Supernova con buco nero nella Fenice

Pochi istanti per esplodere, tanti anni per essere studiata e rivelare la sua complessa evoluzione. E’ un destino che si incrocia e parte da lontano quello che segna l’apparizione della supernova 1996al e l’attività di ricerca di Stefano Benetti, astronomo dell’INAF, ora in forza all’Osservatorio Astronomico di Padova. Lui e il suo team in gran parte composto da colleghi dell’INAF, ha in pubblicazione un articolo che è un po’ la ‘summa’ di quasi 20 lunghi anni di raccolta dati e indagini. La storia inizia appunto nel luglio del 1996, quando la supernova apparve in NGC 7689, una bella galassia a spirale distante da noi circa 75 milioni di anni luce, in direzione della costellazione della Fenice. Stefano era allora un giovane astronomo presso l’osservatorio ESO (European Southern Observatory) a La Silla, in Cile, che lì aveva il compito di gestire il programma dedicato ai Target of Opportunity, ovvero quelle osservazioni in cui il tempismo è fondamentale. Come appunto per le esplosioni di supernova, non prevedibili e che richiedono, per ottenere il massimo delle informazioni scientifiche, misure quanto più prossime al tempo della loro prima apparizione in cielo. E così, partono una serie di osservazioni con i migliori strumenti a disposizione dello European Southern Observatory sulle Ande cilene, che nel tempo hanno visto coinvolti anche il Very Large Telescope e gli spettrografi FORS2 e XShooter, ed eseguite all’interno di programmi osservativi guidati dai membri del gruppo di ricerca sulle supernovae presso le strutture INAF di Padova e Asiago. I tanti dati accumulati ed elaborati, sintetizzati nel lavoro che comparirà sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, tracciano un quadro dettagliatissimo della storia di SN1996al: classificata come una supernova di tipo II lineare, nella sua fase di massima luminosità ha brillato come più di un miliardo di soli. Tipo II significa che lo spettro ricavato dalla sua radiazione è dominato dalla presenza di righe dell’Idrogeno; lineare significa che la curva di luce segue un andamento lineare (in magnitudine) dopo il massimo. Grazie alle accurate misure spettroscopiche, il team è riuscito a calcolare anche la velocità con cui si stanno allontanando i resti della stella esplosa come supernova, prossima ai quaranta milioni di chilometri l’ora. Ma non solo: è anche riuscito a dedurre che questi brandelli stellari si stavano muovendo all’interno di altro materiale, perso dalla stella progenitrice prima dell’esplosione e in moto a velocità almeno dieci volte più basse. «Probabilmente, questo materiale circumstellare non era distribuito uniformemente attorno alla stella, ma era soprattutto distribuito su un disco la cui estensione era maggiore di 0.5 anni luce» spiega Benetti. «Dunque la stella ha perso questo disco di materia in modo costante per molto tempo prima di esplodere». «Fatto insolito per questi tipi di studi, abbiamo rintracciato in dati di archivio la luce emessa dalla stella progenitrice nella riga H-alfa dell’idrogeno ionizzato, otto anni prima di esplodere» aggiunge Benetti. «Questa osservazione fondamentale ci ha detto che l’oggetto celeste inizialmente era una stella abbastanza massiccia, con una massa 25 volte quella del Sole». «Questo – prosegue l’astronomo – insieme allo studio della variazione della luminosità  e velocità  della supernova, ci ha portato con il tempo ad ipotizzare che la stella progenitrice di SN 1996al abbia prodotto un’esplosione intrinsecamente abbastanza debole (circa dieci volte più debole di una supernova “normale”), dove la maggior parte della materia che formava la stella non è stata espulsa nell’esplosione, ma è ricaduta sul remnant, ovvero il residuo densissimo del nucleo stellare sopravvissuto alla catastrofica deflagrazione. Quindi, al centro della zona dove è avvenuta l’esplosione ora ci dovrebbe essere un buco nero avente una massa di circa 7-8 masse solari! Potremmo aver così osservato per la prima volta la fine di una stella massiccia, altrimenti destinata ad una fine oscura ed anonima (come previsto dalle teorie di evoluzione stellare) se non avesse avuto attorno una nebulosa che ha reso l’ultimo suo bagliore non solo notevolmente più luminoso, ma anche estremamente protratto nel tempo.»
di Marco Galliani (INAF)

Un gigantesco alone di gas circonda le galassie a spirale

Rivoluzione in arrivo per le stime di massa delle galassie a spirale? A quanto pare la risposta è affermativa: i nuovi valori saranno tutti, e di parecchio,  con il segno ‘più’. Ne sono convinti John Stocke (professore della Università del Colorado a Boulder) e i suoi collaboratori, che hanno presentato ieri a Edimburgo, in Scozia, i risultati del loro ultimo studio sull’argomento in occasione della conferenza “Intergalactic Interactions”. Risultati ottenuti grazie alle indagini con lo spettrografo COS (Cosmic Origins Spectrograph) a bordo del telescopio spaziale Hubble, che ha osservato la presenza di un esteso alone di gas attorno alle galassie a spirale, in grado di raggiungere dimensioni anche di un milione di anni luce. Per paragone, il diametro della Via Lattea è di circa 100.000 anni luce. Ma qual’è l’origine di questa smisurata coltre che avvolge le galassie? Secondo i ricercatori il gas proviene dalle esplosioni di supernova che avvengono all’interno delle galassie e che proiettano al loro esterno grandi quantità di materia. “Questo gas si accumula e poi viene riciclato in questi estesi aloni, per poi ricadere all’interno delle galassie, alimentando un nuovo ciclo di formazione stellare” spiega Stoke. I valori in gioco delle masse di gas sono enormi e, sorprendentemente, comparabili a quelli di tutte le stelle che popolano le rispettive galassie. Per ottenere questi risultati, il team di ricercatori ha sfruttato la luce dei quasar più remoti, analizzandone il comportamento della componente ultravioletta nel suo passaggio attraverso il gas degli aloni  nelle galassie più vicine, poste lungo la nostra linea di vista. La luce raccolta dallo spettrografo porta con sé le tracce delle interazioni avute lungo il suo cammino con il gas degli aloni e, una volta scomposta, ne rivela  informazioni fondamentali come la loro temperatura, la loro densità, velocità, distanza e composizione chimica. “Gli studi su questo gas ‘circumgalattico’ stanno muovendo solo ora i primi passi” commenta Michael Shull, anch’egli professore dell’Università del Colorado, che ha partecipato allo studio. “Considerando però che COS dovrebbe continuare a rimanere attivo per almeno altri cinque anni, dovremmo essere in grado di confermare i risultati che emergono da queste prime indagini, ottenere nuovi e più affidabili risultati e analizzare altre galassie a spirali nell’universo”.
di Marco Galliani (INAF)

Violento scontro tra galassie

Quando due galassie si incontrano, il risultato può essere una felice e pacifica unione, o la distruzione di entrambe. Purtroppo per il duo di galassie noto come Arp 142, qui ripreso dal telescopio spaziale Hubble, a loro è toccato il secondo caso. Al centro di questa immagine è NGC 2936, una delle due galassie interagenti che formano Arp 142 (che deve il suo nome all’astronomo americano Halton Arp che catalogò negli anni Sessanta le galassie di forma più strana). Poco sotto il centro dell’immagine si distingue (in blu) quel che resta del nucleo centrale, mentre quelli che un tempo erano i bracci a spirale si allungano in strisce blu e rosse a forma di arco. Queste ultime sembrano avvolgere la galassia compagna, la galassia ellittica NGC 2937, visibile come un ovale bianco. La forma del duo ricorca la sagoma di un pinguino che cova un uovo: il nucleo di NGC2936 è l’occhio del pinguino, gli ex bracci a spirale sono il corpo e la seconda galassia è l’uovo. La bizzarra struttura è il risultato delle violente interazioni gravitazionali che avvengono tra le due galassie, abbastanza vicine da scambiarsi materiale in un modo che ne altera completamente la struttura. Nell’immagine si vedono anche diverse altre galassie che sono in realtà più vicine alla Terra (nel caso di quella azzurra nella parte alta) o più lontane (quelle rosse in basso), e non giocano alcun ruolo nell’interazione di queste due.

Le forti braccia delle galassie a spirale

Le galassie a spirale sono tra oggetti più studiati e affascinanti dell’Universo. Anche la Via Lattea ha questa forma e il Sistema Solare risiede vicino a uno dei bracci spirali che la formano. Ma il modo in cui si formano i bracci di queste galassie a spirale è ancora un punto interrogativo per gli astronomi. Un team di ricercatori dell’Università del Wisconsim a Madison e del Harvard-Smithsonian Center ha provato a trovare delle risposte con un nuovo studio pubblicato su The Astrophysical Journal. Gli astrofisici guidati da Elena D’Onghia hanno elaborato delle simulazioni al computer per studiare il movimento di 100 milioni di “particelle” (che rappresentano le stelle) che formano i bracci delle galassie a spirale. “In questo modo mostriamo per la prima volta – ha detto l’autrice dello studio – che i bracci di spirale non sono strutture temporanee, come pensato per molti decenni”. Sono invece persistenti e hanno una vita molto lunga. Per anni gli astrofisici hanno dibattuto tra due teorie: una afferma che queste spirali vanno e vengono con lo scorrere del tempo e sono legate a condizioni locali come maggiore o minore presenza di gas e stelle in formazione; un’altra tesi, la più sostenuta in ambito accademico, afferma che il materiale che compone i bracci, quindi stelle, polvere e gas, viene influenzato dalla forza di gravità, che lega e mantiene il materiale unito in quella forma per un lungo periodo di tempo. I dati ottenuti dal nuovo studio si collocano a metà strada tra le due teorie: le spirali si formano a causa di grandi nubi molecolari – le zone di formazione stellare –  che nelle simulazioni agiscono da “perturbatori” e sono sufficienti sia a dare vita ai bracci a spirale sia a tenerli assieme per un tempo indefinito. Ma i ricercatori hanno notato che anche quando le “perturbazioni” (le nubi di gas) vengono eliminate, le spirali rimangono al loro posto, autoperpetrandosi. Ed è qui che entra in gioco la forza di gravità.
di Eleonora ferroni (INAF)

Sotto il dominio del Grande Attrattore

L’ultima immagine prodotta da Hubble, il telescopio spaziale di NASA ed ESA, ritrae una piccola porzione di spazio in cui è possibile vedere un folto gruppo di stelle luminose e, in secondo piano, numerose galassie.
La zona catturata dall’obiettivo di Hubble si trova al confine tra le costellazioni del Triangolo Australe e di Norma (detta anche Regolo). Comprende buona parte delle galassie dell‘ammasso del Regolo (o Abell 3627) e parte di una densa area della Via Lattea. L’ammasso del Regolo è l’ammasso stellare di grande massa più vicino a noi, trovandosi a circa 220 milioni di anni luce di distanza. La grande massa concentrata in quella zona, e la conseguente attrazione gravitazionale, fa sì che la zona sia chiamata il Grande Attrattore, una struttura che domina la nostra regione di Universo attraendo le galassie circostanti per centinaia di milioni di anni luce.
Questa immagine è costituita da esposizioni in luce blu e infrarossa ottenute dalla Advanced Camera for Surveys (ACS) di Hubble.
Come si può notare, la più grande galassia fotografata da Hubble in questa nuova immagine è ESO 137-002, una galassia a spirale. Attorno alla galassia è possibile vedere grandi regioni di polvere stellare. Quello che, in realtà, non possibile vedere nell’immagine è la lunga coda di raggi X che si estende oltre la galassia, invisibile per uno strumento ottico come Hubble.
Il Grande Attrattore è difficile da osservare a lunghezze d’onda ottiche, anche perché il lungo piano della Via Lattea illumina (con le sue numerose stelle) e allo stesso tempo oscura (di polvere) molti oggetti limitrofi. Gli astronomi hanno molti trucchi per superare il problema, come le  osservazioni a raggi infrarossi o radio, ma la regione dietro il centro della Via Lattea, dove la polvere è più spessa, rimane un mistero.
di Eleonora Ferroni (INAF)