Pasto stellare per il buco nero

Quando una stella arriva a una distanza critica da un buco nero supermassiccio (SMBH) le poderose forze mareali deformano la stella creando un flusso di detriti che cadono all’interno del buco nero illuminando lo spazio circostante con una “fiammata” luminosa. E’ questo lo spettacolo a cui ha assistito un gruppo di ricercatori utilizzando un piccolo telescopio – il ROTSE IIIb – presso McDonald Observatory (negli Stati Uniti) per un’analisi durata ben 5 anni. Pubblicando i dati della ricerca su The Astrophysical Journal, gli scienziati sono riusciti a testimoniare il vorace pasto di un buco nero.
Il 21 gennaio 2009 il telescopio ROTSE IIIb ha catturato un evento estremamente luminoso. L’ampio campo di vista consente al telescopio di scattare immagini di grandi porzioni cielo ogni notte alla ricerca di nuove stelle che esplodono. Con una magnitudo di -22,5, l’evento registrato a inizio 2009 è stato brillante e potente come l’esplosione di una supernova superluminosa (le più brillanti esplosioni stellari finora conosciute) scoperta sempre grazie a questo telescopio. L’evento è stato ribattezzato Dougie (nome familiare per i fan di South Park), anche se il suo nome tecnico è ROTSE3J120847.9+430121. Il team di esperti ha pensato si trattasse di una supernova e per questo hanno cercato per molto tempo la sua galassia ospite, impresa impossibile perché sarebbe stata troppo debole da essere vista da ROTSE. Qualche tempo dopo hanno scoperto che la Sloan Digital Sky Survey aveva già mappato una debole galassia rossa proprio nella zona dell’evento Dougie. Utilizzando poi uno dei giganti telescopi Keck alle Hawaii, il gruppo di scienziati è riuscito a capire la distanza della galassia da noi, circa tre miliardi di anni luce.
Il problema successivo è stato quello di definire e caratterizzare l’evento: una supernova superluminosa oppure la collisione tra due stelle di neutroni? Il team ha anche pensato a un lampo gamma o a un evento ancora più distruttivo, cioè proprio quello che stavano cercando. Una stella è stata smembrata, nel vero senso della parola, man mano che si avvicinava al buco nero al centro della sua galassia ospite. Gli esperti hanno poi ripreso le osservazioni, prima all’ultravioletto con il telescopio orbitante Swift e poi raccogliendo dati con il telescopio ottico Hobby-Eberly. Hanno anche usato dei modelli al computer su come la luce di diversi processi fisici potrebbero spiegare il comportamento di Dougie.
Il principale autore dello studio, Jozsef Vinko dell’Università di Seghedino in Ungheria, ha spiegato che monitorando la variazione di luce «abbiamo capito che si trattava di qualcosa che nessuno aveva mai visto prima». J. Craig Wheeler, dell’Università del Texas, ha aggiunto che «l’immensa forza gravitazionale del buco nero tira la stella da un lato più che da un altro provocando strappi che distruggono la stella», dopo averla deformata fino a darle una forma allungata “a spaghetto”. Il ricercatore ha sottolineato, inoltre, che la stella «non cade direttamente al centro del buco nero, bensì dovrebbe formare prima un disco».  Al temine della ricerca gli esperti hanno affermato che Dougie era una stella dalla massa simile al nostro Sole prima di essere “divorata”. In più hanno scoperto che il buco nero ha una massa pari a un milione di soli.
In realtà non è la prima volta che si parla di questo fenomeno, ma è la prima volta che gli astronomi assistono a un evento così raro: la stella “è dura a morire”, a quanto sembra, insomma, si ribella al buco nero. Alcuni modelli sviluppati dal team di James Guillochon di Harvard e di Enrico Ramirez-Ruiz dell’Università della California, Santa Cruz, hanno dimostrato che la materia stellare stava generando così tanta radiazione che ha spinto indietro la stella: dai dati sembra che il buco nero stesse quasi soffocando durante il lauto spuntino.
di Eleonora Ferroni (INAF)

Si riapre il ‘caso G2’: nube o stella?

Potremmo tranquillamente ribattezzarlo il “caso G2”, in perfetto stile forense. Vari gruppi di ricerca stanno portando infatti da anni “prove” fatte di osservazioni, simulazioni al computer e deduzioni, per risolvere un enigma che infervora gli scienziati coinvolti nello studio della nostra Galassia. Ma andiamo per ordine, riassumendo gli “atti” finora raccolti. G2 è la sigla di un oggetto prossimo al buco nero al centro della Via Lattea, la cui stessa natura è assai dibattuta. E’ stato scoperto da un team di ricercatori del Max-Planck-Institut für Extraterrestrische Physik in Germania guidati da Stefan Gillessen nel 2011, che lo descrissero come una nube di gas (principalmente idrogeno ed elio), fredda e prossima al buco nero supermassiccio che risiede nel centro della nostra Galassia, ovvero Sagittarius A*. Così vicina da far ritenere loro che il suo destino fosse quello di precipitare in tempi brevi nello stesso buco nero.  Alcuni astronomi tuttavia non si sono mai mostrati convinti né dell’ipotesi dell’ingestione né che addirittura G2 fosse una nube di gas. Altre indagini, condotte questa volta con il telescopio Keck alle isole Hawaii sotto la guida di Andrea Ghez dell’UCLA, hanno portato appena qualche giorno fa ad un netto ribaltamento dello scenario. G2 sarebbe una stella di grande massa, frutto della recente fusione di un sistema binario, che nel passaggio ravvicinato con Sagittarius A* avrebbe perso solo una frazione del suo inviluppo esterno di gas e si sarebbe quindi mantenuta ancora intatta dopo il pericoloso fly-by del buco nero. Tutto chiarito dunque? Neanche per idea. La prova d’appello che ‘riabilita’ G2 al rango di nube di gas è stata portata in queste ultime ore, e proprio dal team del Max Planck che la aveva scoperta tre anni fa, con un articolo accettato per la pubblicazione sulla rivista The Astrophysical Journal. I ricercatori hanno infatti studiato G2 nell’infrarosso con il telescopio VLT dell’ESO e lo strumento SINFONI, giungendo alla conclusione che la sua struttura e la sua traiettoria sono in accordo con quelle di una nube di gas che sta subendo un processo di distruzione mareale sotto l’intenso campo di attrazione gravitazionale esercitato da Sagittarius A*. Ma non è tutto. Il riesame accurato dei nuovi dati e di quelli già raccolti in passato su G2 rivela un’inaspettata conclusione. «Quasi dieci anni fa, sempre in prossimità del centro della Galassia, è stata osservata un’altra nube di gas, che ora abbiamo ribattezzato G1» sottolinea Stefan Gillessen. «Abbiamo indagato possibili relazioni tra questa e G2, scoprendo una incredibile somiglianza nelle loro orbite». Gillessen si riferisce all’analisi fatta dal suo team in base a osservazioni compiute tra il 2004 e il 2008. Le informazioni hanno permesso dapprima di ricostruire l’orbita di G1, che è stata poi inserita, insieme a quella di G2, in un modello teorico che descrive l’evoluzione di queste strutture. Dalla simulazione è emerso che si tratterebbe di due nubi prodotte da un unico flusso di gas iniziale. «Il buon accordo del modello con i dati rende plausibile l’idea che G1 e G2 siano due parti di uno stesso ammasso di gas» dice Gillessen. Questo materiale potrebbe essere stato espulso un centinaio d’anni fa da una delle stelle massicce del disco della Via Lattea  prossime al centro. Meno probabile, almeno a quanto indicano le osservazioni del VLT, che G2 sia una stella di grande massa, come ribadito da Ghez e collaboratori. Chi la spunterà? Difficile dirlo ora. Di sicuro però c’è che il “caso G2” è tutt’altro che archiviato.
di Marco Galliani (INAF)

Una stella di 13,6 miliardi di anni

La stella più vecchia dell’Universo. A scoprirla un gruppo di astronomi australiani che avrebbe individuato una stella formatasi 13,6 miliardi di anni fa. Una scoperta che ha permesso, per la prima volta, di studiare la composizione chimica delle primissime stelle e che fornirà indicazioni utili a meglio comprendere l’evoluzione dell’universo. Il team di ricercatori, diretto da Stefan Keller dell’Università Nazionale Australiana e comprendente il fisico Brian Schmidt, premio Nobel 2011, si è avvalso del telescopio ottico Sky Mapper a Siding Spring presso Coonabarabran, nell’entroterra di Sydney, per individuare la stella a 6000 anni luce di distanza. Il lavoro, pubblicato sulla rivista Nature, offre conoscenze sulla formazione degli elementi pesanti la cui concrezione ha poi formato i pianeti rocciosi, almeno uno dei quali, il nostro, ha dato origine alla vita. La stella fa parte della seconda generazione formatasi 100 milioni di anni dopo il Big Bang, che segnò la nascita del cosmo 13,7 miliardi di anni fa, ed è una fra i 60 milioni di stelle fotografate dall’enorme fotocamera digitale dello Sky Mapper. “È molto difficile scoprire stelle così antiche”, osserva Raffaelle Schneider, dell’Osservatorio Astronomico di Roma dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), coordinatrice del progetto europeo First, il cui obiettivo è studiare stelle e galassie primitive. “ È una stella poverissima di ferro”, ha osservato, come le altre quattro stelle più antiche finora note. Il ferro che contiene è 30 volte inferiore alla milionesima parte di quello contenuto nel Sole. Il carbonio è invece molto più abbondante. “Questa composizione – spiega la ricercatrice – fornisce un’indicazione importante sulle stelle della generazione precedente”, la prima comparsa dopo il Big Bang. “Le prime stelle erano molto massicce, centinaia di volte più grandi del Sole, e vivevano pochi milioni di anni: nascevano e morivano come fuochi artificiali”, aggiunge Schneider. Morivano esplodendo come supernovae, rilasciando nello spazio i loro elementi. Parte di questa materia veniva risucchiata nei buchi neri che si formavano in seguito all’esplosione, e parte sopravviveva nelle stelle delle nuove generazioni, come quella appena osservata dai ricercatori australiani. All’inizio sembrava una stella ordinaria, ma l’analisi della sua luce ne ha rivelato l’eccezionale composizione chimica. Con sorpresa dei ricercatori, la stella non aveva livelli rilevabili di ferro, e questo ne ha rivelato l’età. La scoperta e’ stata poi confermata usando il telescopio Magellano in Cile, le cui osservazioni indicano che la stella e’ composta solo di idrogeno, elio, carbonio, magnesio e calcio. Questo indicherebbe che la stella si e’ formata dai detriti di una singola supernova e che ne conserva anche leimpronte digitali.

Quando una stella muore

Una sorgente di raggi X si accende misteriosamente nel cielo e dopo qualche anno, altrettanto misteriosamente, scompare. Il luogo è una galassia nana distante circa 800 milioni di anni luce da noi, che fa parte del gigantesco ammasso di galassie Abell 1795. Un ‘caso’ complicato per i due team di astronomi che hanno studiato il fenomeno e che, indipendentemente,  sono giunti alle stesse conclusioni: il lungo lampo di raggi X, che è stato monitorato in più occasioni dal telescopio orbitante Chandra della NASA tra il 1999 e il 2005, altro non era che l’estremo segnale di una drammatica fine, quella di una stella avvicinatasi troppo a un buco nero e disintegrata dalla sua immane forza di attrazione gravitazionale. Un evento non troppo raro nell’universo: sono già noti infatti altri candidati episodi di distruzione stellare dovuta a buchi neri. A renderlo comunque eccezionale è però il fatto che sarebbe il primo ad essere stato osservato all’interno di una galassia di taglia relativamente piccola, che contiene circa 700 milioni di stelle. In paragone la Via Lattea ne possiede oltre cento miliardi. Questo implica che il buco nero responsabile del misfatto non sarebbe così massiccio come quelli supergiganti delle galassie ordinarie, ovvero con masse di milioni o miliardi di volte quella del Sole, ma ‘appena’ alcune centinaia di migliaia. Si collocherebbe quindi tra quelli di taglia stellare (dell’ordine di 10 masse solari) e, appunto , quelli ‘extralarge’. Categoria molto interessante per astronomi, che potrebbe rappresentare i progenitori di quelli supermassicci. Scoprire oggetti celesti di questo tipo potrebbe rivelarci come si sono evolute le prime galassie all’alba dell’universo. “Gli scienziati sono alla ricerca di questi buchi neri di massa intermedia per decenni”, sottolinea  l’italiano Davide Donato, in forza al Goddard Space Flight Center (GSFC) della NASA a Greenbelt, negli USA, che ha guidato uno dei due team coinvolti nello studio. “Finora abbiamo raccolto molte informazioni su quelli piccoli e quelli molto grandi, ma quelli intermedi sono difficili da caratterizzare”. Individuare il colpevole sarebbe stato pressoché impossibile se in questo caso gli scienziati non avessero avuto una grande quantità di osservazioni della stessa regione di cielo ripetute su un ampio intervallo di tempo, proprio come quelli di Chandra relativi all’ammasso Abell 1795, poiché quell’oggetto celeste viene puntato abitualmente dall’osservatorio orbitante per calibrare i suoi strumenti. “La stella distrutta dal passaggio troppo ravvicinato al buco nero è inosservabile, ma la liberazione di energia durante la sua distruzione invece lo è. E lo studio dell’emissione osservata, la sua intensità ed evoluzione con il tempo, ha permesso di associarla in maniera convincente ad un fenomeno di distruzione mareale (tidal disruption, in inglese), escludendo  altri fenomeni di interazione tra buco nero e materia per spiegare quanto osservato” dice Stefano Covino, dell’INAF, che insieme ai colleghi Sergio Campana e Dino Fugazza hanno collaborato con Donato allo studio, in pubblicazione sulla rivista The Astrophysical Journal.
di Marco Galliani (INAF)

Una terza stella nel sistema di Fomalhaut

È la 18esima stella più brillante visibile nel nostro cielo notturno e una delle poche stelle a possedere un esteso disco circumstellare di gas e polveri. È la stella principale della costellazione del Pesce Australe e dista dalla Terra circa 25 anni luce. Parliamo di Fomalhaut, al centro di una recente e interessante scoperta. Finora si è sempre pensato che Fomalhaut fosse una stella binaria, che si muove in coppia con la vicina stella TW Piscis Austrini, anche detta Fomalhaut B (da non confondere con Fomalhaut b, con la minuscola, che è invece un candidato esopianeta che sembra far parte del sistema). Adesso, alcuni ricercatori dell’Università di Rochester hanno dimostrato che in realtà si tratta di un sistema formato da tre stelle. In uno studio pubblicato su Astronomical Journal gli astronomi hanno provato che una stella vicina e molto più piccola è parte del sistema. I ricercatori guidati da Eric Mamajel hanno dovuto lavorare non poco per trovare Fomalhaut C. “Ho notato questa terza stella circa due anni fa quando stavo studiando i movimenti delle stelle prossime a Fomalhaut per un’altra ricerca”, ha detto. “Ho dovuto comunque raccogliere ulteriori dati e unirli ad altre osservazioni per determinare le caratteristiche di questa stella”. Oltre a una serie di osservazioni mirate, gli studiosi hanno affermato che la scoperta è stata affidata anche al caso. Quella che fino al quel momento era conosciuta come LP 876-10 si è rivelata poi, grazie al semplice calcolo della parallasse, parte del sistema di Fomalhaut. “Fomalhaut C appare piuttosto distante dalla stella più grande (Fomalhaut A) se si guarda nel cielo dalla Terra”, ha aggiunto Mamajek. Ci sono, infatti, circa 5,5 gradi tra le due stelle, ed è per questo che finora non era mai stato ipotizzato un legame fra le due. È molto probabile, inoltre, che le due stelle si muovano all’unisono. “Fomalhaut A è una stella di grande massa, due volte la massa del Sole, e quindi può esercitare abbastanza forza gravitazionale per tenere legata a sé questa piccola che pure è 158mila volte più distante da lei di quanto la Terra disti dal Sole”. Molte delle osservazioni sono state realizzate grazie al telescopio SMARTS da 0,9 metri al Cerro Tololo in Cile. Ci sono altri 11 sitemi stellari multipli molto più vicini al Sole rispetto a Fomalhaut, come ad esempio Alpha Centauri, ma quello analizzato da Mamajek è il più grande e massiccio mai studiato finora. Uno dei misteri che da sempre hanno affascinato gli studiosi di questo sistema stellare è il disco circumstellare di gas e polveri che lo circonda, molto simile a quello degli esopianeti. Nel 2006 Alice C. Quillen, collega di Mamajek, ha predetto l’esistenza di un pianeta nelle vicinanze di Fomalhaut, studiando i detriti nel disco e la sua orbita. Ma restano molti dubbi: Fomalhaut b, il pianete in questione, avrebbe infatti un’orbita molto eccentrica alla sua stella e anche i detriti non sembrano essere centrati rispetto a Fomalhaut A. Tutto questo, probabilmente, a causa dell’effetto delle orbite delle tre stelle. Mentre Fomalhaut C è una nana rossa – il tipo più comune di stelle nell’universo – Fomalhaut B è una nana arancione di circa tre quarti la massa del nostro Sole. L’età del trio è di circa 440 milioni anni – circa un decimo dell’età del nostro sistema solare.
di Eleonora Ferroni (INAF)

L’enigma della stella Matusalemme

La notizia è di quelle che non passano certo inosservate: è stata calcolata l’età di quella che ad oggi è la stella più antica che si conosca. Quanto antica? Secondo Howard Bond  della Pennsylvania State University e dei colleghi che lo hanno supportato nel suo lavoro, la stella girovaga nel cosmo da ben 14,5 miliardi di anni. Tanto, tantissimo tempo. Forse anche troppo. La cifra presa da sé infatti si scontra inevitabilmente con il valore oggi comunemente accettato di quello che è il suo ‘contenitore’ , ovvero l’universo stesso: 13,7 miliardi di anni. Un dilemma non da poco, dato che così la stella HD 140283 – questa la sua sigla ufficiale – avrebbe addirittura ‘visto’ accendersi il Big Bang. Una contraddizione in termini bella e buona. Cos’è allora che non funziona in questa storia? Intanto il fatto di considerare il risultato in modo assoluto. Il valore dell’età di questa stella va letto in una chiave più ‘probabilistica’. In tutte le misure dirette, e a maggior ragione quelle indirette o derivate, come nel caso di HD 140283, c’è sempre un margine di incertezza che dipende da tanti fattori, come la strumentazione, le condizioni di osservazione o le assunzioni teoriche che vengono utilizzate per arrivare al risultato finale. Equesta incertezza, nel caso in della stella ‘matusalemme’ è di circa 800 milioni di anni. Dunque HD 140283 potrebbe essersi accesa tra i 15,8 e i 13,7 miliardi di anni fa. E poiché anche l’età dell’universo porta con sé la sua indeterminazione, le due ‘finestre’ temporali si sovrappongono leggermente proprio attorno all’anno zero del cosmo.
Siamo ancora al limite della ragionevolezza fisica, poiché bisogna tenere in considerazione i tempi di formazione della stella primordiale, che hanno preceduto la sua accensione. Ma comunque un fondamentale passo avanti, dato che ad HD 140283, una vecchia conoscenza degli astronomi, fino a pochi anni fa veniva attribuita un’età addirittura di 16 miliardi di anni.
Ad aiutare Bond e i suoi colleghi in questo vero e proprio rompicapo è arrivato il ‘solito’ telescopio spaziale Hubble con le sue osservazioni, che hanno permesso di misurare con grande precisione la distanza della stella, fissandola a 190,1 anni luce da noi. Questo è stato il primo passo per ricavare in modo altrettanto sicuro la luminosità intrinseca dell’astro, un requisito indispensabile nella catena di calcoli che porta alla stima della sua età.
Con questo prezioso ingrediente per la ricetta dell’età, gli scienziati si sono buttati a capo fitto nelle simulazioni al computer che riguardano la velocità di bruciamento del combustibile nucleare della stella, l’abbondanza degli elementi chimici in essa presenti, la sua struttura interna. Tutte accortezze fondamentali per affinare il più possibile il risultato.
Alla fine siamo arrivati a un’età di 14,5 miliardi di anni, con un’incertezza residua che rende questo valore compatibile con quella dell’universo” commenta Bond. “Questa è la migliore stella nel cielo su cui compiere uno studio di precisione sulla sua età, in virtù della sua vicinanza e luminosità”.
Se potesse, HD 140283, ne avrebbe di cose da raccontare, dato che può essere considerato un testimone di tutta la storia dell’universo, dalla sua formazione fino ai giorni nostri. Nata in una galassia primordiale, poi disgregata e risucchiata dalla nostra Via Lattea, più di 12 miliardi di anni fa, HD 140283 porta nella sua traiettoria la memoria di questo ancestrale atto di cannibalismo cosmico. La sua elevata velocità di movimento rispetto al Sistema solare, pari a un milione e trecentomila chilometri l’ora, ci indica infatti che è solo di passaggio tra le stelle del nostro vicinato, provenendo dall’alone di astri che circonda la Galassia, composto da oggetti celesti antichissimi, dove sta tornando.
di Marco Galliani (INAF)

Giove, una stella mancata?

Giove è il pianeta più grande di tutto il Sistema Solare: la sua massa è pari a 2,5 volte quella di tutti gli altri pianeti messi insieme, e ciò gli consente di avere un ruolo importante nella meccanica celeste per le perturbazioni che esercita sulle orbite di tutti gli altri pianeti del Sistema Solare.
E’ 1500 volte più grande della Terra, ma la sua massa è solo 310 volte maggiore. La sua composizione è simile a quella della nebulosa solare. All’esterno, dove le temperature raggiungono i -150°C, è avvolto da uno strato di nuvole composte di ammoniaca ghiacciata, che gli conferiscono la tipica colorazione biancastra, con tinte rosso-marroni, dovute alla presenza di altri elementi fra cui lo zolfo, il fosforo e il metano. Sotto si trovano le nuvole di idrogeno ed elio.
I primi 1000 chilometri di spessore sono costituiti prevalentemente da questi due elementi allo stato gassoso. Scendendo più giù, con l’aumentare della pressione e quindi anche della temperatura, la miscela gassosa di idrogeno ed elio si trasforma gradualmente in una miscela liquida, dando origine al primo grande oceano di Giove, che raggiunge una profondità di circa 15000 chilometri.
Sotto questo primo oceano avviene una trasformazione: la miscela liquida molecolare di idrogeno ed elio diventa una miscela liquida metallica, in cui le molecole di idrogeno sono così compresse che i singoli atomi non sono più legati in esse e gli elettroni si staccano dagli atomi, vagando liberi. In queste condizioni si dice che l’idrogeno è “metallico” in quanto è un ottimo conduttore di elettricità.
Qui ha origine il secondo oceano che raggiunge una profondità di 45 mila chilometri. Entrambi gli oceani hanno una profondità complessiva di circa 60 mila chilometri. A confronto, gli oceani della Terra sono insignificanti, con la loro profondità media che non supera i 3 chilometri.
Sotto il secondo oceano si troverebbe un nucleo roccioso fuso o parzialmente fuso, 10 volte più grande della nostra Terra, ma molto compresso.
Il pianeta irradia nello spazio da 1,5 a 2 volte più calore di quanto ne riceve dal Sole, questo significa che ha una sorgente interna di calore, che deriva quasi certamente dall’enorme quantità di energia accumulata durante la formazione del pianeta e grazie alla sua continua contrazione.
Si pensa che se Giove avesse avuto una massa 70 volte maggiore, la pressione e la temperatura delle regioni centrali sarebbero state tali da innescare le reazioni termonucleari che lo avrebbero fatto “accendere”, diventando così una stella.
E’ stata una fortuna per noi che ciò non sia avvenuto, perché i pianeti avrebbero seguito orbite completamente diverse, probabilmente molto ellittiche e inclinate, e conseguentemente temperature e composizioni chimiche pure diverse. In uno scenario simile, un pianeta come la Terra con molta probabilità non si sarebbe potuto formare; ma anche se ciò fosse accaduto certamente non avrebbe potuto ospitare la vita. Supponiamo tuttavia che la Terra si fosse formata lo stesso e su di essa fosse apparsa anche la vita: quale spettacolo si presenterebbe ai nostri occhi in presenza di una stella doppia? Vedremmo due stelle brillare nel cielo, una più grande e più luminosa, il Sole con la luce che conosciamo, l’altra più piccola e molto meno luminosa, Giove, splendente di una luce fioca rossastra. La mescolanza delle due fonti luminose creerebbe una colorazione particolare: non vedremmo più l’azzurro del nostro cielo e del mare, né le aurore argentate, né i tramonti infuocati; saremmo immersi in una luce tendente all’arancione, le montagne e gli oggetti sulla Terra proietterebbero due ombre diverse. Anche le stagioni sarebbero diverse, come pure i loro colori, e diversi sarebbero anche i processi che regolano la vita. Non solo, mentre il Sole illuminerebbe un emisfero terrestre, Giove potrebbe illuminare quello opposto. I due emisferi terrestri avrebbero così colori diversi, che si alternerebbero nell’arco di 12 ore, se la durata del giorno rimanesse invariata. L’emisfero illuminato dal Sole sarebbe caldo, quello illuminato da Giove freddo, con escursioni termiche consistenti nell’arco di poche ore e con conseguenze rilevanti sull’ambiente e su ogni forma di vita presente sul nostro pineta. Così sulla Terra regnerebbe solo il giorno, non avremmo più le notti, né il nostro cielo stellato, né le sere di Luna Piena, né potremmo ammirare le bellezze dell’Universo che ci circonda.
Avremmo la terribile sensazione di vivere su un mondo unico, soli in tutto l’Universo, perché la sua vita ci sarebbe per sempre negata.
La prima sonda spedita su Giove fu Pioneer 10 che raggiunse il pianeta nel 1973, trasmettendoci 23 immagini; seguì nel 1974 il Pioneer 11. Poi nel 1979 due importanti sonde, le Voyager, ci fornirono una grande quantità di dati e osservazioni che ci hanno consentito di conoscere per la prima volta il vero volto del pianeta e dei suoi satelliti maggiori. Le notizie delle Voyager sono state confermate e accresciute da un’altra importante missione, la Galileo, che ha studiato il sistema gioviano dal 1995 al 1999.
L’atmosfera visibile di Giove ha una dinamica molto complessa e turbolenta che rispecchia il tormentato stato di ribollimento che avviene al suo interno.
Da Terra, anche con piccoli telescopi, si vede chiaramente che il pianeta è attraversato da fasce chiare e scure alternate, parallele all’equatore. Le fasce chiare si trovano ad un livello più alto e sono costituite da materiale caldo proveniente dall’interno; le fasce più scure, a un livello più basso, sono costituite da materiale ormai raffreddatosi che si appresta precipitare verso l’interno, per riscaldarsi di nuovo e risalire in superficie in un ciclo continuo di movimenti ascensionali e discensionali. Questi movimenti fanno distendere la materia lungo le fasce nelle quali spirano venti impetuosi che all’equatore raggiungono velocità di oltre 600 Km/h. E se in una fascia questi venti viaggiano da est verso ovest nella fascia adiacente si muovono in senso contrario, perciò lungo le linee di contatto si formano enormi vortici che possono durare mesi, anni e persino secoli. Il più grande e duraturo è la Grande Macchia Rossa vista per la prima volta dall’astronomo Hooke nel 1664, quasi tre volte più grande della Terra. In pratica si tratta di un enorme anticiclone.
Le turbolenze e i vortici che si osservano nelle alte nuvole di Giove sono animati da potenti movimenti convettivi che trasportano continuamente calore dalle regioni interne verso l’esterno, consentendo così all’astro il suo lento ma continuo raffreddamento.
Inoltre, è stata riscontrata nelle nuvole di Giove un’abbondanza anomala di gas nobili e questo è un mistero. L’unico modo per poterlo capire consiste nell’assumere che Giove si sia formato in una regione dello spazio più lontana e quindi più fredda di quella dove si trova attualmente e che nel corso dei miliardi di anni si sia pian piano avvicinato al Sole. Questo fa sorgere un dubbio inquietante e cioè che il processo di avvicinamento di Giove al Sole potrebbe ancora non essere esaurito. Se così fosse potrebbero esserci conseguenze terribili per le orbite dei pianeti interni, Terra compresa.
Giove è circondato da un sistema di tre anelli, invisibili da Terra anche con i più potenti telescopi. In essi sono immersi i quattro satelliti più interni: Metis, Adrastea, Amalthea e Thebe. Gli anelli si rinnovano di continuo: a ricostituire le particelle piccolissime di polvere che cadono pian piano sul pianeta sono quasi certamente gli impatti di meteoriti su questi satelliti; è anche probabile che gli anelli siano alimentati da materiali scagliati nello spazio dalle violente eruzioni vulcaniche del più interno dei satelliti maggiori di Giove, Io.
Francesco Biafore “In viaggio nel Sistema Solare” pagine 89-93