Fusione di buchi neri

Stando ad un recente studio, frutto di dati raccolti dal radiotelescopio Very Large Array (VLA), nell’Universo potrebbe esserci un numero di coppie di buchi neri supermassicci minore di quanto si pensasse. Le galassie massicce ospitano nel loro nucleo centrale buchi neri con masse pari a milioni di volte il nostro Sole. Quando due galassie di questo tipo si scontrano, i loro buchi neri supermassicci si avvicinano in una stretta danza orbitale che li porta, nel tempo, ad unirsi. Gli scienziati ritengono che questo avvicinamento sia la fonte più intensa di onde gravitazionali che la natura possa fornirci. «Le onde gravitazionali rappresentano la prossima grande frontiera dell’astrofisica, e la loro rilevazione porterà a una nuova comprensione dell’Universo», ha dichiarato David Roberts dellaBrandeis University, autore principale della ricerca. «È importante avere quante più informazioni possibili circa le fonti di questo segnale sfuggente», ha aggiunto. Le onde gravitazionali non sono altro che increspature nello spazio-tempo, e sono state previste nel 1916 da Albert Einstein come conseguenza della sua teoria della relatività generale. La prima prova indiretta dell’esistenza di questo tipo di onde è stata ottenuta studiando il comportamento di una pulsar in orbita attorno ad un’altra stella di neutroni, un sistema scoperto nel 1974 da Joseph Taylor e Russell Hulse. Le osservazioni di questo sistema binario sono durate diversi anni e hanno dimostrato che le loro orbite si stanno riducendo esattamente al tasso previsto dalle equazioni di Einstein, che prevedono una perdita di energia del sistema sotto forma, appunto, di onde gravitazionali. Nel 1993 Taylor e Hulse ha ricevuto il Premio Nobel per la fisica per questo lavoro, che ha confermato un effetto previsto per le onde gravitazionali. Tuttavia, non ne esiste ancora alcun rilevamento diretto. Nel tentativo di rilevare le onde gravitazionali, gli astronomi di tutto il mondo stanno conducendo programmi di monitoraggio delle pulsar in rapida rotazione.  L’estrema precisione dei segnali emessi dalle pulsar ci permette di monitorare ogni loro minima variazione di rotazione. Il monitoraggio delle pulsar prevede la ricerca di spostamenti nei loro segnali luminosi, poiché tali spostamenti sarebbero causati dalle deformazioni del tessuto spazio-temporale riconducibili alle onde gravitazionali. Roberts e suoi colleghi hanno studiato nel dettaglio un campione di galassie note come “radio galassie a forma di X” (in inglese “X-shaped radio galaxies”), la cui peculiare struttura indica la possibilità che i getti radio osservati, che emettono particelle a grandi velocità strappandole dai dischi galattici, abbiano cambiato direzione nel tempo. Gli astronomi hanno suggerito che tale cambiamento potrebbe essere causato dalla fusione con un’altra galassia, che implicherebbe una variazione di direzione dell’asse di rotazione del buco nero e di quello del getto. Il team ha lavorato su un elenco di circa 100 oggetti, ha quindi raccolto i dati di archivio del VLA per ottenere immagini di altissima qualità per una selezione di 52 sorgenti tra le più promettenti. L’analisi delle nuove immagini ha portato alla conclusione che solo 11 sono reali candidati ad essere classificati come frutto di fusioni galattiche. I cambiamenti di direzione dei getti delle altre galassie, hanno concluso, avevano altre cause. Estrapolando da questo risultato, gli astronomi hanno stimato che meno dell’1.3% delle galassie con emissione radio estesa hanno effettivamente sperimentato fusioni. Questo tasso è cinque volte inferiore alle stime precedenti. «Questo potrebbe comportare una riduzione significativa del livello di onde gravitazionali che ci aspettiamo di osservare da queste peculiari radio galassie rispetto a quanto stimato in precedenza», ha detto Roberts. «Sarà molto importante conoscere l’emissione di onde gravitazionali attesa dagli oggetti di cui conosciamo il comportamento elettromagnetico: ci permetterà di migliorare la nostra comprensione della fisica fondamentale».
di Elisa Nichelli (INAF)

Buchi neri vs Stelle di neutroni

Alcune stelle di neutroni possono essere decisamente le rivali dei buchi neri per quanto riguarda il meccanismo di accelerazione dei getti di materia fino a velocità relativistiche. È quanto emerge da uno studio condotto da alcuni astronomi che hanno utilizzato l’interferometro radio Very Large Array (VLA). I risultati sono riportati su Astrophysical Journal. «E’ un fatto sorprendente e ci dice che qualcosa che non sospettavamo prima sta accadendo in alcuni sistemi binari composti da una stella di neutroni e da una normale stella compagna», spiega Adam Deller di ASTRON, l’istituto olandese di radioastronomia, e autore principale dello studio. I buchi neri e, a seguire, le stelle di neutroni sono le forme di materia più dense che conosciamo nell’Universo. Nei sistemi binari dove questi straordinari oggetti orbitano attorno ad una stella ordinaria (la compagna), il gas può propagarsi da quest’ultima verso l’oggetto compatto, producendo spettacolari e potenti getti di materia che si propagano nello spazio a velocità prossime a quella della luce. Prima, sapevamo che i buchi neri erano i “re indiscussi” della formazione di potenti getti relativistici. Anche quando si considera una minima quantità di materia, l’emissione radio che traccia il flusso del getto emergente dal buco nero appare ancora brillante. A confronto, le stelle di neutroni sembra che producano getti relativamente più sottili, anche se l’emissione radio risulta abbastanza brillante da permette di vedere come esse catturano il materiale dalla loro compagna a un tasso molto elevato. Ciò ha portato gli astronomi a pensare che una stella di neutroni, mentre consuma “senza fretta” il materiale dalla compagna, formi solamente getti molto deboli per essere rivelati. Ma di recente, una serie di osservazioni combinate radio e X della stella di neutroni PSR J1023+0038 hanno completamente rovesciato questo pensiero. L’oggetto, osservato nel 2009 dall’astronoma Anne Archibald di ASTRON, è il prototipo di una cosiddetta “pulsar millisecondo transiente”, cioè una stella di neutroni che trascorre la sua vita in uno stato di non-accrescimento che occasionalmente cambia passando ad una fase di accrescimento. Quando è stata osservata nel 2013 e poi nel 2014, la stella di neutroni stava accrescendo solo una minuscola quantità di materia e perciò avrebbe prodotto un getto molto debole. «Sorprendentemente, le nostre osservazioni radio con il VLA hanno mostrato una emissione radio relativamente forte, indicando la presenza di un getto la cui intensità è quella che ci aspettiamo nel caso di un buco nero», dice Deller. Finora si conoscono altri due sistemi “transienti” che esibiscono potenti getti radio simili a quelli prodotti dalle controparti dove sono presenti i buchi neri. La domanda è: che cosa rende speciali questi sistemi transienti rispetto alle altre stelle di neutroni? Per rispondere a questa domanda, Deller e colleghi stanno programmando ulteriori osservazioni di sistemi transienti noti per affinare i modelli teorici relativi al processo di accrescimento.
di Corrado Ruscica (INAF)

La nebulosa lampeggiante

Su Media INAF ne parlano spesso (le due news più recenti sono qui e qui), anche perché oltre all’indubbio interesse scientifico che sollevano, le loro immagini sono davvero spettacolari. Le nebulose ad emissione, composte principalmente da idrogeno  caldo e ionizzato (da qui la loro denominazione tecnica H II, dove H sta per idrogeno, II è il termine che ne indica lo stato di ionizzazione, dovuto alla perdita del suo unico elettrone) brillano di luce propria grazie all’intenso flusso di radiazione, soprattutto ultravioletta, prodotta dalle stelle giovani e di grande massa che si trovano al loro interno. Ma perché, nonostante il grande flusso di radiazione ricevuto, queste nebulose, oltre a venire surriscaldate, non vengono spazzate via? A dare una risposta a questo fondamentale quesito che da vari decenni arrovella gli astrofisici ci prova la ricerca guidata da Chris De Pree, direttore del Bradley Observatory presso l’Agnes Scott College negli Stati Uniti, recentemente pubblicata in un articolo sulla rivista The Astrophysical Journal Letters. De Pree e i suoi colleghi, osservando la nebulosa denominata Sgr B2 (Sagittarius B2) con lo Jansky Very Large Array (VLA), un radiotelescopio nel New Mexico, hanno confermato quelle che prima erano solo speculazioni teoriche. Ovvero, che nelle nubi dove stanno formandosi stelle massicce si addensano anche strutture filamentose di gas che assorbono una frazione rilevante della radiazione ultravioletta. Con il risultato che la nebulosa nel suo complesso tende temporaneamente a raffreddarsi e a ridurre la sua luminosità. “Nel vecchio modello teorico, quando si viene a formare una stella di grande massa la regione H II attorno ad essa si ‘accende’ e comincia a espandersi. Tutto era chiaro e ordinato” spiega De Pree. “Ma il gruppo di astrofisici teorici con cui collaboro hanno messo a punto simulazioni che dimostrano come le fasi di accrescimento della stella continuassero durante la sua formazione e che la materia continuasse a cadere verso la stella anche dopo che la regione H II si era formata”. Questo perché il gas interstellare che circonda le stelle massicce non cade uniformemente sulla stella ma invece costituisce concentrazioni filamentose modellate dalla forza di gravità. Quando la radiazione prodotta dalla stella massiccia investe i filamenti, questi ne assorbono principalmente la sua componente ultravioletta, schermando il gas circostante. Considerando questo effetto, si spiega non solo come il gas può continuare a cadere verso le stelle, ma anche perché le nebulose ionizzate osservate con il VLA sono così piccole: esse tendono a contrarsi quando non sono più ionizzate e nel corso del tempo la loro luce sembra tremolare come quella una candela. Queste transizioni in cui il gas passa da uno stato rarefatto a uno di elevata densità e viceversa avvengono  assai rapidamente rispetto agli altri eventi astronomici, addirittura nel giro di poche decine di anni, così come emerge dal confronto delle osservazioni del VLA della regione Sagittario B2 nel 1989 e nel 2012. “La tendenza a lungo termine è sempre la stessa, cioè che le regioni H II si espandono con il tempo”, conclude De Pree. “Ma ad osservarle in modo più accurato diventano più luminose o più deboli in modo ciclico. Misurazioni accurate nel corso del tempo sono in grado di mostrare questo processo più complesso”.
di Marco Galliani (INAF)

Chandra svela il getto di Sgr A*

L’osservatorio orbitante a raggi X della NASA Chandra ci stupisce con una nuova scoperta. Un gruppo di ricercatori, utilizzando anche il radio telescopio Very Large Array (VLA), ha finalmente trovato prove quasi certe della presenza di un potente getto proveniente da Sagittarius A* (Sgr A*), il massiccio buco nero al centro della nostra Via Lattea (almeno 4 milioni di volte più massiccio del Sole). Le scrupolose ricerche sono andate avanti per decenni, usando anche altri strumenti, ma mai finora erano riuscite a confermare tale ipotesi. Come nascono questi getti? Gli scienziati ritengono che si formino quando del materiale galattico cade al centro del buco nero, che lo respinge all’esterno. Sgr A* è un buco nero che si trova a 26 mila anni luce dalla Terra e, almeno negli ultimi secoli, è poco attivo (vuol dire che ingloba poco materiale) ed è per questo che il getto non è molto visibile ed è debole. Lo studio è stato effettuato dal settembre 1999 al marzo del 2011, con un totale di 17 giorni di esposizione. I getti di particelle ad alte energie sono stati studiati già in passato e si trovano in tutto l’Universo e sono prodotti da giovani stelle o da buchi neri anche migliaia di volte più grande della nostra galassia. A cosa servono? Trasportano grandi quantità di energia dal centro dell’oggetto e regolano così, in certo senso, la formazione delle nuove stelle in zone limitrofe. Dalle ultime osservazioni si nota che l’asse di rotazione di Sgr A* punta nello stesso verso dell’asse di rotazione della Via Lattera. Questo suggerisce agli studiosi che gas e polvere sono migrati costantemente nel buco nero negli ultimi 10 miliardi di anni. Il getto produce raggi X rilevati da Chandra e le emissioni radio, invece, sono state catturate dal VLA. Le due prove maggiori dell’esistenza del getto sono una linea retta di raggi X che emette gas puntando verso Sgr A * e un’onda d’urto vista nei dati di VLA, dove il getto sembra scontrarsi col gas. Inoltre, lo spettro di Sgr A * assomiglia a quella dei getti provenienti da buchi neri supermassicci in altre galassie.
di Eleonora Ferroni (INAF)

Il campo magnetico salverà la Nube di Smith

Sembrerebbe quasi la scena di un film fantascientifico/apocalittico: una nube interstellare di idrogeno che sta per scontrarsi con la Via Lattea. Ma tiriamo un sospiro di sollievo: i terrestri non corrono alcun pericolo, anche perché l’impatto è previsto fra 30 milioni di anni e anche nelle peggiore delle ipotesi non dovrebbero verificarsi eventi catastrofici. Nel 1963 l’astronomo Gail Bieger scoprì quella che oggi viene la Nube di Smith, una nube di gas magnetici, grande all’incirca 2 milioni di volte il nostro Sole (è lunga 11 mila anni luce, larga 2500 anni luce). Viaggia verso la nostra Galassia oltre 200km/secondo e si trova a “soli” 8 mila anni luce. Un team di astronomi ha usato il Very Large Array (VLA) e il Green Bank Telescope (GBT) per studiare il campo magnetico che tiene insieme la nube, preservando la sua composizione chimica e fisica. La scoperta potrà aiutare gli esperti a studiare nel dettaglio le high velocity clouds (HVCs), vale a dire le nubi ad alta velocità, e come siano rimaste intatte durante i loro impatti con le galassie, fornendo di volta in volta “carburante” per la formazione di nuove stelle. L’impatto causerà, infatti, una “spettacolare” esplosione con conseguente formazione stellare: la nube contiene una quantità di idrogeno molecolare che sarebbe sufficiente per formare oltre un milione di stelle come il nostro Sole. Prima, però, dovrà sopravvivere al passaggio attraverso l’atmosfera del gas caldo ionizzato che circonda la Via Lattea. Quando la Smith Cloud  (così è chiamata in inglese) si fonderà con la Via Lattea si potrebbe produrre un anello brillante di stelle simile a quello relativamente vicino al nostro Sole noto come la Cintura di Gould: si tratta di un gruppo di stelle molto giovani distribuite proprio a forma di anello, il cui diametro è approssimativamente di 3000 anni luce, e formato probabilmente in questo modo fra i 30 e i 50 milioni di anni fa. «L’atmosfera superiore della Galassia raggiunge temperature altissime (milioni di gradi) e dovrebbe distruggere queste nubi di idrogeno prima di raggiungere il disco in cui la maggior parte delle stelle si formano», dice Alex Hill, un astronomo del Commonwealth Scientific and Industrial Research Organization (CSIRO) in Australia e autore dello studio pubblicato su Astrophysical Journal. «Nuove osservazioni hanno rivelato che una di questa nube ha cominciato a sgretolarsi ma gli scudi magnetici potrebbero proteggerla dall’impatto». Ci sono milioni di nubi ad alta velocità che gironzolano attorno alla Via Lattea, ma la loro orbita di rado incrocia quella della nostra Galassia. Questo porta gli astronomi a ritenere che le HVCs siano formate dal materiale residuato dalla formazione della Via Lattea, oppure siano state sottratte dalla nostra Galassia o a una vicina compagna. Nonostante quella scoperta dai ricercatori sia la migliore prova di un campo magnetico all’interno di una nube ad alta velocità, l’origine del campo della Smith Nube rimane ancora un mistero. «Il campo che osserviamo oggi è troppo grande per essere esistito nel suo stato attuale quando si è formata la nuvola», specifica Hill. «Il campo è stato probabilmente amplificato dal movimento della nube attraverso l’alone galattico». Osservazioni precedenti dimostrano che la nube è già sopravvissuta a un incontro con la Via Lattea e adesso, a ottomila anni luce di distanza, ci riprova ancora. Secondo gli esperti la Smith Cloud è unica nel suo genere, soprattutto se si pensa all’interazione con la nostra Galassia. «Ormai sembra quasi una cometa, proprio perché sente l’influenza della Galassia», ha detto Felix J. Lockman, astronomo del National Radio Astronomy Observatory (NRAO) a Green Bank.  La sua forma allungata è l’effetto delle forze mareali della Via Lattea che potrebbero portare alla sua frammentazione. Proprio per questo i ricercatori sono sicuri che si stia avvicinando e non allontanando da noi.
di Eleonora Ferroni (INAF)

Le sette meraviglie dell’astronomia

Le sette meraviglie del mondo antico di cui parlò lo storico greco Erodoto erano imponenti costruzioni, veri esempi di maestosità come la Grande Piramide di Giza, il Faro di Alessandria, il Colosso di Rodi, la Statua di Zeus a Olimpia, ma anche i Giardini pensili di Babilonia, il Mausoleo di Alicarnasso, e il Tempio di Artemide a Efeso.
Nell’ultimo numero di Orione (n.223) in un articolo di Massimiliano Razzano, seguendo l’esempio degli antichi, l’autore ha provato a declinare le sette meraviglie in chiave astronomica. In particolare sono stati scelti sette strumenti attualmente in funzione che rappresentano meglio l’astronomia dei nostri tempi e ci stanno aiutando a scoprire i segreti del cosmo.
Al primo posto troviamo “sua eccellenza” il Telescopio Spaziale Hubble che da ormai venti anni ci regala scoperte sempre più sensazionali. Dopo una carriera lunga e brillante Hubble si sta avviando alla meritata “pensione” e sarà sostituito dal telescopio spaziale James Webb, il cui lancio è previsto per il 2013.
A circa 2600 metri di quota sul Cerro Paranal, nel mezzo del deserto di Acatama, in Cile, si trova una delle “macchine astronomiche” più complesse mai costruite dall’uomo. E’ il Very Large Telescope (VLT), un sistema di ben quattro telescopi. Il VLT è lo strumento astronomico più produttivo sulla superficie terrestre.
Un altro vero e proprio gigante è il Gran Telescopio Canarias (GTC), con uno specchio di ben 10,4 metri di diametro. E’ installato a circa 2400 metri di altitudine sul Roque de los Muchachos nell’isola di La Palma alle Canarie. Il GTC pesa circa 350 tonnellate e sta in un edificio alto circa 40 metri.
Al quarto posto ecco il VLA (Very Large Array), il grande osservatorio radioastronomico costruito nel deserto del Nuovo Messico. Il VLA è formato da 27 radiotelescopi da 25 metri di diametro ciascuno che possono muoversi su rotaia lungo un percorso a forma di Y che si estende per circa 20 chilometri. I segnali provenienti dai singoli radiotelescopi possono essere combinati per ottenere una risoluzione angolare altissima. Per esempio quando le singole antenne sono disposte alla massima distanza fra di loro, il VLA è equivalente ad un singolo radiotelescopio da 36 km di diametro. Il VLA è uno dei più importanti osservatori radio del mondo e gli astronomi lo usano per indagare molte sorgenti nell’Universo, dalle galassie attive alle pulsar, dal gas interstellare agli oggetti del Sistema Solare.
Per studiare i raggi cosmici ad altissime energie, è nato il Pierre Auger Observatory: un enorme complesso di rivelatori di particelle costruito su un’area di circa 3000 km quadrati nella pampa argentina. Secondo il progetto originale nei prossimi anni verrà costruito in Colorado un altro osservatorio Auger per tenere sotto controllo con le stesse modalità anche il cielo boreale.
Nelle vicinanze di Cascina, in provincia di Pisa, si trova uno degli strumenti scientifici più avanzati al mondo. Si tratta di Virgo, un esperimento italo-francese per la rivelazione diretta delle onde gravitazionali. Finora le onde gravitazionali non sono ancora state rivelate, ma i ricercatori di Virgo stanno lavorando a Virgo advanced, una nuova versione del rilevatore molto più sofisticata.
Per rivelare i neutrini di alta energia provenienti dal cosmo, i ricercatori stanno costruendo nuove grandi strumentazioni, come l’Astronomy with a Neutrino Telescope and Abyss environment RESearch (ANTARES), un enorme sistema di rivelazione che è stato costruito al largo delle coste francesi presso Tolone, ad una profondità di quasi 2500 metri sotto il livello del mare. Per rivelare i neutrini, infatti, Antares sfrutta proprio l’acqua come elemento attivo, ovvero come se fosse una pellicola fotografica. Infatti i neutrini attraversando l’acqua possono interagire con gli atomi e produrre altre particelle subatomiche come i muoni. Oltre all’acqua è possibile sfruttare anche il ghiaccio, infatti vi sono strumentazioni analoghe costruite in Antartide, come quella chiamata AMANDA, e il futuro IceCube.
E fino a qui siamo a sette, ma le meraviglie dell’astronomia contemporanea sono molte di più. Basta pensare, fra gli altri, al Telescopio Spaziale Infrarosso Herschel, all’osservatorio per raggi X Chandra, al nuovo telescopio per raggi gamma Fermi o al recente satellite Planck.
Elaborato da: Le sette meraviglie dell’astronomia di Massimiliano Razzano in Orione dicembre 2010