezioni preliminari non hanno evidenziato danni agli edifici 1, 2, al lidar, al laboratorio ottico, alla mensa e agli edifici preposti per la manutenzione. Un team di ingegneri è sul posto per fare le prime valutazioni strutturali e ambientali. Il radiotelescopio, inizialmente progettato per scopi militari, lascia un’enorme eredità scientifica. Ha osservato oggetti astronomici dietro l’angolo di casa, quali gli asteroidi potenzialmente pericolosi per la Terra, fino ai fast radio bursts a miliardi di anni luce di distanza. Passando per pianeti, nebulose, pulsar, e aprendo anche la strada alle scoperte degli esopianeti nel 1992. A pochi mesi dall’inaugurazione, avvenuta il 1 novembre del 1963, il radiotelescopio di Arecibo permise di misurare con osservazioni radar il periodo di rotazione di Mercurio, all’epoca non ancora noto. Fu la prima di una lunga serie di scoperte, tra cui quella nel 1974 del primo sistema binario ad “altissima gravità” composto da una stella pulsar e una di stella neutroni, insignita del premio Nobel per la fisica nel 1993 per “aver inaugurato nuove possibilità nello studio della gravitazione”. Non può non essere ricordata la partecipazione dell’antenna al progetto Seti per la ricerca di vita intelligente extraterrestre, e in particolare il famoso messaggio di Arecibo, quel segnale radio in codice binario, breve e più potente di qualsiasi trasmissione radiofonica, inviato dal radiotelescopio verso l’ammasso globulare Messier 13, il 16 novembre 1974, a 22mila anni luce di distanza. Un modo per dimostrare la potenza tecnologica dello strumento, più che un vero e proprio tentativo di instaurare una comunicazione con ipotetici extraterrestri.

Perché non siamo soli nell’Universo

Siamo soli in questo Universo? Esiste vita intelligente, una civiltà tecnologicamente progredita all’interno della nostra Galassia? C’è qualcuno là fuori? Domande che l’uomo si porta dietro da secoli e che da almeno una cinquantina d’anni sono uscite dallo stretto ambito filosofico per essere affrontate dalla scienza (vedi MediaINAF).

Nel 1961, l'astrofisico Frank Drake ha sviluppato un'equazione per calcolare il numero di civiltà extraterrestri all'interno della Via Lattea. Crediti: University of Rochester.

Ci ha provato l’astrofisico Frank Drake, nel 1961, con un’equazione buona per stimare almeno grossolanamente il numero di civiltà avanzate che potrebbero esistere nella Via Lattea. Troppo laschi però quei parametri per tirar fuori qualche dato attendibile. Variabili indefinibili. Risposte troppo vaghe. Ci riprova oggi un gruppo di scienziati delle Università di Rochester e Washington, firmatari di un’interessante studio appena pubblicato su Astrobiology: le recenti scoperte di pianeti extrasolari e un approccio più ampio alle domande inizialmente poste dall’equazione di Drake potrebbero darciqualche ragione in più per essere ottimisti o pessimisti riguardo alla possibilità di scovare una qualche forma di intelligenza extraterrestre nel vicino Universo. A meno che le probabilità di sviluppo di una forma di vita intelligente su un lontano esopianeta abitabile debbano per qualche ragione essere calcolate come prossime allo zero, allora non c’è ragione di pensare che il genere umano sia un unicum irripetibile. «La domanda circa l’esistenza di una civiltà extraterrestre, tradotta nell’equazione di Drake, soffre l’incertezza del sistema di variabili che la compongono», spiega Adam Frank, docente di fisica e astronomia presso l’Università di Rochester e fra gli autori dello studio. «Sappiamo da tempo quante stelle compongono grossomodo la Galassia che abitiamo. Quello che non sapevamo è se esistessero o meno pianeti, in orbita a queste stelle, capaci di ospitare la vita. Né se una forma di vita potesse sviluppare l’intelligenza necessaria a dare luce a una civiltà, prima della sua stessa estinzione». Oggi, grazie alle truppe di “cacciatori di esopianeti” sparse a Terra nei laboratori di ricerca e che si servono di strumenti sofisticatissimi come il telescopio spaziale NASA Kepler, sappiamo che quasi una stella su cinque conta pianeti che orbitano nella cosiddetta fascia di abitabilità, dove la temperatura potrebbe sostenere la vita, almeno per come la conosciamo. Quanto alla sopravvivenza di una specie, per un tempo bastevole allo sviluppo di una civiltà tecnologicamente avanzata, il fatto che l’uomo abbia sviluppato una qualche forma di tecnologia nel corso di 10mila anni non ci dice molto. Occorre dunque allargare un po’ la domanda che ci poniamo. «Invece di chiederci se esiste una civiltà aliena in questo preciso momento storico, per esempio, potremmo chiederci se siamo un caso isolato in tutta la storia del Cosmo», suggerisce Woodruff Sullivan dell’Astronomy Department and Astrobiology Program dell’Università di Washington, cofirmatario dello studio pubblicato su Astrobiology. «Questo cambio di prospettiva ci permette di affrontare la questione da un punto di vista archeologico, riducendo i termini di incertezza presenti nell’equazione originale». Il risultato? La probabilità che tra i miliardi di miliardi di sistemi stellari presenti nel Cosmo, sia esistita una forma di civiltà tecnologicamente avanzata come la nostra è altissimo: è accaduto quasi 10 miliardi di volte dai tempi del Big Bang! All’interno del nostro “piccolo” orticello, la Via Lattea con i suoi 100 miliardi di stelle, ci deve essere stata almeno una civiltà extraterrestre. «Naturalmente non abbiamo la più pallida idea di quanta probabilità abbiamo di trovare vita intelligente su un determinato pianeta abitabile», ammette Frank. «Diciamo che abbiamo individuato una soglia oltre la quale ci sono concrete probabilità che l’umanità non sia la prima civiltà sviluppata nella nostra Galassia e nell’intero Universo».
di Davide Coero Borga (INAF)

20 mila stelle per trovare ET

L’Istituto SETI si rimette in gioco con una nuova sfida “extra” interessante. I ricercatori sono infatti di nuovo a caccia di segnali radio provenienti, chissà, da civiltà aliene. L’obiettivo, come sempre, è solo uno: provare la presenza di intelligenze extraterrestri là fuori, da qualche parte nell’Universo. Gli esperti del SETI scandaglieranno ben 20 mila nane rosse (scelte da una lista di 70 mila stelle) alla ricerca di questi segnali.
«Le nane rosse hanno ricevuto una scarsa attenzione da parte degli scienziati del SETI in passato», ha osservato Jon Richards. «Questo perché ricercatori ragionevolmente ipotizzato che altre specie intelligenti si troverebbero su pianeti orbitanti attorno a stelle simili al Sole». Evidentemente, non avendo trovato finora segnali che confermano questa teoria, i ricercatori devono allargare il loro punti di vista.
Alcuni pianeti nella zona abitabile delle nane rosse, seppur in rotazione sincrona con la loro stella, potrebbero davvero essere abitabili… almeno in teoria. Se su questi pianeti ci fossero oceani e un’atmosfera, il calore verrebbe stato trasportato dal lato illuminato a quello buio e quindi una frazione significativa del pianeta sarebbe abitabile. Secondo i dati raccolti gli ultimi anni, quasi la metà delle nane rosse analizzate avrebbe pianeti nella loro zona abitabile. E se ancora non bastasse, ricordiamo che tre stelle su quattro sono nane rosse, come ha ricordato Seth Shostak. Il trucco sta nell’osservare un gruppo preciso di stelle, quelle più vicine a noi, così l’eventuale segnale potrebbe essere più forte.
Le nane rosse sembrano essere il posto giusto dove cercare vita intelligente. Gli esperti ricordano che queste stelle sono miliardi di anni più antiche delle stelle simili al Sole e dunque, osserva Shostak, «sistemi più antichi hanno avuto più tempo per formare specie intelligenti».
I ricercatori stanno sfruttando le capacità dell’Allen Telescope Array: 42 antenne gestite dal progetto SETI, nella California del Nord, in grado di osservare tre stelle contemporaneamente durante ogni sessione. La ricerca dovrebbe durare due anni. Gerry Harp ha spiegato: «Esamineremo i sistemi scelti su più bande di frequenza tra 1 e 10 GHz. Circa la metà di quelle bande si trovano a “frequenze magiche”, situate cioè in porzioni del quadrante radio in qualche modo legate a costanti matematiche fondamentali. È ragionevole supporre che gli extraterrestri, volendo attirare l’attenzione, provino a generare segnali a frequenze speciali».
Per saperne di più:

  • Vai al sito del progetto SETI

Per conoscere Seth Shostak, guarda l’intervista che rilasciò nel 2010 a INAF-TV

L’origine, l’evoluzione e la distribuzione della vita nell’Universo

L’origine, l’evoluzione e la distribuzione della vita nell’Universo è uno dei temi scientifici che negli ultimi anni sta riscontrando un interesse crescente in ambito nazionale e internazionale. L’astrobiologia ha lo scopo di accrescere le conoscenze nell’ambito di discipline fino ad ora considerate appartenenti ad aree distinte che negli ultimi anni sono state fatte convergere sinergicamente con lo scopo di raggiungere nuovi obiettivi scientifici. La presenza della vita sulla Terra è direttamente correlata sia all’origine ed evoluzione del Sistema Solare che alle condizioni iniziali presenti nella nube molecolare interstellare dalla quale il nostro pianeta ha avuto origine. La vita, così com’è conosciuta sulla Terra, è originata da complesse reazioni basate sulla chimica del carbonio, probabile risultato della interazione di molecole organiche e materiale inerte. Un altro aspetto che acquista, in questo scenario, un’importanza sempre più rilevante è lo studio dei meccanismi di trasporto e protezione del materiale biotico e degli organismi viventi come spore batteriche sulla superficie terrestre o di altri pianeti, come ad esempio Marte, attraverso impatti meteoritici e di grani cometari. Le Comete sono, infatti, i corpi più primordiali del sistema solare e il loro studio può fornire informazioni preziose sulla formazione del Sistema Solare stesso. Inoltre possono aver giocato un ruolo essenziale per la formazione della vita sulla Terra, depositando circa 4 miliardi di anni fa la materia organica dalla quale si è poi formata la vita. Per questa ragione lo studio della materia organica presente nelle comete è uno dei filoni di ricerca interessanti, visti anche i successi della sonda NASA Stardust. Un altro aspetto importante riguarda lo studio dell’abitabilità galattica, ovvero stabilire un nesso tra le condizioni fisico/chimiche in una determinata regione di una galassia e la probabilità che in tale regione possano nascere e svilupparsi forme di vita del tipo che conosciamo. Sebbene l’astrobiologia in Italia sia ancora in una fase iniziale, ha già mostrato di poter raccogliere gli interessi della comunità scientifica distribuita su tutto il territorio italiano e in continua crescita. La comunità scientifica italiana ha evidenziato la capacità di sviluppare linee di ricerca unitarie, basate su competenze e conoscenze appartenenti a diversi ambiti culturali come ad esempio la biologia, la genetica, la chimica e l’astrofisica. Si stanno conducendo presso Università di Firenze, Dipartimento di Biologia Evoluzionistica e presso il Dipartimento di Astronomia e Scienze dello Spazio studi molecolari sul processo di adsorbimento di basi nucleotidiche (A,C,T, U), nucleotidi, oligonucleotidi e ribozimi, su fillosilicati argillosi condriti carbonacee (meteorite di Murchison) e analoghi di polvere cosmica (CDA) con successive analisi delle caratteristiche chimico-fisiche e biologiche dei complessi ottenuti. Un ulteriore aspetto del problema, parallelo al precedente e sviluppato in maniera indipendente dall’Università di Padova e dall’INAFOAPd, è la sopravvivenza all’epoca attuale di forme di vita o dei loro precursori che possano essersi formati in ambienti planetari oggi alterati dall’evoluzione. Anziché simulare gli ambienti della vita nelle condizioni primordiali, attualmente non più presenti e comunque difficili da individuare e riprodurre, alcuni studi si pongono il problema pratico se sia possibile o no trovare oggi forme di vita sopravvissute in nicchie ecologiche su pianeti come Marte o Europa, le cui condizioni ambientali sono notevolmente diverse da quelle presunte per l’origine della vita. Dal 2004 il gruppo dell’INAF-OAPaha intrapreso uno studio degli effetti della radiazione X soffice di tipo stellare su molecole organiche, quali DNA e amino acidi. Parallelamente alla suddetta attività sperimentale, presso INAF-OAPa, è in fase di completamento una nuova sezione del laboratorio XACT (Xray Astronomy Calibration and Testing), una camera UHV (Ultra High Vacuum) che sarà dedicata all’Astrobiologia. Il “Laboratorio di Astrofisica Sperimentale” (LASp dell’INAF-OACt) è attivo da più di venticinque anni. Il gruppo è impegnato in una ricerca interdisciplinare sullo studio degli effetti prodotti dalle interazioni di ioni veloci (10-400 keV) e fotoni ultravioletti (Lyman-a 121.6 nm=10.2 eV) con bersagli di interesse astrofisico. Lo scopo è di studiare sperimentalmente le modificazioni chimico-fisiche di bersagli solidi (silicati, materiali carboniosi, ghiacci) bombardati con fasci ionici energetici e/o con fotoni ultravioletti. Gli studi condotti presso l’INAFOATs di abitabilità galattica sono mirati a stabilire un nesso tra le condizioni fisico/chimiche in una determinata regione di una galassia e la probabilità che in tale regione possano nascere e svilupparsi forme di vita del tipo che conosciamo. La conoscenza del tasso di formazione planetaria, e della sua evoluzione spaziale e temporale nella Galassia, è fondamentale per gli studi di abitabilità. Scopo della ricerca è gettar luce sull’efficienza di formazione planetaria a metallicità più basse, tipiche dei primi stadi di evoluzione chimica galattica. Si è visto inoltre che la polvere cosmica ha un ruolo importante nella formazione di composti molecolari fondamentali per la chimica prebiotica attiva nelle prime fasi evolutive della Terra. A causa della bassa efficienza di sintesi di molecole complesse in fase gassosa, si stanno conducendo studi presso l’INAFOAAr e il Dipartimento di Astronomia e Scienze dello Spazio di processi di formazione di macro molecole a temperature criogeniche, su superficie di grani di polvere con composizione chimica e morfologia simile a quella osservata nelle IDPs condritiche e porose. (Tratto dal sito INAF – Istituto Nazionale di Astrofisica)

Il futuro dell’astrobiologia

Sapere cosa c’è là fuori, oltre la Terra, oltre il Sistema solare, se la vita esiste altrove e non soltanto sul nostro pianeta. Questi sono solo alcuni degli ambiziosi obiettivi di astronomi e astrobiologi, insomma scienziati che dedicano la loro vita professionale a cercare altre forme di vita nell’Universo. Non parliamo di alieni, X-Files (chi non ricorda Mulder e Scully!), o fantascienza. Nella realtà ciò che fanno gli astrobiologi è cercare forme di vita batterica. Di recente sulla rivista Astrobiology è stata pubblicata la European Astrobiology Roadmap, con cui gli esperti provenienti da diversi istituti (tra cui l’INAF) e università europee hanno esaminato lo stato dell’arte del comparto astrobiologico producendo la prima tabella di marcia europea per la ricerca astrobiologica. L’astrobiologia è intesa come lo studio delle origini, dell’evoluzione e della distribuzione della vita nell’Universo, e ciò include anche l’abitabilità nel Sistema solare. Il documento si basa su 5 punti fondamentali e ne parliamo con John Brucato, astrofisico ed esobiologo dell’INAF–Osservatorio Astronomico di Arcetri.

Di cosa parla il documento? Quali i punti cardine della strategia europea?

«Quando ci chiediamo come è nata la vita sulla Terra o se esistono forme di vita altrove nello spazio stiamo parlando di astrobiologia. Per poter affrontare questo tema è necessario mettere insieme conoscenze che provengono da discipline molto diverse tra di loro come la fisica, la biologia, la chimica, la geologia, l’astrofisica e così via. Ma esiste una visione comune in Europa verso la quale concentrare gli sforzi per capire se esiste vita oltre il nostro pianeta? Insieme ad un gruppo di scienziati provenienti da vari istituti europei abbiamo deciso di preparare il documento AstRoMap – European Astrobiology Roadmap. Le idee principali su cui si fonda la roadmap europea che quindi chi si occupa di astrobiologia dovrà seguire si basano su: studiare l’origine ed evoluzione dei sistemi planetari; capire come si sono formati i composti organici nello spazio; comprendere le interazioni tra rocce e materia organica e quali sono le principali transizioni che hanno portato all’origine della vita sulla Terra; definire quali ambienti nel nostro sistema solare o in altri sistemi planetari sia abitabile; trovare le tracce di vita nei corpi del Sistema Solare. Cinque punti attorno ai quali coordinare la ricerca europea».

Gli astrobiologi lavorano a stretto contatto con i “cercatori di pianeti”, cioè gli scienziati che passano la loro vita a ispezionare ogni angolo di cielo in cerca di nuovi pianeti e – chissà – proprio di quello che un giorno potremo chiamare “nuova Terra”. Qual è il vostro ruolo? Perché la vostra disciplina è così importante? 

«La maggior parte degli esopianeti – o pianeti extrasolari, cioè che orbitano attorno ad altre stelle – scoperti fino a oggi sono giganti gassosi tipo Giove ma che orbitano alla distanza di Mercurio. Come si può facilmente intuire, le temperature elevate in questi pianeti non permettono la presenza di vita. Ma oggi sappiamo quali sono le condizioni ambientali ideali perché la vita proliferi? Ovvero siamo in grado di poter chiamare un pianeta o una particolare regione di un pianeta abitabile? L’astrobiologia attraverso lo studio di come la presenza di vita cambi l’ambiente esterno ci fornisce le indicazioni necessarie per capire se una volta scoperto un nuovo pianeta extrasolare questo possa essere abitabile. Non importa che stia alla stessa distanza della Terra dal proprio sole, basta che le condizioni di abitabilità siano presenti».

Il passato e il futuro dell’astrobiologia. Quali le scoperte più importanti del recente passato? E quali gli obiettivi del futuro segnalati anche nel documento? 

«Oggi sappiamo che batteri e licheni sopravvivono a lunghi viaggi interplanetari o che possono evolvere adattandosi alle condizioni spaziali. Questo risultato è stato ottenuto  grazie alla possibilità di utilizzare la Stazione spaziale internazionale, un grande laboratorio che orbita a circa 300 km di altezza, il luogo ideale dove compiere esperimenti di biologia o di chimica.  Partendo dall’esperimento di Miller, oggi abbiamo capito come costruire i mattoni molecolari della vita. Sappiamo che i minerali hanno avuto un ruolo importante dando il calcio di inizio alla complessità molecolare richiesta dalla vita. Nei prossimi anni sarà sempre più decisivo procedere nell’esplorazione del nostro sistema solare. Molto ancora c’è da capire. Abbiamo appena iniziato a muoverci su piccole regioni di Marte e nei prossimi anni dovremo analizzare il sottosuolo del pianeta rosso, prelevare campioni e riportarli a terra. Dovremo visitare e analizzare da vicino gli asteroidi primitivi, cioè i corpi che hanno portato l’acqua e la materia organica sulla terra. Bisognerà esplorare le lune Europa di Giove ed Encelado di Saturno. Mondi in cui esiste acqua liquida sotto una coltre di ghiaccio e dove è possibile esista la vita».

C’è da aspettarsi la presenza solo di microbi là fuori o troveremo qualcuno con cui “scambiare due chiacchiere”? 

«Bisogna distinguere due luoghi diversi nello spazio dove cercare vita, il nostro sistema solare o altri pianeti extrasolari. Sappiamo che il nostro pianeta è stato popolato per miliardi di anni, quindi per la gran parte della sua storia, solamente da batteri. Pensiamo che tra i pianeti nostri vicini di casa sarà, quindi, molto difficile trovare organismi più complessi dei batteri. Possiamo però dire che i tre grandi temi della ricerca scientifica di oggi sono la nascita dell’universo, della vita e della coscienza. Abbiamo scritto questa roadmap che riguarda uno di questi aspetti proprio per poterci dotare di strumenti comuni basati sulla conoscenza con i quali poter anche capire se esistono forme più complesse e intelligenti di vita nella nostra galassia. L’Italia e l’Europa dovranno sempre di più investire nel sapere, perché solo attraverso la conoscenza sapremo scambiare due chiacchiere con chi è diverso da noi e riuscire a non sprofondare nella barbarie».
di Eleonora Ferroni (INAF)

E.T. parla, ma nessuno lo ascolta

Telefono. Casa. La bambina che fu Drew Barrymore osserva incredula un buffo alieno dall’indice luminescente, mentre compone un lunghissimo numero di telefono, in una scena che è passata alla storia del cinema: E.T. l’extraterrestre. 1982, Steven Spielberg alla regia.
Ma cosa succederebbe se E.T. fosse stufo di stare attaccato a un ricevitore, mentre qui, da noi, il telefono suona a vuoto e nessuno risponde? La domanda al limite della realtà se la sono posta i ricercatori della McMaster University: non va escluso che l’intelligenza extraterrestre esista e stia cercando di mettersi in contatto con noi. Meglio prestare bene attenzione ai deboli segnali che giungono alle nostre orecchie elettroniche dalla periferia della Galassia.
Sarebbe un peccato trovarsi fuori campo mentre una forma intelligente di vita extraterrestre cerca di mettersi in contatto con noi.
Il punto di partenza è elementare: René Heller e Ralph Pudritz della McMaster sostengono che la concreta opportunità di trovare un segnale proveniente dall’esterno si basi sulla condivisibile considerazione che E.T. stia cercandoci con gli stessi strumenti in nostro possesso. Qui da noi, sulla Terra, astrofisici e ricercatori stanno concentrando i loro sforzi su pianeti e lune troppo lontani perché possano essere visti direttamente. Lo studio degli esopianeti passa dal monitoraggio dei transiti di questi lontani corpi celesti di fronte alla loro stella ospite.
Dalla misurazione della variazione della luminosità di una stella durante il transito di un pianeta di fronte al disco (prendendo a riferimento il nostro punto di vista di un lontano sistema planetario), gli scienziati possono desumere una serie di importantissime informazioni, senza mai vedere direttamente un mondo alieno. Stimano l’illuminazione media fornita al pianeta, la temperatura sulla sua superficie. A oggi sono decine i corpi su cui gli scienziati ipotizzano possano verificarsi condizioni favorevoli alla crescita e allo sviluppo della vita (vedi Media INAF).
Nello studio in corso di pubblicazione su Astrobiology, Heller e Pudritz rovesciano la prospettiva e si chiedono: potrebbe un’intelligenza aliena aver scoperto l’esistenza della Terra con lo stesso metodo dei transiti cui ricorrono regolarmente gli astronomi oggigiorno?
Se E.T. va a caccia di esopianeti come facciamo noi, e se per farlo si affida al metodo dei transiti, allora è meglio prestare bene attenzione ai posti da cui si ha una bella vista sul Sole e transito della Terra sul disco solare.
«È impossibile sapere se gli extraterrestri utilizzino o meno le nostre tecnologie per scrutare l’Universo», spiega Heller. «Certo devono fare i conti con gli stessi principi fisici che valgono per noi, e il sistema dei transiti è un buon metodo per portare a casa validi risultati». Ora, la zona di transito della Terra sul disco del Sole si offre a un pubblico di circa 100mila potenziali bersagli. Un numero destinato a crescere mano a mano che la nostra capacità di osservare il cielo viene incrementata e migliorata. «Se qualcuno di questi bersagli ospita vita intelligente, ebbene questa potrebbe averci individuati da tempo e un eventuale messaggio dallo spazio potrebbe essere già stato trasmesso in direzione Terra», spiega Pudritz.
Resta da capire se la telefonata da E.T. sia o meno già arrivata alle nostre orecchie. Speriamo di saper prestare la giusta attenzione a questi deboli segnali interstellari. E che la chiamata non sia addebitata al destinatario.
di Davide Coero Borga (INAF)

La ricerca della vita sugli altri pianeti

Osservare l’azoto su altri pianeti? Potrebbe essere possibile in futuro grazie alle osservazioni che già vengono effettuate dallo spazio dell’azoto presente nell’atmosfera terrestre. Grazie alle sonde  a milioni di chilometri di distanza da noi si può determinare la quantità di gas sulla Terra e, come sappiamo, l’azoto è un elemento fondamentale – con carbonio, ossigeno e idrogeno, alla costruzione dei “mattoni” che danno la vita. Provando a rilevare l’azoto fuori dal Sistema solare, quindi, gli esperti cercano forme di vita su altri pianeti o comunque cercano pianeti potenzialmente abitabili. Perché? L’azoto può fornire indizi importanti sulla pressione dell’atmosfera sulla superficie: se l’azoto è abbondante nell’atmosfera di un pianeta, quel mondo ha quasi certamente la giusta pressione per mantenere liquida l’acqua sulla sua superficie (una delle condizioni necessarie per la vita).

La Terra vista dal satellite della NASA Deep Space Climate Observatory nel luglio 2015. Crediti: NASA
In uno studio pubblicato a fine agosto su The Astrophysical JournalEdward Schwieterman, Victoria Meadows e il loro team di ricercatori mostrano come un grande telescopio del futuro potrà essere in grado di rilevare questa traccia nelle atmosfere pianeti terrestri (rocciosi). Per adesso, però, le osservazioni effettuate dallo spazio e verso la Terra con il satellite Deep Impact Flyby, lanciato dalla NASA nel 2005, da oltre 27 milioni di chilometri di distanza. I ricercatori hanno utilizzato dei dati tridimensionali ottenuti nel Virtual Planetary Laboratory dell’Università di Washington per simulare come la firma dell’azoto appare nell’atmosfera terrestre, confrontando poi questi dati con quelli del satellite NASA.
Basta quindi solo andare in cerca di azoto e ossigeno su pianeti extrasolari e il gioco è fatto? Non è esattamente così, perché l’azoto è un elemento difficile da rilevare da grandi distanze. Il modo migliore per farlo è di misurare le molecole di azoto collidere le une con le altre. Le coppie che si vengono a creare mostrano delle uniche strutture spettroscopiche.
La stessa missione aveva una “seconda parte”, EPOXI, che oltre a compiere un fly by di Hartley 2, prevedeva l’osservazione e la caratterizzazione della Terra come se si trattasse di un pianeta extrasolare. Confrontando i dati reali della missione EPOXI e i dati dai modelli del Virtual Planetary Laboratory, gli autori sono stati in grado di confermare la presenza delle collisioni di azoto nella nostra atmosfera e che potrebbero essere visibili anche a un osservatore distante. Ha detto Schwieterman: «utilizzare la Terra come un pianeta extrasolare è importante perché siamo stati in grado di confermare che l’azoto produce un impatto sullo spettro del nostro pianeta visto da un veicolo spaziale lontano. Questo ci dice che vale la pensa guardare altrove». FOTO: la Terra vista dal satellite della NASA Deep Space Climate Observatory nel luglio 2015. Crediti: NASA.
di Eleonora Ferroni (INAF)

Civiltà aliene: nessuna traccia nell’universo vicino (scansionate 100 mila galassie)

Se là fuori esiste una civiltà aliena tecnologicamente evoluta non lo possiamo certo sapere. Ma se ci fosse è probabile che l’emissione nel medio infrarosso dovuta al massiccio utilizzo di energia possa essere rilevata dai nostri telescopi.
Così suggeriva il fisico teorico Freeman Dyson nel lontano 1960: è plausibile che una civiltà sufficientemente evoluta da viaggiare nello spazio debba utilizzare considerevoli quantità di energia ricavate dalle stelle che popolano la sua galassia di appartenenza. Energia necessaria per alimentare la propria tecnologia, la flotta spaziale, le telecomunicazioni e chissà che diavolo non riusciamo a immaginare. Energia ben visibile nella lunghezza del medio infrarosso.
Ebbene un gruppo di ricercatori ha raccolto questa sfida e servendosi dei dati raccolti dal telescopio spaziale NASA WISE  ha deciso di fare la prova del nove, verificando le emissioni di 100.000 galassie nella fetta di universo a ridosso della Via Lattea.
«L’idea alla base della nostra ricerca – spiega Jason T. Wright del Center for Exoplanets and Habitable Worlds, Pennsylvania State University – è che, se un’intera galassia fosse colonizzata da una civiltà evoluta capace di muoversi agilmente nello spazio, l’energia prodotta dalle tecnologie aliene dovrebbe essere rilevabile nell’infrarosso, compito per il quale WISE è stato progettato ad hoc. Anche se finora i suoi dati sono stati utilizzati esclusivamente a fini astronomici».
Di ET però non c’è traccia: la scansione di 100.000 galassie ha dato esito negativo. Questi i risultati dello studio di G-HAT, la Glimpsing Heat from Alien Technologies Survey, appena pubblicati su The Astronomical Journal.
Roger Griffith, primo firmatario dello studio, ricercatore della Pennsylvania State University, assicura che il catalogo dati di WISE è stato perlustrato da cima a fondo. Quasi 100 milioni di voci, da cui sono state tirate fuori le 100 mila immagini migliori. Risultato: almeno 50 galassie presentano un’insolita attività nella radiazione media infrarossa. Se c’è qualche cosa che esce dalla norma lo dovremmo sapere a breve.
Nell’attesa ci portiamo a casa un risultato scientifico nuovo e interessante: nell’universo vicino non c’è traccia di civiltà aliene tanto evolute da popolare una galassia. E di tempo ne avrebbero avuto per sviluppare tecnologie d’avanguardia. «O gli extraterrestri non esistono, o non utilizzano ancora livelli di energia tali da essere individuati dai nostri telescopi», taglia corto Wright.
O forse, più semplicemente, se la godono comodi sul divano di casa.
di Davide Coero Borga (INAF)

Quarant’anni fa partiva un messaggio radio verso M 13: in attesa di risposte la ricerca non si ferma

Il 16 novembre 1974 si svolse un importante capitolo nella ricerca delle intelligenze extraterrestri: dal radiotelescopio di Arecibo nell’isola di Porto Rico fu inviato un messaggio radio destinato ad ipotetici esseri intelligenti extraterrestri.


Il messaggio di soli 1679 bit, espresso in codice binario, fu inviato verso l’ammasso globulare M 13 nella costellazione di Ercole, distante circa 23.500 anni luce. Si tratta di una sequenza di 0 e 1 da disporre su una matrice 23×73 che mostrava vari dati tra cui: i numeri da 1 a 10; i numeri atomici degli elementi idrogeno, carbonio, azoto, ossigeno e fosforo; le molecole che compongono il DNA; il numero dei nucleotidi nel DNA; la rappresentazione grafica della doppia elica del DNA; la rappresentazione grafica di un essere umano; la sua altezza media; il numero degli abitanti della Terra; la rappresentazione grafica (non in scala) del Sistema Solare (compreso Plutone), con la Terra spostata verso l’immagine dell’uomo; la rappresentazione grafica del radiotelescopio di Arecibo.
Viaggiando con le onde radio alla velocità della luce il messaggio ha finora percorso 40 dei 23.500 anni luce che ci separano da M 13. Supponendo che l’ipotetico extraterrestre intelligente riceva il messaggio, lo interpreti subito correttamente identifichi il Sistema Solare e il pianeta da cui il messaggio è partito, e risponda senza perdere tempo, la risposta aliena giungerà sul nostro pianeta fra 47 mila anni (meno i 40 già trascorsi …)!

L’esperimento del 1974 non passò indenne da critiche e controversie poichè in molti si chiesero se un piccolo gruppo di persone anche se scienziati avessero il diritto di inviare un messaggio del genere a nome di tutti gli abitanti della Terra.
Una eventuale intelligenza extraterrestre se ostile e superiore tecnologicamente alla Terra avrebbe potuto decidere di invadere o distruggere il nostro pianeta. In altre parole si obiettava che rilevare la posizione del nostro pianeta a sconosciuti come pure il nostro livello tecnologico potesse essere una situazione di pericolo per la Terra. Certo la distanza avrebbe garantito almeno altri 47 mila anni di tranquillità, ma comunque discuterne era ormai inutile perchè il messaggio era partito.
In questa affascinante avventura cosmica alla ricerca di ET le sfide e le difficoltà più importanti riguardano comunque l’enorme distanza tra trasmittenti e riceventi e la mancanza di un protocollo di comunicazione valido per noi e per gli eventuali extraterrestri intelligenti. Il contatto radio tra due civiltà intelligenti dovrebbe essere seguito dall’elaborazione di un linguaggio comune che permetta di comunicare tra le due civiltà; altrimenti l’unico risultato per entrambe le civiltà sarebbe quello di avere la certezza di non essere soli nell’Universo.
Comprendere che un messaggio provenga da una civiltà extraterrestre è un conto un’altra cosa è elaborare un linguaggio per comunicare e scambiare informazioni più complesse.
In Italia la città di Tradate in provincia di Varese è molto legata all’evento del messaggio di Arecibo del 1974. Infatti, il Gruppo Astronomico Tradatese (GAT) è stato fondato nel 1974 e mostra nel proprio logo la costellazione di Ercole con annotato l’ammasso globulare M 13; inoltre La T di GAT è stata curvata in modo da rappresentare il radiotelescopio di Arecibo mentre invia il messaggio verso M 13. Sempre a Tradate l’Osservatorio Astronomico inaugurato nel 2007 ha come sigla FOAM13 (Fondazione Osservatorio Astronomico M 13). E proprio a Tradate è stato istituito un progetto di ricerca SETI  innovativo al quale possono associarsi altro Osservatori e anche singoli astrofili.
Nelle immagini il radiotelescopio di Arecibo e il messaggio di Arecibo

Il SETI

Il SETI è un programma scientifico dedicato alla vita intelligente extraterrestre nel cosmo; una vita non solo intelligente ma anche abbastanza evoluta tanto da essere in grado di inviare e ricevere segnali radio nel cosmo. Questo programma si divide principalmente in due sezioni, denominate SETI passivo e SETI attivo. Il primo è effettuato dai ricercatori e dagli scienziati che cercano di captare i segnali radio inviati nel cosmo dalle eventuali intelligenze extraterrestri evolute; il secondo ha il compito di inviare i segnali della nostra presenza sulla Terra a eventuali altre civiltà extraterrestri abbastanza evolute in grado di captarli. Il SETI passivo è certamente quello che più impegna i ricercatori e gli scienziati che si occupano ormai da decenni della ricerca della vita intelligente extraterrestre soprattutto attraverso i radiotelescopi che scandagliano il cosmo alla ricerca di eventuali segnali alieni (senza finora alcun risultato). Per approfondimenti visita il sito http://www.seti.org.
Tratto da “Quel messaggio per ET in viaggio verso M 13” di Giuseppe Palumbo ORIONE novembre 2014 pagina 52

Voci precedenti più vecchie